Al mio paese, Campobello di Licata, la
festa della Patrona, la Madonna dell'Aiuto, si celebrava un tempo la
prima domenica di settembre. La festa concludeva un momento
importante della vita dei campi, per via dei numerosi mandorleti, di
cui a fine agosto si raccoglieva il prodotto.
Le offerte per la festa
e per la Chiesa, in onore della Madonna, erano spesso in natura:
frumento o, appunto, mandorle. Cavalli e muli bardati, talora
trascinando un carretto variopinto giravano per i quartieri del paese
accompagnati da gruppi di bandisti che suonavano allegre marcette
come l'orecchiabile e richiestissima Lariana o canzonette di
successo da Volare a
Chella llà: numerosi contadini
donavano piccoli quantitativi del frutto della loro fatica;
bisacce e carri si riempivano. Non ho mai saputo dove portassero il
carico, se in sagrestia e in qualche locale annesso alla Matrice o in
magazzini di raccolta o direttamente in quelli dei commercianti.
Il
lunedì era ancora giorno di festa; c'era la riétina,
una sorta di sfilata di cavalli e carri bardati; ma non era allora il
“clou” della festa, rappresentato piuttosto dalla processione della
domenica, in cui la statua della Madonna, seguita dai devoti e dalla
banda al gran completo, percorreva le vie del paese, mentre la sua
veste veniva ricoperta da banconote da cinquecento o mille lire,
appuntate dai rappresentanti del Comitato incaricati della fatica. Si
diceva che ce ne fosse uno abilissimo nel fare scomparire nelle
proprie tasche qualcuno dei biglietti di banca offerti dai fedeli:
aveva il soprannome di spogliamadonni,
ma nessuno si sognava di sollevarlo dall'incarico.
Al termine della processione, sul grande palco davanti alla Matrice, l'arciprete comunivava i risultati della raccolta. Negli
anni di più forte emigrazione, sul finire degli anni 50 e poi nei
primi 60, ogni anno cresceva la somma complessiva, “sette milioni”, “dieci milioni”, “tredici milioni”, e considerevole era l'apporto degli emigrati. I più tra loro dovevano
tornare al lavoro alcuni giorni prima della festa, ma lasciavano,
secondo le loro possibilità, un'offerta in denaro, segno del loro
legame con il paese natio, offerta più consistente in collegamento
con la guarigione di un familiare, l'assunzione in un buon posto di
lavoro, il matrimonio di una figlia o il diploma di un figlio o una
qualunque altra “grazia ricevuta”. Anche l'elenco dei donatori veniva
letto sul palco dall'arciprete, un vecchietto freddoloso soprannominato
Patri Tancinu (“padre scaldino”).
Seguiva la musica
a parcu, generalmente il
concerto della rinomata banda forestiera (più di una volta
chiamarono quella di Acquaviva delle Fonti) che nel servizio musicale
dei giorni di festa si alternava con quella municipale: un'opera
lirica orchestrata per la banda e perciò dominata da fiati e percussioni, con il clarinetto a far da soprano, o
un'antologia di arie d'opera. Il lunedì, oltre alla “riétina”,
c'era un altro concerto bandistico e a notte uno spettacolo
pirotecnico, lu castieddhu di fuocu,
con lo stummi stummi finale.
Negli ultimi anni
della mia adolescenza al secondo concerto operistico, in genere
assicurato dalla banda paesana, andava sostituendosi, nonostante la
resistenza del vecchio arciprete, uno spettacolo di musica leggera in
cui la cantante mostrava un po' di coscia. Un maestro elementare,
uomo di chiesa democristianissimo, si cimentò con altri nella
composizione e nel canto leggero: “A Campobello le ragazze son
graziose / hanno il profumo delle fresche rose”. L'arciprete non
diceva nulla, ma si capiva che non era contento e imperterrito
continuava la sua guerra domenicale contro scollature e maniche corte
femminili.
Oggi
la festa è anticipata ad agosto e cuore della festa è diventata
proprio la riétina:
caretti e cavalli non provengono solo dal paese o dai centri più vicini, ma arrivano da tutta
la Sicilia gruppi di “cavallari” con allestimenti di grande
impegno organizzativo ed economico: non solo equini bardatissimi e carretti decoratissimi, ma anche gruppi musicali, danzatori e danzatrici in
costume, su palchi mobili o a piedi. C'è in paese un'associazione di amici del cavallo e della
riétina, o forse più
d'una, e non mancano finanziamenti pubblici e private sponsorizzazioni.
La sfilata dura ore e ore, con un chiasso enorme di voci, suoni,
rimbombi, cigolìi di ruote, scampanellare di tamburelli e
ciancianeddhi (i tipici
sonagli di Sicilia). In alcuni posti strategici i gruppi si fermano,
dando vita a un breve spettacolo.
Ieri sera proprio sotto casa di mia
madre su un camion, un tenorino dalla voce buona eseguiva Parla
più piano, la canzone costruita
sul tema musicale del Padrino.
Subito dopo, accompagnato da fischietti e altri strumenti, circondato
da saltellanti ragazze in costume, il coro eseguiva alla maniera
siculo-americana C'è la luna 'mmienz'o mari / mamma mia
m'a maritari. Era una vera e
propria citazione dal film, senza alcuna presa di distanza: non c'era
neanche un filo d'ironia. Non so dire donde il gruppo provenisse e
non credo che quella citazione comportasse di necessità una qualche
solidarietà di famiglia, ma una simpatia ideologica, per quanto
vaga, sì. Ho forte il sospetto che tra i "cavallari" ci sia qua e là un'infiltrazione di fetentoni.
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