Che succede? C’è una
tempesta che s’addensa sulla scuola pubblica. Non credo si tratti
solo di un ritorno clericale. È di più. È un altro passo avanti
nel processo di mercificazione, ed è legato alla nuova centralità
che sta assumendo la questione dei saperi. Perciò oggi è a rischio
e in discussione non solo la laicità della scuola, ma di più: il
suo carattere di spazio pubblico garantito e potenzialmente libero,
di diritto fondamentale di cittadinanza. E la controversia sulla
scuola pubblica è emblematica di una questione più grande: se
possano esistere spazi di autonomia, non misurabili con i criteri
dello scambio mercantile e del denaro, prima di tutto in quel campo
fondamentale dell’esperienza vitale che è la formazione,
l’inoltrarsi nella lettura del mondo, e nell’esperienza del
«fare».
Questa è la posta in
gioco; e quindi è una questione di libertà.
Ma se tale è la sfida,
essa non può essere combattuta in termini di conservazione: essa
evoca subito la questione dei contenuti nuovi della formazione oggi.
Temo che la battaglia per la scuola pubblica sarà perduta, se non
costruiremo questa forte connessione con la riforma dei contenuti
educativi. Lottiamo per una scuola pubblica riformata. Questo
è un punto decisivo del discorso.
L’età
dell’ingresso
Stiamo - spero -
arrivando finalmente all’estensione della scuola dell’obbligo a
16 anni (e tendenzialmente fino a 18 anni). Attenti: non si tratta
solo di uno spostamento quantitativo; cioè un qualsiasi di
più del tempo che si sta sui banchi. Il passaggio da 14 ai 16 anni
in qualche modo rappresenta un allaccio con un altro tempo
dell’esperienza vitale: quel tempo di transito tanto controverso,
delicato, persino ambiguo, spesso difficile e tempestoso che vede
l’ingresso nell’età adolescenziale. Un passaggio - non possiamo
dimenticarlo - su cui, nei secoli e nelle diverse civiltà, è sorta
una letteratura enorme, e che nel nostro tempo forse è stato
accelerato, ma anche reso più convulso e dilemmatico dall’incalzare
dell’innovazione nel processo produttivo, nell’elaborazione dei
saperi e del costume.
Sono anni in cui si
verifica (nelle ragazze e nei ragazzi) un salto nella sfera sessuale
e affettiva, e anche nel definirsi come soggetto civile, nella
conquista di una autonomia culturale, e nel rapporto tra formazione
generale e prima ricerca di una professionalità. Anni in cui si
drammatizza e si complica il rapporto con l’autorità patema e
materna e con il vincolo familiare, e si dilatano i rapporti sociali,
la trama di relazioni con il mondo. Anni in cui diviene più
stringente la questione del nesso delicatissimo tra l’acquisizione
di competenze specifiche e la conquista di un sapere generale, e di
una scala possibile di valori.
Del resto, se risalgo ai
miei tempi, ricordo come - nel corso degli studi - erano complicate
le classi del quarto e quinto ginnasio, proprio come classi difficili
e incerte, una sorta di zona oscura prima della corposità del liceo,
per chi ci arrivava. Oggi in Italia la giovane e il giovane a
diciotto anni votano: cioè sono chiamati a decidere sullo Stato, sul
governo, sulla economia del Paese, quindi sulla «generalità». E
questo in un tempo - il nostro - in cui già a quattordici, quindici,
sedici anni è rotto ormai l’isolamento spaziale della fanciullezza
e si entra in rapporto (almeno da parte di molti, ragazze e ragazzi)
direttamente con il caos degli assembramenti urbani attuali, e si
comincia a girare il mondo, a conoscere direttamente, altre civiltà.
La formazione dei
saperi
Dobbiamo averne nitida
coscienza: l’estensione dell’obbligo a 16 anni, oltre ad essere
una conquista, significherà una sfida e una prova, rappresenterà
(nel bene o nel male) un salto di qualità nella funzione pubblica
della scuola. Acutizzerà il conflitto fra le due tendenze che
chiaramente oggi si scontrano: quella che chiamiamo una «lettura
mercantile» della formazione, e la visione della scuola come sfera
pubblica garantita, diritto fondamentale di cittadinanza, luogo
necessario di costruzione di una democrazia moderna. E il conflitto
fra le due letture si farà più aspro.
Quindi non si tratta solo
di questioni di soldi (un po’ più di soldi alle scuole
confessionali...), ma dei luoghi di costruzione di identità, e di
elaborazione di saperi e di culture, che sono — oggi più di ieri -
essenziali nel conflitto in atto (tra parentesi: si fa oggi un enorme
spreco della parola «Italia», ma che significa questa parola, in
fondo, si comincia a decidere là, nelle aule).
Dio mio: sempre la
battaglia sulla scuola ha avuto un significato «generale», ed è
stata centrale nel disporsi del conflitto sulle idee e i poteri. Ma
oggi questa verità sperimentata diventa ancora più valida: perché
la formazione e il controllo dei saperi decisa nella sfida
produttiva, per il livello nuovo che in essa attinge il controllo e
lo sviluppo delle conoscenze, per non dire la formazione di
quell’«intelletto generale» di cui parlava il vecchio Marx.
E qui torno su un punto -
forse un po’ ossessivamente - di cui ho già parlato altrove: il
rapporto tra la scuola e la vicenda del Novecento. Voglio precisare
che io non alludo a una dilatazione temporale dell’arco degli studi
della storia della letteratura, della storia politica, ecc..
È molto di più. È la
convinzione che - nel secolo - sono entrate in campo nuove culture e
nuove soggettività: quindi i campi del confronto, del conflitto e
della ricerca sono cambiati. Ci troviamo di fronte, con il Novecento,
a letture nuove - per esempio - delle sfere della sessualità,
dell’affettività, e quindi dei paradigmi con cui leggiamo
l’esperienza vitale.
Il «post-fordismo»
È troppo, pensare che
nelle scuole di oggi si parli di femminismo? E insisto a
sottolineare: noi stiamo assistendo ora ad una mutazione aspra non
solo dell’organizzazione del lavoro, del rapporto tra operai e
tecnici e sistema delle macchine, ma del rapporto tra lavoro e vita,
anzi tra lavori (al plurale) e vita, nel tempo della flessibilità e
della nuova precarizzazione dell’atto lavorativo. È una mutazione
sconvolgente, che domina il dibattito e anche lo scontro sociale. È
problema cruciale, per i giovani.
Bene; ma quante sono le
scuole italiane (compreso il liceo e prima dell’università) in cui
si pronuncia la parola «fordismo»? Eppure noi - e i giovani - già
ora ci troviamo a misurarci con il nuovo volto lavorativo
che sta mettendo in campo il
«post-fordismo». E cerchiamo in queste innovazioni la chiave per
capire le mutazioni che stanno cambiando fisionomia, durata,
remunerazione dell’atto lavorativo nel post-fordismo, e nell’epoca
della «globalizzazione» del capitalismo. Tutto questo rappresenta
un’esperienza bruciante per gli adolescenti che si affacciano alla
vita. Questo tema entrerà o resterà fuori dalla porta delle aule? E
che senso ha tornare a parlare di «scuole professionali», se non si
muove da questi nodi e dai problemi formativi che essi evocano? E che
cosa vuol dire «professionalità» oggi se non discutiamo, anche
guardando alla scuola, le mutazioni che stanno investendo
l’organizzazione dei lavori, e spingono sempre più a parlare di
una formazione polivalente?
La comunicazione
Giustamente
nelle scuole si impara a leggere e a scrivere: a usare lo strumento,
le tecniche, le signifi-canze della scrittura. Bene. Ma oggi il
fanciullo, già in età tenerissima, entra in rapporto con il duro e
fascinoso mondo esterno attraverso l’esperienza del video, che è
un altro linguaggio, e non perché è un mix di parola e visualità,
ma perché usa altri codici, altre scansioni temporali della
parola-immagine, altri ritmi dialogici (e in modo abbastanza
stringente e obbligato). E’ troppo chiedere che, già nella scuola
dell’obbligo, si studi storia della comunicazione, e si discuta
sull’innovazione sconvolgente che - in questi anni - è stata
introdotta nella vita di miliardi di esseri umani? E quindi già
nella scuola dell’obbligo si impari e ci si educhi a decodificare,
ad analizzare la storia dei linguaggi e il loro intreccio?
Se
guardo, se scruto il mio nipotino di sette anni, vedo come impara a
leggere, a usare la penna e la matita, ad allineare e confrontare i
numeri. Ma non dobbiamo pensare (e provvedere) da ora a portare
dentro le aule scolastiche (non so dire a quale grado, ma presto) il
computer? Per insegnare ad adoperarlo, poiché sta diventando lo
strumento dello scrivere e dello stampare. E quando, in che classe,
da che età si comincerà -nella scuola dell’obbligo - a insegnare
almeno i rudimenti, il senso, la logica dell’informatica?
Oppure,
semmai essa verrà confinata il qualche settore delle scuole
professionali, appunto interpretandola come tecnica separata, e non
come rete cognitiva, sapere costituente della relazione sociale nel
nostro tempo.
La sovranazionalità
Nel
conflitto sulla sorte e sui caratteri della scuola pubblica e della
scuola privata è aperta una discussione essenziale sull’articolo
33 («Senza oneri per lo Stato») che sta in Costituzione, e si può
cambiare solo secondo le regole della Costituzione. Ma - forzo
provocatoriamente le cose - la Costituzione non viene studiata oggi
nella scuola (in quella sede, cioè, che abbiamo definito un’area
essenziale della cosa pubblica, e -se vogliamo dirla così - un
momento essenziale dell’agorà). Capiamoci bene: parlo dello studio
e non solo dello specifico testo costituzionale, ma della storia ed
esperienza storica delle istituzioni, della fissazione dei poteri e
delle regole, e della storia delle grandi istituzioni pubbliche
moderne, e quindi dell’apogeo e della crisi, in questo secolo,
della statualità; per non dire del silenzio assoluto sulle grandi
forme nuove della sovranazionalità, che sono il grande, grandissimo
evento di questa fine del Novecento.
Ecco,
allora, la riforma. Ecco la grande occasione dell’allargamento
dell’obbligo, per tematizzare e immettere questa rivoluzione di
contenuti.
Ecco
perché tutela della scuola dell’obbligo e riforma dei contenuti
sono indissolubilmente legati. Difenderemo la scuola pubblica se la
presenteremo come la sede insostituibile di questa forte innovazione
nei temi e nei contenuti, oltre che nelle forme didattiche. E quanto
più spalancheremo le porte a questo presente nei luoghi della
formazione, tanto più diverrà limpido il perché e la necessità di
questa sfera pubblica garantita, di questo momento indispensabile - e
critico, e libero - di ricerca e comprensione.
Non
è forse, questo, anche il tema che dobbiamo porre al mondo
cristiano, all’esperienza religiosa, invece di cedere alla
pressione della confessionalità e della mercificazione?
Il
mondo cristiano ha di fronte, drammaticamente, la questione della
modernità, con le sue conquiste e con i suoi dilemmi aspri. Valgono
di più un po’ di soldi e spazi alle scuole confessionali, o invece
la discussione critica, la ricerca libera, il confronto nella scuola
pubblica su ciò che significano i processi di mercificazione anche
rispetto ai valori e alle idee di una esperienza religiosa? È una
domanda (anche ad alcuni compagni del Pds).
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