Hector Berlioz |
Quando Hector Berlioz
morì centocinquant’anni fa, aveva sessantasei anni. Trascorse gli
ultimi anni nell’amarezza e nella solitudine. Era distrutto nel
fisico e nel morale da due cose: aveva vissuto molte vite, ed era
stato un lottatore come ce ne furono pochi. Lottatore per i suoi
ideali artistici, che anteponeva alla stessa sua opera di
compositore; e lottatore per le sue composizioni.
Fu uno dei sommi genî
della musica; taluni glielo riconobbero in vita, a cominciare da
Liszt, che quanto a penetrazione e generosità verso l’arte altrui
non aveva rivali. Ma in realtà morì da vinto. I suoi successi,
molti e forti, vennero superati dalle sconfitte e da una diffidenza
nei suoi confronti che pare inspiegabile. Oggi la situazione non è
diversa. Sommo compositore, sì; ma nella vita musicale posposto a
un’infinità che non valgono la millesima parte di lui.
Tra le sue Opere
teatrali, la più alta è Les Troyens, finita nel 1858. È
una vertiginosa vicenda ch’egli, anche poeta, trasse dal II e dal
IV libro dell’Eneide. La distruzione di Troia, con i foschi
bagliori dell’incendio. L’amore di Didone per Enea, vietato dagli
dei, e il suicidio dell’eroina. Virgilio ha avuto tanti melodrammi
tratti da Metastasio, ma questo è il solo omaggio degno del più
grande poeta mai vissuto. Berlioz non ascoltò mai Les Troyens.
La prima esecuzione avvenne nel 1890 a Karlsruhe sotto la direzione
di Felix Mottl: ironia della storia, un seguace di Wagner. Ancor
oggi, quanti possono dire di aver ascoltato il capolavoro a teatro? O
anche solo in esecuzioni concertistiche? Che poi sarebbero
preferibili. Vedere Enea in abito da tupamaro e Didone vestita da
Marina Berlusconi… Quando Berlioz, innamorato della Salammbô di
Flaubert, gli si rivolse per consigli sulla storia e la vita di
Cartagine…
Nell’Ottocento molti
compositori erano dotati di vasta cultura generale. Sovente, la
filosofia la inquinava. Berlioz di filosofia s’intrigava poco; è
anche uno dei più eleganti scrittori francesi del secolo, con una
vena, persino, di narratore surreale (Les Grotesques de la
Musique, Les soirées de l’orchestre) che meriterebbe
miglior fortuna di molti romanzi di Dumas. Ha coltivato Byron,
dedicandogli una meravigliosa Sinfonia, Harold en Italie; ma
al vertice del suo amore sono Shakespeare e Virgilio, adorati con
assoluta equanimità. Poi viene Goethe, al quale s’è ispirato,
modificando il poema, per la geniale Dannazione di Faust. E
per quanto tocca Shakespeare, insieme con Verdi è stato il più
grande di tutti i compositori shakespeariani.
Ma la sua cultura era
diversa. Era un latinista. Quando, in ritardo perché per quattro
volte era stato bocciato, vinse il Prix de Rome, invece di fare i
compiti se ne girava per la Campagna Romana pensando alle vestigia
dell’antica grandezza. E Roma è anche l’oggetto di un altro suo
capolavoro teatrale. La Roma del Rinascimento. Nel Benvenuto
Cellini la scena più terribile e commovente è quella della
fusione della statua di Perseo: mancandogli il metallo, Cellini getta
nella fucina tutto quel che ha, il suo oro, persino altre sue opere.
È uno dei più bei simboli della creazione artistica trasformati in
teatro.
Quando tornò a Parigi,
compose La Sinfonia fantastica. È purtroppo l’unica sua
opera effettivamente in repertorio. E dico purtroppo giacché
perpetua di Berlioz la falsa immagine, sempre prevalente sulla vera.
È un pezzo di pseudo autobiografia, di pseudo automitografia.
Rappresenta i delirî di un giovane artista in preda all’oppio, il
quale si perde dietro all’immagine fantastica di una donna amata,
impersonata da una melodia ricorrente. Al poeta viene tagliata la
testa. Indi scende all’inferno, ritrova la sua melodia orribilmente
sconciata e infine si disperde nel Sabba del quale fa parte anche la
melodia liturgica del Dies irae.
Venne e viene
classificato come l’esponente di un Romanticismo estremo e caduco.
Non si comprese che la Sinfonia fantastica è scritta del
tutto a freddo, che ogni effetto è studiosamente calcolato, e che
dietro il pandemonio si cela una perfetta forma classica.
Solo partendo dal fatto
che l’aspetto letterario, a partire da un nuovo tipo di venerazione
per Shakespeare, di Berlioz, è romantico, ma quello musicale
classico, si può inquadrare la sua figura. Riesce a trasformare
Romeo e Giulietta non in un banale melodramma, ma in una
Sinfonia che sintetizza il dramma e usa il coro come narratore da
Tragedia greca. Compone un Requiem al quale Verdi si è
ispirato per il suo e che gli è persino superiore. Nelle ultime
battute le parole di speranza sono contraddette da un accordo di Sol
maggiore fatto da tre timpani soli, l’immagine del Nulla.
Ha rinnovato l’idea
stessa del timbro orchestrale: tutti i compositori gli debbono
qualcosa, da Wagner a Verdi a Liszt a Rismkij-Korsakov a Ravel e
Debussy. Il suo Trattato di orchestrazione venne tradotto in
tedesco da Richard Strauss: è un monumento di dottrina e di gusto
che aiuterebbe moltissimo i direttori d’orchestra. Salvo che ormai
la gran parte dirige a orecchio. Il Grande Sconfitto contempla dal
Nulla il Nulla della civiltà.
il Fatto Quotidiano, 5
maggio 2019
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