21.8.19

L’Abele muto della Genesi e quello loquace del Corano. I testi sacri raccontano il delitto (Piero Stefani)



L’uccisione di Abele da parte di Caino, raccontata all’inizio della Genesi, è leggibile in vari modi: vista sul piano etico è segno perenne che ogni omicidio rappresenta, nella sua radice, l’uccisione di un fratello; letta in chiave di antropologia culturale indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, conflittuali modi di spartirsi beni e risorse (Caino è un agricoltore, Abele un pastore); colta in chiave simbolica attesta la fragilità della condizione umana (Abele da hevel, soffio, vacuità).
Alcuni passi del Nuovo Testamento ci aprono una prospettiva ulteriore. Si legge nella Prima lettera di Giovanni (3,12) «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin dal principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal Maligno e così uccise suo fratello». Dal canto suo il Vangelo di Giovanni afferma che il diavolo «è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). A volte le citazioni parlano proprio quando vengono estrapolate dal loro contesto e fatte interagire tra loro. Menzogna e omicidio sono intrecciati in maniera molto stretta. La menzogna, quando si presenta come antitesi profonda alla verità, non è riconducibile al fingere, al recitare, al dire bugie: è un inganno che tocca le viscere della condizione umana. Contrapporre la menzogna all’amore vicendevole svela il legame che unisce la negazione del vero all’omicidio. La verità è una relazione, è la fedeltà buona che si costituisce allorché ci si apre l’uno all’altro. L’omicidio è un abisso di menzogna perché nega le verità più intimamente inscritte nella condizione umana: l’uguaglianza e la reciprocità. L’assassinio è l’antitesi primordiale della «regola d’oro», che fa della pari dignità tra sé e l’altro il fondamento primo di ogni comportamento veritiero.
Nel capitolo quarto della Genesi la parola «fratello» torna sette volte; essa ricorre per affermare che Caino è fratello di Abele. Mentre non si dichiara mai che la vittima è fratello del suo assassino, si asserisce sempre che è l’uccisore a essere fratello di colui di cui ha estinto la vita. In questo modo da un lato si dichiara che la fratellanza è luogo di responsabilità («domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» Genesi 9,5), mentre dall’altro si afferma implicitamente che la vittima è tale anche perché chi lo sta uccidendo non lo riconosce come fratello.
Secondo la Genesi, Abele non parla mai; egli è l’archetipo di ogni vittima a cui è negata persino la parola. All’ucciso è lasciata come voce quella del sangue che grida dal suolo. La scena è dominata dal cruento silenzio di una vita estinta. La presa di coscienza da parte di Caino di quanto da lui compiuto è suscitata dalla voce del Signore che gli giunge da fuori: «Che hai fatto?» ( Genesi 4,10-13).
La storia dell’omicidio primordiale è presente anche nel Corano. Nel testo sacro dell’islam però Abele (ma entrambi i protagonisti restano anonimi) parla e lo fa più del fratello. Lo scopo delle sue parole è di proclamare che non risponderà alla violenza con la violenza. Nel Corano la vittima pronuncia parole che divengono impegno e promessa: «Se stenderai la mano contro di me per uccidermi io non stenderò la mano contro di te per ucciderti» (Corano 5,28). Tuttavia alle spalle di questo atteggiamento inerme c’è la visione di un Dio capace di punire, ed è tema tutt’altro che secondario prendere atto che la rinuncia alla violenza da parte della creatura umana riposa sulla convinzione che l’unico autorizzato a esercitarla sia Dio: «Io voglio che tu ti accolli il mio peccato, e che tu sia tra quelli del fuoco, ecco la ricompensa dei colpevoli» (Corano 5,29).
Le parole del fratello furono vane, l’altro non le accolse e la sua anima lo spinse a uccidere e «fu tra i perdenti». Tuttavia a renderlo consapevole della propria colpa non fu la parola divina che evidenzia quanto da lui fatto, fu il muto linguaggio etologico di un corvo divenuto prototipo dell’atto umano di seppellire i morti: «Dio inviò un corvo che grattò la terra per mostrargli come nascondere la salma di suo fratello. Egli disse: “Povero me, sono stato incapace di essere come questo corvo e di nascondere la salma di mio fratello”, e divenne preda del rimorso» (Corano 5,31).

“La Lettura – Corriere della Sera”, 30 dicembre 2018

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