22.8.19

La scuola, cioè la democrazia. Un articolo di Pietro Ingrao (“il manifesto”, 20 ottobre 1994)

Un articolo di Pietro Ingrao, quasi 25 anni dopo. Molte argomentazioni sono inevitabilmente datate e superate, ma il ragionamento spiega molto di quanto, purtroppo, è avvenuto dopo e il metodo mi pare attualissimo, in un momento in cui la democrazia o cambia o muore. (S.L.L.)


Che succede? C’è una tempesta che s’addensa sulla scuola pubblica. Non credo si tratti solo di un ritorno clericale. È di più. È un altro passo avanti nel processo di mercificazione, ed è legato alla nuova centralità che sta assumendo la questione dei saperi. Perciò oggi è a rischio e in discussione non solo la laicità della scuola, ma di più: il suo carattere di spazio pubblico garantito e potenzialmente libero, di diritto fondamentale di cittadinanza. E la controversia sulla scuola pubblica è emblematica di una questione più grande: se possano esistere spazi di autonomia, non misurabili con i criteri dello scambio mercantile e del denaro, prima di tutto in quel campo fondamentale dell’esperienza vitale che è la formazione, l’inoltrarsi nella lettura del mondo, e nell’esperienza del «fare».
Questa è la posta in gioco; e quindi è una questione di libertà.
Ma se tale è la sfida, essa non può essere combattuta in termini di conservazione: essa evoca subito la questione dei contenuti nuovi della formazione oggi. Temo che la battaglia per la scuola pubblica sarà perduta, se non costruiremo questa forte connessione con la riforma dei contenuti educativi. Lottiamo per una scuola pubblica riformata. Questo è un punto decisivo del discorso.

L’età dell’ingresso
Stiamo - spero - arrivando finalmente all’estensione della scuola dell’obbligo a 16 anni (e tendenzialmente fino a 18 anni). Attenti: non si tratta solo di uno spostamento quantitativo; cioè un qualsiasi di più del tempo che si sta sui banchi. Il passaggio da 14 ai 16 anni in qualche modo rappresenta un allaccio con un altro tempo dell’esperienza vitale: quel tempo di transito tanto controverso, delicato, persino ambiguo, spesso difficile e tempestoso che vede l’ingresso nell’età adolescenziale. Un passaggio - non possiamo dimenticarlo - su cui, nei secoli e nelle diverse civiltà, è sorta una letteratura enorme, e che nel nostro tempo forse è stato accelerato, ma anche reso più convulso e dilemmatico dall’incalzare dell’innovazione nel processo produttivo, nell’elaborazione dei saperi e del costume.
Sono anni in cui si verifica (nelle ragazze e nei ragazzi) un salto nella sfera sessuale e affettiva, e anche nel definirsi come soggetto civile, nella conquista di una autonomia culturale, e nel rapporto tra formazione generale e prima ricerca di una professionalità. Anni in cui si drammatizza e si complica il rapporto con l’autorità patema e materna e con il vincolo familiare, e si dilatano i rapporti sociali, la trama di relazioni con il mondo. Anni in cui diviene più stringente la questione del nesso delicatissimo tra l’acquisizione di competenze specifiche e la conquista di un sapere generale, e di una scala possibile di valori.
Del resto, se risalgo ai miei tempi, ricordo come - nel corso degli studi - erano complicate le classi del quarto e quinto ginnasio, proprio come classi difficili e incerte, una sorta di zona oscura prima della corposità del liceo, per chi ci arrivava. Oggi in Italia la giovane e il giovane a diciotto anni votano: cioè sono chiamati a decidere sullo Stato, sul governo, sulla economia del Paese, quindi sulla «generalità». E questo in un tempo - il nostro - in cui già a quattordici, quindici, sedici anni è rotto ormai l’isolamento spaziale della fanciullezza e si entra in rapporto (almeno da parte di molti, ragazze e ragazzi) direttamente con il caos degli assembramenti urbani attuali, e si comincia a girare il mondo, a conoscere direttamente, altre civiltà.

La formazione dei saperi
Dobbiamo averne nitida coscienza: l’estensione dell’obbligo a 16 anni, oltre ad essere una conquista, significherà una sfida e una prova, rappresenterà (nel bene o nel male) un salto di qualità nella funzione pubblica della scuola. Acutizzerà il conflitto fra le due tendenze che chiaramente oggi si scontrano: quella che chiamiamo una «lettura mercantile» della formazione, e la visione della scuola come sfera pubblica garantita, diritto fondamentale di cittadinanza, luogo necessario di costruzione di una democrazia moderna. E il conflitto fra le due letture si farà più aspro.
Quindi non si tratta solo di questioni di soldi (un po’ più di soldi alle scuole confessionali...), ma dei luoghi di costruzione di identità, e di elaborazione di saperi e di culture, che sono — oggi più di ieri - essenziali nel conflitto in atto (tra parentesi: si fa oggi un enorme spreco della parola «Italia», ma che significa questa parola, in fondo, si comincia a decidere là, nelle aule).
Dio mio: sempre la battaglia sulla scuola ha avuto un significato «generale», ed è stata centrale nel disporsi del conflitto sulle idee e i poteri. Ma oggi questa verità sperimentata diventa ancora più valida: perché la formazione e il controllo dei saperi decisa nella sfida produttiva, per il livello nuovo che in essa attinge il controllo e lo sviluppo delle conoscenze, per non dire la formazione di quell’«intelletto generale» di cui parlava il vecchio Marx.
E qui torno su un punto - forse un po’ ossessivamente - di cui ho già parlato altrove: il rapporto tra la scuola e la vicenda del Novecento. Voglio precisare che io non alludo a una dilatazione temporale dell’arco degli studi della storia della letteratura, della storia politica, ecc..
È molto di più. È la convinzione che - nel secolo - sono entrate in campo nuove culture e nuove soggettività: quindi i campi del confronto, del conflitto e della ricerca sono cambiati. Ci troviamo di fronte, con il Novecento, a letture nuove - per esempio - delle sfere della sessualità, dell’affettività, e quindi dei paradigmi con cui leggiamo l’esperienza vitale.

Il «post-fordismo»
È troppo, pensare che nelle scuole di oggi si parli di femminismo? E insisto a sottolineare: noi stiamo assistendo ora ad una mutazione aspra non solo dell’organizzazione del lavoro, del rapporto tra operai e tecnici e sistema delle macchine, ma del rapporto tra lavoro e vita, anzi tra lavori (al plurale) e vita, nel tempo della flessibilità e della nuova precarizzazione dell’atto lavorativo. È una mutazione sconvolgente, che domina il dibattito e anche lo scontro sociale. È problema cruciale, per i giovani.
Bene; ma quante sono le scuole italiane (compreso il liceo e prima dell’università) in cui si pronuncia la parola «fordismo»? Eppure noi - e i giovani - già ora ci troviamo a misurarci con il nuovo volto lavorativo che sta mettendo in campo il «post-fordismo». E cerchiamo in queste innovazioni la chiave per capire le mutazioni che stanno cambiando fisionomia, durata, remunerazione dell’atto lavorativo nel post-fordismo, e nell’epoca della «globalizzazione» del capitalismo. Tutto questo rappresenta un’esperienza bruciante per gli adolescenti che si affacciano alla vita. Questo tema entrerà o resterà fuori dalla porta delle aule? E che senso ha tornare a parlare di «scuole professionali», se non si muove da questi nodi e dai problemi formativi che essi evocano? E che cosa vuol dire «professionalità» oggi se non discutiamo, anche guardando alla scuola, le mutazioni che stanno investendo l’organizzazione dei lavori, e spingono sempre più a parlare di una formazione polivalente?

La comunicazione
Giustamente nelle scuole si impara a leggere e a scrivere: a usare lo strumento, le tecniche, le signifi-canze della scrittura. Bene. Ma oggi il fanciullo, già in età tenerissima, entra in rapporto con il duro e fascinoso mondo esterno attraverso l’esperienza del video, che è un altro linguaggio, e non perché è un mix di parola e visualità, ma perché usa altri codici, altre scansioni temporali della parola-immagine, altri ritmi dialogici (e in modo abbastanza stringente e obbligato). E’ troppo chiedere che, già nella scuola dell’obbligo, si studi storia della comunicazione, e si discuta sull’innovazione sconvolgente che - in questi anni - è stata introdotta nella vita di miliardi di esseri umani? E quindi già nella scuola dell’obbligo si impari e ci si educhi a decodificare, ad analizzare la storia dei linguaggi e il loro intreccio?
Se guardo, se scruto il mio nipotino di sette anni, vedo come impara a leggere, a usare la penna e la matita, ad allineare e confrontare i numeri. Ma non dobbiamo pensare (e provvedere) da ora a portare dentro le aule scolastiche (non so dire a quale grado, ma presto) il computer? Per insegnare ad adoperarlo, poiché sta diventando lo strumento dello scrivere e dello stampare. E quando, in che classe, da che età si comincerà -nella scuola dell’obbligo - a insegnare almeno i rudimenti, il senso, la logica dell’informatica?
Oppure, semmai essa verrà confinata il qualche settore delle scuole professionali, appunto interpretandola come tecnica separata, e non come rete cognitiva, sapere costituente della relazione sociale nel nostro tempo.

La sovranazionalità
Nel conflitto sulla sorte e sui caratteri della scuola pubblica e della scuola privata è aperta una discussione essenziale sull’articolo 33 («Senza oneri per lo Stato») che sta in Costituzione, e si può cambiare solo secondo le regole della Costituzione. Ma - forzo provocatoriamente le cose - la Costituzione non viene studiata oggi nella scuola (in quella sede, cioè, che abbiamo definito un’area essenziale della cosa pubblica, e -se vogliamo dirla così - un momento essenziale dell’agorà). Capiamoci bene: parlo dello studio e non solo dello specifico testo costituzionale, ma della storia ed esperienza storica delle istituzioni, della fissazione dei poteri e delle regole, e della storia delle grandi istituzioni pubbliche moderne, e quindi dell’apogeo e della crisi, in questo secolo, della statualità; per non dire del silenzio assoluto sulle grandi forme nuove della sovranazionalità, che sono il grande, grandissimo evento di questa fine del Novecento.
Ecco, allora, la riforma. Ecco la grande occasione dell’allargamento dell’obbligo, per tematizzare e immettere questa rivoluzione di contenuti.
Ecco perché tutela della scuola dell’obbligo e riforma dei contenuti sono indissolubilmente legati. Difenderemo la scuola pubblica se la presenteremo come la sede insostituibile di questa forte innovazione nei temi e nei contenuti, oltre che nelle forme didattiche. E quanto più spalancheremo le porte a questo presente nei luoghi della formazione, tanto più diverrà limpido il perché e la necessità di questa sfera pubblica garantita, di questo momento indispensabile - e critico, e libero - di ricerca e comprensione.
Non è forse, questo, anche il tema che dobbiamo porre al mondo cristiano, all’esperienza religiosa, invece di cedere alla pressione della confessionalità e della mercificazione?
Il mondo cristiano ha di fronte, drammaticamente, la questione della modernità, con le sue conquiste e con i suoi dilemmi aspri. Valgono di più un po’ di soldi e spazi alle scuole confessionali, o invece la discussione critica, la ricerca libera, il confronto nella scuola pubblica su ciò che significano i processi di mercificazione anche rispetto ai valori e alle idee di una esperienza religiosa? È una domanda (anche ad alcuni compagni del Pds).

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