18.8.19

Impariamo da Hegel. Serve un New Deal. Conversazione di Maurizio Ferrera con Axel Honneth

Axel Honneth, filosofo e politologo tedesco, insegna all'Università di Francoforte (ove dirige l'Istituto per la Ricerca Sociale a suo tempo guidato da Horkeimer) e alla Columbia University di New York ed è autore di testi importanti sul socialismo e la libertà.
Feltrinelli ha pubblicato di recente, per la traduzione di Flavio Cuniberto, il suo Riconoscimento. Storia di un'idea europea. Secondo Honneth bisogna reinterpretare il concetto di riconoscimento secondo le linee della tradizione idealista tedesca, per cui il rispetto sociale è parte costitutiva della nostra libertà. Ciò si traduce anche in una nuova concezione della solidarietà europea, che implica l’abbandono della logica dell’austerità. Riprendo qui il testo della conversazione con Maurizio Ferrera apparsa sulla “Lettura” del Corsera qualche mese fa. (S.L.L.)

Axel Honneth Foto di Jürgen Bauer

«Riconoscimento» è un termine alla moda del lessico politico di oggi. Ma che cosa significa? Paul Ricoeur identificava 23 diverse accezioni, a loro volta raggruppabili in tre categorie: riconoscimento come identificazione, come auto-riconoscimento e come mutuo riconoscimento. La terza categoria è quella su cui oggi più si concentra l’attenzione di filosofi e scienziati sociali: riconoscere una persona vuol dire rispettarla come tale, specie nella sfera pubblica. Axel Honneth è uno dei principali protagonisti di questo dibattito. Allievo di Jürgen Habermas, docente a Francoforte, viene spesso in Italia, ospite del Centro internazionale di ricerca per la cultura e la politica europea del San Raffaele di Milano. Nel dialogo che segue, Honneth chiarisce la sua posizione «neo-hegeliana», partendo dal suo libro Riconoscimento, appena uscito in italiano da Feltrinelli.

MAURIZIO FERRERA — La cultura europea moderna ha inventato il concetto di «riconoscimento» ma si è anche divisa sui suoi significati. Nel libro lei richiama tre distinte tradizioni: francese, britannica e tedesca. Esaminiamole brevemente, iniziando da quella francese.
AXEL HONNETH — Dalla prima modernità una corrente del mondo intellettuale francese concepisce la nostra dipendenza dal riconoscimento che proviene dagli altri come qualcosa di pericoloso, perché ci induce a fingere di possedere proprietà individuali che in realtà non abbiamo. Questa visione negativa inizia con i moralisti francesi, in particolare La Rochefoucauld, ed è ripresa in modo più sfumato da Rousseau, secondo cui la dipendenza, la nostra spinta verso l’amour propre, ci induce a dimenticare chi siamo davvero. Tale visione culmina con Essere e nulla di Jean-Paul Sartre. Le caratteristiche che ci riconoscono coloro dai quali dipendiamo ci «reificano», espropriandoci della nostra libertà originaria. È stato sorprendente per me scoprire questa continuità nella concezione francese di riconoscimento.

MAURIZIO FERRERA — Molto diversa dalla concezione britannica, che invece considera il riconoscimento come un incentivo, un’occasione per l’autocontrollo morale individuale.
AXEL HONNETH — Esatto. A partire dall’Illuminismo scozzese, la ricerca individuale di rispetto e onore è stata vista come qualcosa che aiuta a sviluppare autocontrollo morale ed epistemico. L’idea di Hume e di Smith è che la nostra brama di rispetto agli occhi degli altri operi come costante ammonimento a rendere le nostre credenze morali e teoriche coerenti e credibili. Cosicché alla fine queste credenze diventano ragionevoli e congruenti con ciò che si ritiene essere vero e giusto. In poche parole, nella tradizione britannica il riconoscimento stimola l’autocontrollo, la capacità di pensare e agire in modo corretto.

MAURIZIO FERRERA — Nella sua ricostruzione, con Kant, Fichte e soprattutto Hegel la tradizione tedesca ha elaborato una concezione molto più profonda. Il riconoscimento viene visto come una modalità di interazione attraverso la quale gli individui sono autorizzati a esercitare la loro autonomia senza indulgere in alcuna forma di amor proprio. Lei sostiene anche che la concezione dell’idealismo tedesco è superiore alle altre in quanto fornisce una piattaforma di base su cui le altre due tradizioni possono in qualche modo essere innestate.
AXEL HONNETH — Non difendo certo la tradizione dell’idealismo tedesco per sentimenti nazionalistici e nel libro mi sforzo di argomentare la mia posizione. L’enorme vantaggio della tradizione tedesca è di considerare la dipendenza dal rispetto degli altri come qualcosa di costitutivo della nostra capacità di autodeterminazione: senza rispetto non vi sarebbe autorizzazione pubblica a fare uso sociale della nostra libertà individuale e quindi verrebbe a mancare la possibilità di essere considerati esseri razionali. Kant, Fichte ed Hegel propongono versioni diverse di questa concezione ma tutti condividono l’idea che si diventi parte della comunità morale solo nella misura in cui si è riconosciuti dagli altri come agenti autonomi. È la funzione «costitutiva» del riconoscimento a fornire la piattaforma teorica su cui le intuizioni delle altre tradizioni possono essere innestate. Nel libro formulo alcune proposte su come reinterpretare e valorizzare in questo quadro sia la visione negativa della tradizione francese sia la visione positiva britannica.

MAURIZIO FERRERA — Nel libro lei menziona Baruch Spinoza e Francisco Suárez, ma nessun filosofo italiano. Tuttavia si potrebbe sostenere che l’umanesimo italiano fu il primo ad affrontare la questione della diversità, della discordia e delle inevitabili lotte all’interno della società e della politica. Nel suo recente La mente inquieta Massimo Cacciari evidenzia la novità del principio umanista dell’amicitia, la scoperta di affinità al di là e al di sopra delle opposizioni.
AXEL HONNETH — Questo è un punto delicato. Ho deciso di concentrarmi sulle tre tradizioni francese, britannica e tedesca in parte per la mia conoscenza limitata delle altre culture europee e delle loro lingue: non avrei potuto studiare l’Italia o la Spagna con la stessa attenzione e profondità. Ma ci sono altre due ragioni. Ho voluto partire dal momento in cui inizia la dissoluzione del mondo feudale, e spero di non sbagliare dicendo che questa prese avvio in Francia quando la nobiltà fu attaccata dalla borghesia e iniziò un conflitto sui temi del rango e della stima sociali. Inoltre, sono partito dall’intuizione che fossero proprio le culture francese, britannica e tedesca ad avere elaborato le paradigmatiche concezioni su che cosa significhi e implichi trovarsi in una situazione di dipendenza. Tre concezioni che ancora oggi influenzano la nostra auto-comprensione politica e sociale.

MAURIZIO FERRERA — Veniamo a oggi. Il riconoscimento è principalmente riferito alle persone ma può essere utilizzato anche per i popoli. Nella seconda metà del XX secolo, la cultura europea ha fatto da pioniere anche su questo. L’integrazione comunitaria prese avvio come ambizioso progetto di riconciliazione dopo le carneficine di due guerre, basato sul principio dell’eguaglianza politica fra popoli e Stati. Tramite la «cittadinanza europea», il trattato di Maastricht ha poi creato un’area di uguaglianza fra tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro nazionalità. Durante l’ultimo decennio, tuttavia, la crisi ha interrotto questo percorso. Come ha notato Habermas, le relazioni fra popoli e cittadini hanno palesemente violato il principio di pari dignità. I Paesi debitori (in particolare la Grecia) sono diventati il bersaglio di valutazioni moralizzanti e di castigo paternalistico da parte dei Paesi creditori. I lavoratori provenienti dagli Stati membri dell’Europa centrale e orientale sono stati accusati di turismo sociale, persino di rubare lavoro. Non stiamo assistendo a una svolta politica pericolosa e regressiva, che tradisce quei principi normativi di riconoscimento fra popoli e fra cittadini che pensavamo irreversibilmente radicati nella cultura europea, almeno a livello di élite?
AXEL HONNETH — Sarebbe uno strano segno di cecità politica negare quegli sviluppi. Il progetto europeo è in profonda crisi. L’unificazione monetaria ha generato crescenti divari economici. Quella che viene falsamente chiamata crisi dei rifugiati ha rispecchiato la diversità di culture e approcci su come trattare i richiedenti asilo che fuggivano da condizioni devastanti nei loro Paesi d’origine. Per superare la crisi occorre una nuova visione sulla solidarietà europea e allo stesso tempo un programma convincente su come superare i divari nelle condizioni di vita tra i diversi Stati membri. Nella conferenza «Marc Bloch» che terrò a giugno su invito dell’École des hautes études en sciences sociales cercherò di delineare alcune idee su questo. La solidarietà europea deve poggiare sulla comune volontà di superare i crimini e i misfatti del passato: solo così sarà possibile mobilitare gli europei verso l’obiettivo di superare divisioni e divari.

MAURIZIO FERRERA — La Germania è il più grande potere economico e politico della Ue: lei non pensa che abbia una particolare responsabilità in questo processo di erosione del riconoscimento fra popoli? Sembra che le élite tedesche abbiano perso la capacità di empatia e reciprocità con partner spesso dati per irrimediabilmente indisciplinati.
AXEL HONNETH — Certo, i divari socioeconomici fra Paesi sono in parte causati dall’insistenza del governo tedesco sulle politiche di austerità, da cui l’economia tedesca trae maggior profitto. Ma questa è solo una faccia della medaglia; l’altra è, come ho detto, la moneta comune e le conseguenze non previste della sua adozione. Dal mio punto di vista c’è bisogno di qualcosa di più grande che un semplice aumento dell’empatia da parte tedesca — un’empatia che tra l’altro si è mostrata più elevata rispetto alla maggioranza degli altri Paesi quando si è trattato di accogliere le masse di rifugiati e di integrarli nella società. Ciò che serve è una sorta di New Deal. Un nuovo contratto sociale per equiparare le condizioni di vita dei popoli europei. Ciò implica l’abbandono dell’austerità e l’adozione di ambiziose misure di investimento economico e sociale. Ispirate dalla volontà di realizzare il bene comune europeo.


La Lettura - Corriere della Sera, 5 maggio 2019

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