Sostiene di avere una
memoria da elefante. Gli chiedo per farne cosa. Per ricordarmi di
tutte le offese subite, risponde. Sono tante? Domando. Mi guarda da
un punto in penombra della stanza dove siamo e dice che un altro al
posto suo avrebbe perso il conto. Giampiero Mughini ha 78 anni e un
carattere di non facile decifrazione. O meglio: tutto in lui
indurrebbe a pensare al temperamento orgoglioso che facilmente
scivola nell’ira. Mi rendo conto che il personaggio possa apparire
antipatico a coloro che praticano l’arte dell’understatement e
che la sua popolarità tragga forza e riconoscibilità dall’essere
proprio così: teatrale, vistoso ( perfino nel vestire), gestuale e a
tratti ruvido. Ma sono convinto altresì che una voce dentro di lui,
non quella metallica e assertiva, ci implori di credere a un altro
Mughini: meno aspro, più dolce, più dubbioso e tollerante. Non so
se sia davvero così acceso il contrasto, ma quello che noto in lui è
una lealtà di fondo mista a un’ossessione che lo porta a fare
costantemente i conti con il proprio passato. Nel quale scava e si
tormenta come in quest’ultimo libro Memorie di un rinnegato,
appena pubblicato da Bompiani.
Com’è il rapporto
con la tua memoria?
«Eccellente, non
dimentico soprattutto gli insulti».
Rinnegato ti chiamò
Marco Bellocchio, in che occasione?
«Eravamo in uno studio
televisivo. Io facevo le domande, lui doveva rispondere. Gli chiesi,
visto il suo coinvolgimento nel Sessantotto, se c’era niente di
quel periodo che avrebbe messo in discussione. Poteva darmi una
risposta meditata. Glissare. Scelse l’insulto: meglio aver
partecipato a quei cortei piuttosto che essere diventato un
rinnegato. Era evidente l’allusione a me».
Perché era evidente?
«Perché l’anno prima,
cioè nel 1987, era uscito Compagni addio, un mio bilancio
sulle penose e tragiche vicende che riguardarono quegli anni. Sui
cattivi maestri, molti dei quali non fecero mai autocritica.
Personalmente mi dimisi presto dal Sessantotto ».
Come fosse una
professione?
«Non si distingueva poi
tanto tra la vita privata e l’impegno. Vivevo a Catania quando, più
che ventenne, fondai insieme ad altri Giovane Critica, una rivista
che all’inizio si occupava di cinema e che in seguito allargò lo
sguardo al mondo della politica e ai fermenti che avrebbero condotto
al Sessantotto».
In che anno nacque la
rivista?
«Alla fine del 1963.
Ricordo un abbonamento sostenitore che ci arrivò da Luciano Della
Mea, fratello di Ivan. Fui sorpreso perché Luciano, nonostante fosse
un intellettuale importante, viveva in grandi ristrettezze
economiche. Ringraziandolo del gesto, gli rispedii i soldi.
Diventammo amici. Per me fu un fratello maggiore. Anche se il
rapporto tra noi si ruppe. Non ci sentivamo più da tanto, quando nel
2000 ricevetti una sua lettera che mi ferì profondamente».
Cosa c’era scritto?
«Commentava l’Italia
di fine millennio, sciatta, miserabile e deludente. E concludeva con
due righe sprezzanti: mentre questo paese va in pezzi tu te ne stai
acquattato e sazio in un angolo. Acquattato? Sazio? Sentii
quell’offesa bruciarmi. Gli rispedii la lettera senza alcun
commento. E poi, un anno e mezzo dopo, Luciano è morto. Di tutte le
fratture quella fu la più dolorosa».
Forse avresti dovuto
accettare la provocazione, capire cosa l’avesse motivata.
«Mi chiedo tuttora il
perché della mia reazione. Da tempo avevo seppellito il mio passato,
denunciando tutte le cazzate che avevamo fatto a sinistra. Mi
ritrovai solo e frustrato. Una condizione in qualche modo simile a
quella che avevo vissuto nell’infanzia».
Spiegati meglio.
«Sono figlio di due
separati. Oggi è normale ma nella Catania della fine degli anni
Quaranta ero visto alla stregua di un paria».
Che età avevi quando
i tuoi genitori si separarono?
«Cinque anni, il tempo
che era durato il loro matrimonio. Si conobbero in treno, mio padre
vedovo, già con due figli e mia madre giovanissima. C’erano tra
loro vent’anni di differenza».
Fu questa la ragione
della separazione?
«No, penso che alla fine
mia madre non sopportasse più la sua durezza. Decise lei di rompere
e puoi immaginare cosa significava quella scelta per una donna ancora
giovane, in un posto come Catania. Le voci, le allusioni, i
sorrisetti. Ho odiato quella città».
Come vivevate?
«Male. Papà non passava
soldi. C’erano le 60 mila lire di pensione del nonno, che era stato
professore di stenografia. Giravo con un solo paio di scarpe. Buone
per la festa, per i giorni feriali, per giocare in strada. Non ci
potevamo permettere né il telefono né il frigorifero né il
televisore, che andavamo a vedere da certi cugini ricchi. In casa non
c’era un libro. Provavo vergogna per la mia vita».
Frequentavi tuo padre?
«Andavo a pranzo da lui
tre o quattro volte al mese. Poi un giorno mi disse: tu sai che la
mamma ha un uomo? Allora ero timidissimo. Ma trovai il coraggio per
dirgli che era nel suo pieno diritto. Mi guardò stupito e non disse
più nulla».
Cosa faceva tuo padre?
«Le sue origini erano
toscane. Fervente fascista, lavorò per un’azienda legata alla
Fiat, che a un certo punto lo spedì a Catania. Decise di cambiare
lavoro e aprì un piccolo studio da commercialista. A un certo punto
cominciò a passarmi una paghetta di 6 mila lire al mese che negli
anni del boom divennero 30 mila. Spendevo quasi tutti i soldi in
libri. Cominciai a leggere seriamente dopo i 19 anni. Feci
l’università prima a Catania e poi a Roma, dove mi laureai tardi.
Ci fu anche una fuga a Parigi, dove vissi per due anni. Fu quello il
periodo al quale faccio risalire il mio atto di nascita. Poi nel 1970
decisi di abbandonare definitivamente Catania per andare a vivere a
Roma».
Che città
incontrasti?
«Bellissima con le sue
trattorie abbordabili, i suoi vicoli, e l’eterno barocco. Ma dovevo
mantenermi. Non avevo soldi. Portavo con me una macchina da scrivere
che mi era stata regalata da mio fratello. Era chiaro il mestiere che
volevo fare. Cominciai a scrivere per la rivista “Astrolabio”.
Ogni articolo mi veniva pagato 25 mila lire. In redazione c’era
anche Tiziano Terzani. A un certo punto ci liquidarono perché
considerati troppo di sinistra. Tiziano partì per l’Oriente. Io mi
imbarcai nell’impresa del “manifesto”. Ma anche lì non è
durata a lungo».
Perché?
«Per un dissidio con
Lucio Magri. Voleva un giornale che si autocelebrasse. Io volevo un
giornale vero. Spiegai le mie dimissioni con una lettera a Luigi
Pintor».
Di nuovo in mezzo alla
strada.
«Di nuovo la miseria.
Per quanto la città in quegli anni potesse essere a buon mercato,
non ce l’avrei fatta a sopravvivere. Mio padre morì nel 1973.
Nonostante tutto fu un duro colpo. Avevo cominciato ad apprezzarlo.
Lui, fascista, non disse mai nulla delle mie scelte politiche di
sinistra. Anzi, quando la rivista “Giovane Critica” cominciò ad
avere problemi finanziari, fu il ragionier Mughini a prendere in mano
l’amministrazione e a far quadrare i conti. Quando morì, il
giornale “La Sicilia” pubblicò due pagine di necrologi su di
lui. Scoprii, con mia sorpresa, che fu anche un uomo amato e
apprezzato».
Te lo sei portato
dentro.
«Per me c’è un prima
e un dopo la sua morte».
Un dopo cosa vuol
dire?
«Provai a fare i conti
con l’intolleranza che in quegli anni si viveva nel nostro paese.
Rigettai tutta la muffa ideologica del marxismo-leninismo, le
aberrazioni del maoismo e mi avvicinai a quegli intellettuali che
avevano capito la lezione del 1956. Non ho mai avuto tessere, ma ho
quasi sempre lavorato per giornali e riviste di sinistra:
“Mondoperaio” che fu il mensile politico secondo me più bello a
cavallo degli anni Settanta e Ottanta; “Paese Sera” prima con
Arrigo Benedetti poi con Aniello Coppola. Godendo di grande libertà.
Ma l’esperienza più bella e formativa l’ho avuta con Claudio
Rinaldi, che ha diretto tutti e tre i grandi magazine. È stato il
migliore direttore della mia generazione. Quante belle cose ancora
avrebbe potuto fare se la morte non se lo fosse portato via».
La tua storia, diciamo
tra politica, saggistica e giornalismo in che modo si concilia con la
televisione?
«Mi pagano e io do
valore al denaro. Consentendomi di dire tutto quello che voglio».
Davvero ti senti
libero?
«Ho scelto di fare una
televisione popolare. A me non interessava il programmino notturno in
cui ti avvolgi in profonde elucubrazioni mentali. Per me fare la
televisione in fasce normali di ascolto è stato come entrare in un
luogo che non è casa mia, che non somiglia a casa mia e che si
rivolge a un pubblico che non è quello che di solito frequento
privatamente e al quale mi rivolgo con un linguaggio abbordabile,
senza smentire di una virgola quello che sono stilisticamente».
Ti soddisfa davvero
questa autoassoluzione?
«Perché non dovrebbe? E
poi non mi sto giudicando, né assolvendo. Lascio agli altri il
compito di farlo».
Le tue frequentazioni
televisive non ti hanno reso un po’ pittoresco?
«Cosa vuol dire
pittoresco?»
Sei vivace,
riconoscibile, plateale. Televisivamente puoi aspirare alla maschera
"Mughini".
«La televisione non è
tutta uguale. Ci sono un linguaggio e dei tempi che devi rispettare.
Per me è stata anche una scuola formidabile».
In che senso?
«Nello scrivere, per
esempio, ho tenuto conto di quello che avevo sperimentato in
televisione. Poi tu dici: pittoresco. Penso che alla fine ognuno
risponda di se stesso. E sono pronto ad affrontare qualsiasi
"processo di Norimberga"».
Non ho dubbi. Anche se
penso che nella tua vita, nel modo con cui hai chiuso certi rapporti,
fino ai tuoi approdi televisivi, ci sia una forte componente
teatrale.
«Non ci ho mai pensato.
Forse è un retaggio della mia sicilianità».
Pesano le tue origini?
«Moltissimo. Nel senso
che le detesto. E credo di avertelo spiegato».
So che sei anche un
collezionista.
«Lo sono diventato. Ho
collezionato tra l’altro un intero catalogo in edizione futurista
composto da 53 libri. Di lì altre avventure nel Déco e nel
Liberty».
Ti piace il Novecento?
«Un grande secolo, nel
bene e nel male».
Cosa ti attrae del
collezionismo?
«L’aspetto conoscitivo
e soprattutto quello erotico. Erotismo di testa, beninteso».
Applicabile anche alle
donne?
«Nella mia vita le donne
hanno contato più per la loro assenza che per la presenza. Tranne
Michela, che è la compagna con cui vivo ormai da anni, l’unica
reale, le altre sono state immaginazione, scacco, sopravvalutazione.
Frutto appunto di un erotismo di testa».
Ti senti un
privilegiato?
«Non ho mai goduto di
privilegi: né di casta né frutto di compromessi. Nella mia vita ho
cercato solo di arrancare. Beccandomi anche un paio di depressioni».
Quando?
«La prima a cavallo tra
il 2014 e il 2015. Improvvisamente ebbi la sensazione di stringere
sabbia tra le mani. Fui sorpreso. Spaventato. Da quella tristezza
così invasiva. Farmi una doccia era un problema. Mangiare un boccone
di riso era come avere un montone nel piatto. Leggere libri era
impossibile. Scrivere non ne parliamo. Fu un momento buio della mia
vita. Poi la seconda depressione è arrivata nel 2017. L’ho curata
con i farmaci. E ne sono uscito abbastanza presto».
Temi che possa
arrivarne una terza?
«Gli esperti dicono che
è possibile. Sono come una sentinella che aspetta l’arrivo del
vuoto. Vedi, c’è una parte di me divorata da un pessimismo
assoluto. Non mi aspetto niente da nessuno. Forse anche questo è un
tratto della mia sicilianità».
Torni mai in Sicilia?
«Da quando è morta mia
madre, nel 2000, non sono mai tornato. Non c’è nulla più che mi
lega a quella terra. Se non il ricordo di quella donna che ancora mi
fa soffrire».
Perché?
«Anche mia madre cadde
in depressione. Alla fine non parlava più, non comunicava più. Al
telefono le chiedevo come stava, la imploravo di dirmi qualunque
cosa. Ma lei taceva. La misi in una casa di riposo dove avrebbero
potuto accudirla. Morì dopo due mesi. Per lungo tempo ho vissuto con
un senso di colpa atroce. Ma che potevo fare?».
Che cos’è la morte
degli altri?
«È la metafora della
tua morte. Ricordo che andavo a trovare Antonello Trombadori a casa.
Era già molto malato. Gli parlavo della politica, del Pci, delle
manifestazioni. Dei compagni che aveva conosciuto, amato, detestato.
E lui mi disse: Giampiero non ti seguo, scusa. Ecco, la morte è
anche questo, perdere l’attenzione per tutto quello che hai creduto
dovesse essere o rimanere importante».
Robinson – la
Repubblica, 5 maggio 2019
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