Axel Honneth, filosofo e
politologo tedesco, insegna all'Università di Francoforte (ove
dirige l'Istituto per la Ricerca Sociale a suo tempo guidato da
Horkeimer) e alla Columbia University di New York ed è autore di
testi importanti sul socialismo e la libertà.
Feltrinelli ha pubblicato
di recente, per la traduzione di Flavio Cuniberto, il suo
Riconoscimento. Storia di un'idea europea.
Secondo Honneth bisogna reinterpretare il concetto di
riconoscimento secondo le linee della tradizione idealista tedesca,
per cui il rispetto sociale è parte costitutiva della nostra
libertà. Ciò si traduce anche in una nuova concezione della
solidarietà europea, che implica l’abbandono della logica
dell’austerità. Riprendo qui il testo della conversazione con
Maurizio Ferrera apparsa sulla “Lettura” del Corsera qualche
mese fa. (S.L.L.)
Axel Honneth Foto di Jürgen Bauer |
«Riconoscimento» è un
termine alla moda del lessico politico di oggi. Ma che cosa
significa? Paul Ricoeur identificava 23 diverse accezioni, a loro
volta raggruppabili in tre categorie: riconoscimento come
identificazione, come auto-riconoscimento e come mutuo
riconoscimento. La terza categoria è quella su cui oggi più si
concentra l’attenzione di filosofi e scienziati sociali:
riconoscere una persona vuol dire rispettarla come tale, specie nella
sfera pubblica. Axel Honneth è uno dei principali protagonisti di
questo dibattito. Allievo di Jürgen Habermas, docente a Francoforte,
viene spesso in Italia, ospite del Centro internazionale di ricerca
per la cultura e la politica europea del San Raffaele di Milano. Nel
dialogo che segue, Honneth chiarisce la sua posizione
«neo-hegeliana», partendo dal suo libro Riconoscimento,
appena uscito in italiano da Feltrinelli.
MAURIZIO FERRERA
— La cultura europea moderna ha inventato il concetto di
«riconoscimento» ma si è anche divisa sui suoi significati. Nel
libro lei richiama tre distinte tradizioni: francese, britannica e
tedesca. Esaminiamole brevemente, iniziando da quella francese.
AXEL HONNETH
— Dalla prima modernità una corrente del mondo intellettuale
francese concepisce la nostra dipendenza dal riconoscimento che
proviene dagli altri come qualcosa di pericoloso, perché ci induce a
fingere di possedere proprietà individuali che in realtà non
abbiamo. Questa visione negativa inizia con i moralisti francesi, in
particolare La Rochefoucauld, ed è ripresa in modo più sfumato da
Rousseau, secondo cui la dipendenza, la nostra spinta verso l’amour
propre, ci induce a dimenticare chi siamo davvero. Tale visione
culmina con Essere e nulla di Jean-Paul Sartre. Le caratteristiche
che ci riconoscono coloro dai quali dipendiamo ci «reificano»,
espropriandoci della nostra libertà originaria. È stato
sorprendente per me scoprire questa continuità nella concezione
francese di riconoscimento.
MAURIZIO FERRERA
— Molto diversa dalla concezione britannica, che invece considera
il riconoscimento come un incentivo, un’occasione per
l’autocontrollo morale individuale.
AXEL HONNETH
— Esatto. A partire dall’Illuminismo scozzese, la ricerca
individuale di rispetto e onore è stata vista come qualcosa che
aiuta a sviluppare autocontrollo morale ed epistemico. L’idea di
Hume e di Smith è che la nostra brama di rispetto agli occhi degli
altri operi come costante ammonimento a rendere le nostre credenze
morali e teoriche coerenti e credibili. Cosicché alla fine queste
credenze diventano ragionevoli e congruenti con ciò che si ritiene
essere vero e giusto. In poche parole, nella tradizione britannica il
riconoscimento stimola l’autocontrollo, la capacità di pensare e
agire in modo corretto.
MAURIZIO FERRERA
— Nella sua ricostruzione, con Kant, Fichte e soprattutto Hegel la
tradizione tedesca ha elaborato una concezione molto più profonda.
Il riconoscimento viene visto come una modalità di interazione
attraverso la quale gli individui sono autorizzati a esercitare la
loro autonomia senza indulgere in alcuna forma di amor proprio. Lei
sostiene anche che la concezione dell’idealismo tedesco è
superiore alle altre in quanto fornisce una piattaforma di base su
cui le altre due tradizioni possono in qualche modo essere innestate.
AXEL HONNETH
— Non difendo certo la tradizione dell’idealismo tedesco per
sentimenti nazionalistici e nel libro mi sforzo di argomentare la mia
posizione. L’enorme vantaggio della tradizione tedesca è di
considerare la dipendenza dal rispetto degli altri come qualcosa di
costitutivo della nostra capacità di autodeterminazione: senza
rispetto non vi sarebbe autorizzazione pubblica a fare uso sociale
della nostra libertà individuale e quindi verrebbe a mancare la
possibilità di essere considerati esseri razionali. Kant, Fichte ed
Hegel propongono versioni diverse di questa concezione ma tutti
condividono l’idea che si diventi parte della comunità morale solo
nella misura in cui si è riconosciuti dagli altri come agenti
autonomi. È la funzione «costitutiva» del riconoscimento a fornire
la piattaforma teorica su cui le intuizioni delle altre tradizioni
possono essere innestate. Nel libro formulo alcune proposte su come
reinterpretare e valorizzare in questo quadro sia la visione negativa
della tradizione francese sia la visione positiva britannica.
MAURIZIO FERRERA —
Nel libro lei menziona Baruch Spinoza e Francisco Suárez, ma nessun
filosofo italiano. Tuttavia si potrebbe sostenere che l’umanesimo
italiano fu il primo ad affrontare la questione della diversità,
della discordia e delle inevitabili lotte all’interno della società
e della politica. Nel suo recente La mente inquieta Massimo
Cacciari evidenzia la novità del principio umanista dell’amicitia,
la scoperta di affinità al di là e al di sopra delle opposizioni.
AXEL HONNETH
— Questo è un punto delicato. Ho deciso di concentrarmi sulle tre
tradizioni francese, britannica e tedesca in parte per la mia
conoscenza limitata delle altre culture europee e delle loro lingue:
non avrei potuto studiare l’Italia o la Spagna con la stessa
attenzione e profondità. Ma ci sono altre due ragioni. Ho voluto
partire dal momento in cui inizia la dissoluzione del mondo feudale,
e spero di non sbagliare dicendo che questa prese avvio in Francia
quando la nobiltà fu attaccata dalla borghesia e iniziò un
conflitto sui temi del rango e della stima sociali. Inoltre, sono
partito dall’intuizione che fossero proprio le culture francese,
britannica e tedesca ad avere elaborato le paradigmatiche concezioni
su che cosa significhi e implichi trovarsi in una situazione di
dipendenza. Tre concezioni che ancora oggi influenzano la nostra
auto-comprensione politica e sociale.
MAURIZIO FERRERA
— Veniamo a oggi. Il riconoscimento è principalmente riferito alle
persone ma può essere utilizzato anche per i popoli. Nella seconda
metà del XX secolo, la cultura europea ha fatto da pioniere anche su
questo. L’integrazione comunitaria prese avvio come ambizioso
progetto di riconciliazione dopo le carneficine di due guerre, basato
sul principio dell’eguaglianza politica fra popoli e Stati. Tramite
la «cittadinanza europea», il trattato di Maastricht ha poi creato
un’area di uguaglianza fra tutti i cittadini, indipendentemente
dalla loro nazionalità. Durante l’ultimo decennio, tuttavia, la
crisi ha interrotto questo percorso. Come ha notato Habermas, le
relazioni fra popoli e cittadini hanno palesemente violato il
principio di pari dignità. I Paesi debitori (in particolare la
Grecia) sono diventati il bersaglio di valutazioni moralizzanti e di
castigo paternalistico da parte dei Paesi creditori. I lavoratori
provenienti dagli Stati membri dell’Europa centrale e orientale
sono stati accusati di turismo sociale, persino di rubare lavoro. Non
stiamo assistendo a una svolta politica pericolosa e regressiva, che
tradisce quei principi normativi di riconoscimento fra popoli e fra
cittadini che pensavamo irreversibilmente radicati nella cultura
europea, almeno a livello di élite?
AXEL HONNETH
— Sarebbe uno strano segno di cecità politica negare quegli
sviluppi. Il progetto europeo è in profonda crisi. L’unificazione
monetaria ha generato crescenti divari economici. Quella che viene
falsamente chiamata crisi dei rifugiati ha rispecchiato la diversità
di culture e approcci su come trattare i richiedenti asilo che
fuggivano da condizioni devastanti nei loro Paesi d’origine. Per
superare la crisi occorre una nuova visione sulla solidarietà
europea e allo stesso tempo un programma convincente su come superare
i divari nelle condizioni di vita tra i diversi Stati membri. Nella
conferenza «Marc Bloch» che terrò a giugno su invito dell’École
des hautes études en sciences sociales cercherò di delineare
alcune idee su questo. La solidarietà europea deve poggiare sulla
comune volontà di superare i crimini e i misfatti del passato: solo
così sarà possibile mobilitare gli europei verso l’obiettivo di
superare divisioni e divari.
MAURIZIO FERRERA —
La Germania è il più grande potere economico e politico della Ue:
lei non pensa che abbia una particolare responsabilità in questo
processo di erosione del riconoscimento fra popoli? Sembra che le
élite tedesche abbiano perso la capacità di empatia e reciprocità
con partner spesso dati per irrimediabilmente indisciplinati.
AXEL HONNETH
— Certo, i divari socioeconomici fra Paesi sono in parte causati
dall’insistenza del governo tedesco sulle politiche di austerità,
da cui l’economia tedesca trae maggior profitto. Ma questa è solo
una faccia della medaglia; l’altra è, come ho detto, la moneta
comune e le conseguenze non previste della sua adozione. Dal mio
punto di vista c’è bisogno di qualcosa di più grande che un
semplice aumento dell’empatia da parte tedesca — un’empatia che
tra l’altro si è mostrata più elevata rispetto alla maggioranza
degli altri Paesi quando si è trattato di accogliere le masse di
rifugiati e di integrarli nella società. Ciò che serve è una sorta
di New Deal. Un nuovo contratto sociale per equiparare le condizioni
di vita dei popoli europei. Ciò implica l’abbandono dell’austerità
e l’adozione di ambiziose misure di investimento economico e
sociale. Ispirate dalla volontà di realizzare il bene comune
europeo.
La Lettura - Corriere della Sera, 5 maggio 2019
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