Parlare, ogni giorno, a
tutta l’America. Direttamente. Senza filtri. Dalla Casa Bianca.
Magari scrivendo alla mattina presto, o nel cuore della notte, dalla
residenza privata presidenziale. Trasmettere tutto in diretta. E
influenzare la giornata politica, innescare dibattiti, smorzare o
acuire tensioni.
Il metodo Trump – usare
Twitter come strumento di espressione senza censure, né tantomeno
autocensure – è stato alla base del suo successo da candidato,
alle primarie repubblicane e poi alle presidenziali contro Hillary
Clinton e resta il suo metodo preferito di gestire il potere
esecutivo.
Ma c’è un precedente
storico importante, quando Twitter ancora non esisteva: il metodo
Trump, in realtà, andrebbe chiamato metodo Roosevelt. Roosevelt come
Eleanor, la First Lady moglie di Franklin. La signora Roosevelt –
che a causa della polio che aveva colpito il marito viaggiava in
continuazione per essere «gli occhi e le orecchie» di Franklin
bloccato a Washington sulla sedia a rotelle – dal 1936 in poi tenne
una rubrica quotidiana, sei giorni alla settimana, su 90 giornali
letti da quasi 5 milioni di americani (americani che allora erano 128
milioni, 200 milioni meno di oggi).
Si chiamava «My Day»,
la «Mia giornata», e in uno stile asciutto, secco, paratattico che
sugli odierni social media funzionerebbe a meraviglia, la First Lady
raccontava per l’appunto la sua giornata, le sue impressioni.
Sempre in linea con la politica del marito, ovviamente – «My Day»
non fu mai uno strumento di indipendenza politica per Eleanor, che
pure era nettamente alla sinistra di Franklin sopratutto su temi come
il razzismo – perché la First Lady non cercò mai incarichi
elettivi, neanche da vedova. Ma il successore di Roosevelt, Truman,
sfruttò nel 1946 la sua grande popolarità, grinta e le competenze
acquisite in oltre 12 anni alla Casa Bianca, dandole un incarico alle
Nazioni Unite che conservò fino al 1952 quando si ritirò dalla
politica.
Eleanor Roosevelt usò
«My Day» per bacchettare gli avversari del marito, certo in maniera
radicalmente opposta a quella greve che rappresenta parte integrante
del brand trumpiano, ma senza timidezza: a un parlamentare
repubblicano che odiava Franklin, Hamilton Fish – che neanche a
farlo apposta rappresentava il collegio dello Stato di New York dove
avevano la residenza i Roosevelt – Eleanor riserva alcune delle sue
incursioni più gelide. Nel 1941 l’isolazionista Fish aveva mandato
ai suoi elettori una lettera che attaccava Roosevelt accusandolo di
usare metodi totalitari per portare l’America in guerra. Fdr tace,
e affida la risposta a Eleanor: che scrive la sua rubrica
rivolgendosi direttamente a Fish, elencando i Paesi europei che hanno
subito l’invasione hitleriana. E conclude: «Prego per la pace ogni
giorno, ma non credo che noi, come nazione, abbiamo smesso di
distinguere tra il bene e il male».
Dal ’36 al ’40, con
la Grande Depressione come tema centrale del dibattito politico e
dell’azione di governo, Eleanor viaggia in continuazione, partecipa
a riunioni, visita fabbriche e chiese e mense, davvero «occhi e
orecchie» del marito, e «My Day» è quasi sempre un diario di
viaggio – come nella rubrica, divertentissima, del 1937, nella
quale rivendica la sua indipendenza e la sua scelta di girare a volte
senza scorta. E il consigliere principale del marito, Louis McHenry
Howe, grande architetto della carriera politica di Fdr, le consiglia
almeno di girare armata. Così Eleanor racconta ai lettori di aver
imparato a sparare, e di girare con un revolver nella borsetta.
Non è tutta politica.
Proprio come fa Trump, Eleanor scriveva spesso di cultura pop: citava
Shirley Temple, allora la star più famosa di Hollywood, e in una
rubrica dedicata a una visita alla Casa Bianca della piccola,
descrive un fan deliziato nel quale non è difficile riconoscere il
marito, così serioso e distinto in pubblico, ma privatamente grande
ammiratore dell’attrice e nonno affettuosissimo con i nipotini.
La First Lady, su certi
temi, non era in sintonia con Franklin: lui, per quanto fosse
personalmente contrario alla segregazione razziale, sapeva che il Sud
razzista costituiva una parte fondamentale della sua coalizione, e
non fece mai nulla per alienarsi le simpatie di quegli elettori
nonostante nei loro Stati fosse in vigore sostanzialmente l’apartheid
americana. Questo, per Eleanor, era inaccettabile e non potendo
contraddire il marito in pubblico utilizzò comunque la rubrica,
assai di frequente, e attirandosi critiche, per ribadire la sua
posizione antirazzista. Nel 1939 il grande contralto Marian Anderson,
afroamericana, viene invitata a cantare a Washington in una sala da
concerto controllata da una potente non profit alla quale apparteneva
anche la First Lady. La non profit nega l’uso della sala. Eleanor
nella sua rubrica spiega, gelida, di essersi dimessa
dall’associazione. Il 65% del Paese, dice un sondaggio, è con lei.
Franklin, nel ‘37,
cerca di attuare quello che resta uno dei piani più audaci nella
storia della presidenza americana: la Corte suprema boccia molte
delle sue decisioni? Non può licenziarne i giudici, nominati a vita,
allora cerca di espanderne il numero mettendo in minoranza i suoi
nemici. Piano azzardatissimo che fallisce: anche nel suo staff erano
quasi tutti contrari. Tranne Eleanor: che in una rubrica pubblica la
presunta missiva di un lettore favorevole. Gli storici sospettano che
l’autore fosse Franklin.
Certo Eleanor stupisce
per la generosità di spirito, ma resta una donna del suo tempo (era
nata nel 1884) e della sua formazione (patrizia): sorprende leggere
la rubrica nella quale la donna che sarebbe stata uno straordinario
presidente, senatore, segretario di Stato, scrive che le donne non
sono brave in matematica e non sono brave scienziate, seguendo gli
stereotipi del tempo, lei che gli stereotipi generalmente si
divertiva a demolirli. Con un tweet ante litteram, scritto a letto su
un quaderno e poi mandato ai giornali via telegrafo o dettato dalla
sua segretaria.
Corriere della Sera, 5
maggio 2019
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