19.8.19

Il rinnegato. Intervista a Giampiero Mughini (Antonio Gnoli)



Sostiene di avere una memoria da elefante. Gli chiedo per farne cosa. Per ricordarmi di tutte le offese subite, risponde. Sono tante? Domando. Mi guarda da un punto in penombra della stanza dove siamo e dice che un altro al posto suo avrebbe perso il conto. Giampiero Mughini ha 78 anni e un carattere di non facile decifrazione. O meglio: tutto in lui indurrebbe a pensare al temperamento orgoglioso che facilmente scivola nell’ira. Mi rendo conto che il personaggio possa apparire antipatico a coloro che praticano l’arte dell’understatement e che la sua popolarità tragga forza e riconoscibilità dall’essere proprio così: teatrale, vistoso ( perfino nel vestire), gestuale e a tratti ruvido. Ma sono convinto altresì che una voce dentro di lui, non quella metallica e assertiva, ci implori di credere a un altro Mughini: meno aspro, più dolce, più dubbioso e tollerante. Non so se sia davvero così acceso il contrasto, ma quello che noto in lui è una lealtà di fondo mista a un’ossessione che lo porta a fare costantemente i conti con il proprio passato. Nel quale scava e si tormenta come in quest’ultimo libro Memorie di un rinnegato, appena pubblicato da Bompiani.

Com’è il rapporto con la tua memoria?
«Eccellente, non dimentico soprattutto gli insulti».

Rinnegato ti chiamò Marco Bellocchio, in che occasione?
«Eravamo in uno studio televisivo. Io facevo le domande, lui doveva rispondere. Gli chiesi, visto il suo coinvolgimento nel Sessantotto, se c’era niente di quel periodo che avrebbe messo in discussione. Poteva darmi una risposta meditata. Glissare. Scelse l’insulto: meglio aver partecipato a quei cortei piuttosto che essere diventato un rinnegato. Era evidente l’allusione a me».

Perché era evidente?
«Perché l’anno prima, cioè nel 1987, era uscito Compagni addio, un mio bilancio sulle penose e tragiche vicende che riguardarono quegli anni. Sui cattivi maestri, molti dei quali non fecero mai autocritica. Personalmente mi dimisi presto dal Sessantotto ».

Come fosse una professione?
«Non si distingueva poi tanto tra la vita privata e l’impegno. Vivevo a Catania quando, più che ventenne, fondai insieme ad altri Giovane Critica, una rivista che all’inizio si occupava di cinema e che in seguito allargò lo sguardo al mondo della politica e ai fermenti che avrebbero condotto al Sessantotto».

In che anno nacque la rivista?
«Alla fine del 1963. Ricordo un abbonamento sostenitore che ci arrivò da Luciano Della Mea, fratello di Ivan. Fui sorpreso perché Luciano, nonostante fosse un intellettuale importante, viveva in grandi ristrettezze economiche. Ringraziandolo del gesto, gli rispedii i soldi. Diventammo amici. Per me fu un fratello maggiore. Anche se il rapporto tra noi si ruppe. Non ci sentivamo più da tanto, quando nel 2000 ricevetti una sua lettera che mi ferì profondamente».

Cosa c’era scritto?
«Commentava l’Italia di fine millennio, sciatta, miserabile e deludente. E concludeva con due righe sprezzanti: mentre questo paese va in pezzi tu te ne stai acquattato e sazio in un angolo. Acquattato? Sazio? Sentii quell’offesa bruciarmi. Gli rispedii la lettera senza alcun commento. E poi, un anno e mezzo dopo, Luciano è morto. Di tutte le fratture quella fu la più dolorosa».

Forse avresti dovuto accettare la provocazione, capire cosa l’avesse motivata.
«Mi chiedo tuttora il perché della mia reazione. Da tempo avevo seppellito il mio passato, denunciando tutte le cazzate che avevamo fatto a sinistra. Mi ritrovai solo e frustrato. Una condizione in qualche modo simile a quella che avevo vissuto nell’infanzia».

Spiegati meglio.
«Sono figlio di due separati. Oggi è normale ma nella Catania della fine degli anni Quaranta ero visto alla stregua di un paria».

Che età avevi quando i tuoi genitori si separarono?
«Cinque anni, il tempo che era durato il loro matrimonio. Si conobbero in treno, mio padre vedovo, già con due figli e mia madre giovanissima. C’erano tra loro vent’anni di differenza».

Fu questa la ragione della separazione?
«No, penso che alla fine mia madre non sopportasse più la sua durezza. Decise lei di rompere e puoi immaginare cosa significava quella scelta per una donna ancora giovane, in un posto come Catania. Le voci, le allusioni, i sorrisetti. Ho odiato quella città».

Come vivevate?
«Male. Papà non passava soldi. C’erano le 60 mila lire di pensione del nonno, che era stato professore di stenografia. Giravo con un solo paio di scarpe. Buone per la festa, per i giorni feriali, per giocare in strada. Non ci potevamo permettere né il telefono né il frigorifero né il televisore, che andavamo a vedere da certi cugini ricchi. In casa non c’era un libro. Provavo vergogna per la mia vita».

Frequentavi tuo padre?
«Andavo a pranzo da lui tre o quattro volte al mese. Poi un giorno mi disse: tu sai che la mamma ha un uomo? Allora ero timidissimo. Ma trovai il coraggio per dirgli che era nel suo pieno diritto. Mi guardò stupito e non disse più nulla».

Cosa faceva tuo padre?
«Le sue origini erano toscane. Fervente fascista, lavorò per un’azienda legata alla Fiat, che a un certo punto lo spedì a Catania. Decise di cambiare lavoro e aprì un piccolo studio da commercialista. A un certo punto cominciò a passarmi una paghetta di 6 mila lire al mese che negli anni del boom divennero 30 mila. Spendevo quasi tutti i soldi in libri. Cominciai a leggere seriamente dopo i 19 anni. Feci l’università prima a Catania e poi a Roma, dove mi laureai tardi. Ci fu anche una fuga a Parigi, dove vissi per due anni. Fu quello il periodo al quale faccio risalire il mio atto di nascita. Poi nel 1970 decisi di abbandonare definitivamente Catania per andare a vivere a Roma».

Che città incontrasti?
«Bellissima con le sue trattorie abbordabili, i suoi vicoli, e l’eterno barocco. Ma dovevo mantenermi. Non avevo soldi. Portavo con me una macchina da scrivere che mi era stata regalata da mio fratello. Era chiaro il mestiere che volevo fare. Cominciai a scrivere per la rivista “Astrolabio”. Ogni articolo mi veniva pagato 25 mila lire. In redazione c’era anche Tiziano Terzani. A un certo punto ci liquidarono perché considerati troppo di sinistra. Tiziano partì per l’Oriente. Io mi imbarcai nell’impresa del “manifesto”. Ma anche lì non è durata a lungo».

Perché?
«Per un dissidio con Lucio Magri. Voleva un giornale che si autocelebrasse. Io volevo un giornale vero. Spiegai le mie dimissioni con una lettera a Luigi Pintor».

Di nuovo in mezzo alla strada.
«Di nuovo la miseria. Per quanto la città in quegli anni potesse essere a buon mercato, non ce l’avrei fatta a sopravvivere. Mio padre morì nel 1973. Nonostante tutto fu un duro colpo. Avevo cominciato ad apprezzarlo. Lui, fascista, non disse mai nulla delle mie scelte politiche di sinistra. Anzi, quando la rivista “Giovane Critica” cominciò ad avere problemi finanziari, fu il ragionier Mughini a prendere in mano l’amministrazione e a far quadrare i conti. Quando morì, il giornale “La Sicilia” pubblicò due pagine di necrologi su di lui. Scoprii, con mia sorpresa, che fu anche un uomo amato e apprezzato».

Te lo sei portato dentro.
«Per me c’è un prima e un dopo la sua morte».

Un dopo cosa vuol dire?
«Provai a fare i conti con l’intolleranza che in quegli anni si viveva nel nostro paese. Rigettai tutta la muffa ideologica del marxismo-leninismo, le aberrazioni del maoismo e mi avvicinai a quegli intellettuali che avevano capito la lezione del 1956. Non ho mai avuto tessere, ma ho quasi sempre lavorato per giornali e riviste di sinistra: “Mondoperaio” che fu il mensile politico secondo me più bello a cavallo degli anni Settanta e Ottanta; “Paese Sera” prima con Arrigo Benedetti poi con Aniello Coppola. Godendo di grande libertà. Ma l’esperienza più bella e formativa l’ho avuta con Claudio Rinaldi, che ha diretto tutti e tre i grandi magazine. È stato il migliore direttore della mia generazione. Quante belle cose ancora avrebbe potuto fare se la morte non se lo fosse portato via».

La tua storia, diciamo tra politica, saggistica e giornalismo in che modo si concilia con la televisione?
«Mi pagano e io do valore al denaro. Consentendomi di dire tutto quello che voglio».

Davvero ti senti libero?
«Ho scelto di fare una televisione popolare. A me non interessava il programmino notturno in cui ti avvolgi in profonde elucubrazioni mentali. Per me fare la televisione in fasce normali di ascolto è stato come entrare in un luogo che non è casa mia, che non somiglia a casa mia e che si rivolge a un pubblico che non è quello che di solito frequento privatamente e al quale mi rivolgo con un linguaggio abbordabile, senza smentire di una virgola quello che sono stilisticamente».

Ti soddisfa davvero questa autoassoluzione?
«Perché non dovrebbe? E poi non mi sto giudicando, né assolvendo. Lascio agli altri il compito di farlo».

Le tue frequentazioni televisive non ti hanno reso un po’ pittoresco?
«Cosa vuol dire pittoresco?»

Sei vivace, riconoscibile, plateale. Televisivamente puoi aspirare alla maschera "Mughini".
«La televisione non è tutta uguale. Ci sono un linguaggio e dei tempi che devi rispettare. Per me è stata anche una scuola formidabile».

In che senso?
«Nello scrivere, per esempio, ho tenuto conto di quello che avevo sperimentato in televisione. Poi tu dici: pittoresco. Penso che alla fine ognuno risponda di se stesso. E sono pronto ad affrontare qualsiasi "processo di Norimberga"».

Non ho dubbi. Anche se penso che nella tua vita, nel modo con cui hai chiuso certi rapporti, fino ai tuoi approdi televisivi, ci sia una forte componente teatrale.
«Non ci ho mai pensato. Forse è un retaggio della mia sicilianità».

Pesano le tue origini?
«Moltissimo. Nel senso che le detesto. E credo di avertelo spiegato».

So che sei anche un collezionista.
«Lo sono diventato. Ho collezionato tra l’altro un intero catalogo in edizione futurista composto da 53 libri. Di lì altre avventure nel Déco e nel Liberty».

Ti piace il Novecento?
«Un grande secolo, nel bene e nel male».

Cosa ti attrae del collezionismo?
«L’aspetto conoscitivo e soprattutto quello erotico. Erotismo di testa, beninteso».

Applicabile anche alle donne?
«Nella mia vita le donne hanno contato più per la loro assenza che per la presenza. Tranne Michela, che è la compagna con cui vivo ormai da anni, l’unica reale, le altre sono state immaginazione, scacco, sopravvalutazione. Frutto appunto di un erotismo di testa».

Ti senti un privilegiato?
«Non ho mai goduto di privilegi: né di casta né frutto di compromessi. Nella mia vita ho cercato solo di arrancare. Beccandomi anche un paio di depressioni».

Quando?
«La prima a cavallo tra il 2014 e il 2015. Improvvisamente ebbi la sensazione di stringere sabbia tra le mani. Fui sorpreso. Spaventato. Da quella tristezza così invasiva. Farmi una doccia era un problema. Mangiare un boccone di riso era come avere un montone nel piatto. Leggere libri era impossibile. Scrivere non ne parliamo. Fu un momento buio della mia vita. Poi la seconda depressione è arrivata nel 2017. L’ho curata con i farmaci. E ne sono uscito abbastanza presto».

Temi che possa arrivarne una terza?
«Gli esperti dicono che è possibile. Sono come una sentinella che aspetta l’arrivo del vuoto. Vedi, c’è una parte di me divorata da un pessimismo assoluto. Non mi aspetto niente da nessuno. Forse anche questo è un tratto della mia sicilianità».

Torni mai in Sicilia?
«Da quando è morta mia madre, nel 2000, non sono mai tornato. Non c’è nulla più che mi lega a quella terra. Se non il ricordo di quella donna che ancora mi fa soffrire».

Perché?
«Anche mia madre cadde in depressione. Alla fine non parlava più, non comunicava più. Al telefono le chiedevo come stava, la imploravo di dirmi qualunque cosa. Ma lei taceva. La misi in una casa di riposo dove avrebbero potuto accudirla. Morì dopo due mesi. Per lungo tempo ho vissuto con un senso di colpa atroce. Ma che potevo fare?».

Che cos’è la morte degli altri?
«È la metafora della tua morte. Ricordo che andavo a trovare Antonello Trombadori a casa. Era già molto malato. Gli parlavo della politica, del Pci, delle manifestazioni. Dei compagni che aveva conosciuto, amato, detestato. E lui mi disse: Giampiero non ti seguo, scusa. Ecco, la morte è anche questo, perdere l’attenzione per tutto quello che hai creduto dovesse essere o rimanere importante».

Robinson – la Repubblica, 5 maggio 2019

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