Nicola Pietrangeli |
«Ogni sera gli rivolgo
un saluto. Era un gatto fantastico, generoso compagno di vita per
vent’anni. Non mi ha mai mollato finché ho dovuto sopprimerlo. Uno
strazio terribile. Farlo cremare per tenerlo accanto a me è costato
700 euro. Avrei speso la metà se avessi aspettato che arrivassero
altri gatti da unire a lui nel forno. Ma io volevo che le ceneri
fossero sue e basta». Nicola Pietrangeli solleva delicatamente il
coperchio della coppa più bella. Quella d’argento vinta a
Montecarlo, regalata a lui per sempre dal principe Ranieri. Ne estrae
i resti di Pupino, racchiusi in un sacchettino rosso. Abita
all’ultimo piano di una palazzina in un comprensorio nel quartiere
Balduina, arredato del suo passato tutto sport e viaggi. Al posto di
Pupino c’è Pupina 2 che avanza sinuosa tra tappeti e bassi
tavoloni ingombri di coppe e targhe.
Se la sua vita
fosse un film come lo intitolerebbe?
«Nicola contro
Pietrangeli e costerebbe un botto produrlo, c’è troppo da
raccontare. Dentro di me c’era abbastanza atleta e abbastanza buon
mascalzone. Un continuo contrasto. Dicono che se mi fossi allenato
poco di più avrei vinto molto. Ma non mi sarei divertito».
Che bambino è
stato Nicola?
«Sereno. Parlavo russo,
la lingua di mamma, e francese. Mai sofferto la fame, mai mancato
nulla anche a livello affettivo pur non andando d’accordo con papà
Guido, colpevole di avermi messo la racchetta in mano. Quando siamo
venuti a Roma da Tunisi non spiccicavo una parola di italiano.
Andammo ad abitare in via delle Carrozze e subito diventai popolare
per il pallone. Gli amici mi chiamavano Er Francia. Cenavo alle 8 e
poi scendevo per la partita serale a piazza di Spagna. Giocavo a
tennis sui campi del circolo Venturini e al Tennis Club Parioli, ma
questa è storia nota, riportata in tutte le biografie».
E il Pietrangeli
playboy? Leggenda?
«Ho avuto quattro storie
che contano. Susanna, che poi ho sposato, non era bella. Di più. Sua
madre non voleva che mi frequentasse perché sperava per la figlia in
un uomo ricco. Io non lo ero, non lo sono mai stato. All’epoca
giravo in tram e bus. Gli uomini morivano per lei, uno le regalò un
brillante grosso come una casa che lei gli restituì. Voleva me. Mi
sposai a 27 anni per amore e sottile ripicca nei confronti della
madre arrampicatrice. Abbiamo avuto tre figli Marco, Giorgio e
Filippo. Fedele io? No, ma per nulla al mondo avrei messo a rischio
la famiglia».
E dopo Susanna?
«La storia del playboy è
un po’ romanzata. Sì, è vero, amavo accompagnarmi a belle donne,
però non lo facevo per interesse anche se ho avuto diverse occasioni
per attaccare il sombrero con compagne ricchissime. A me i soldi non
interessavano. Dopo Susanna, è arrivata Lorenza, indossatrice
milanese. Non volevo sposarmi e mi lasciò. Sempre lasciato, io. Poi
ecco Licia Colò. Cinque anni di splendida convivenza. Aveva 30 anni
meno di me. Quando mi ha lasciato mi ha giurato che non lo faceva per
un altro. Forse si è spaventata della mia età ed è comprensibile.
Dicono che quando vuoi le belle devi mettere in conto che gli altri
ne siano a caccia. Ho sofferto molto».
E ora Paola. Com’è
l’amore dopo gli 80?
«C’è grande affetto.
Devi essere paziente tu e lei. Oltre all’amore è necessaria tanta
comprensione reciproca altrimenti non vai da nessuna parte. Non
viviamo insieme, ma condividiamo parecchie cose, anche Pupina Due».
È vicino agli 86,
ci pensa alla morte?
«Sì, ogni tanto. Spero
di morire la notte e all’improvviso, mi spaventa la malattia. La
mia è un’età per morire. Il mio funerale si terrà al campo
centrale del Foro Italico, a me intitolato. Ho già chiesto il
permesso al presidente del Coni, il mio amico Giovanni Malagò. C’è
un ampio parcheggio e nessuno potrà accampare la scusa di non aver
trovato posto per la macchina. In caso di pioggia si rimanda al
giorno dopo e speriamo che all’Olimpico non giochi la Lazio
altrimenti ci sarebbe confusione e magari qualcuno preferirebbe
andare là. Io e il mio amico Remo Zenobi partecipiamo ai funerali
solo se lo sentiamo, non per fare passerella come la metà della
gente. Veniamo via 5 minuti prima per evitare le facce da
circostanza. Al mio però venite tutti, vi voglio numerosi e restate
fino alla fine».
Mai in politica,
perché?
«Mai fregato niente,
eppure giocavo a tennis con La Malfa e frequentavo Renato Altissimo.
Ho fatto politica solo quando si trattò di spingere come capitano
della squadra per andare a giocare la finale di Coppa Davis a
Santiago del Cile nel 1976 dove c’era appena stata la repressione
di Pinochet. Pensavo che l’Italia non avrebbe dovuto mancare. Vinsi
io. Ci siamo imbarcati di nascosto, come delinquenti. Quando siamo
tornati con la Coppa, a festeggiarci c’erano solo i poliziotti».
È lei il più
grande tennista italiano della storia?
«Di gran lunga. Panatta,
con più talento, è durato molto meno ai vertici. Ora il più forte
è Fabio Fognini. Una volta mi incontra e mi fa, sfottendomi, ehi
Nicola, ai tempi tuoi correvi quanto me? Io non correvo, gli
rispondo. Facevo correre gli altri».
Corriere della sera, 27
luglio 2019
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