Veltroni con Cossiga nel novembre 1999 |
Il 16 ottobre 1999 Walter Veltroni, al tempo segretario dei Ds, dopo l’ennesima sollecitazione di Gianni Riotta su “La Stampa” a rompere più radicalmente con il passato, prende penna e obbedisce: fa l’elenco di tutti gli strappi già compiuti e ne realizza di nuovi. Non a tutti piace lo stile letterario di Veltroni. A me per esempio non piace. Mi sembra insieme untuoso e burocratico e questo mix di unzione e di apparato mi sa tanto di gesuitismo. Ma io sono un vecchio mangiapreti e non fo testo: lasciamo dunque la forma e andiamo alla sostanza. Il documento mi pare segnalare un salto di qualità nella “sindrome del rinnegato”, che ha caratterizzato i gruppi dirigenti ex-Pci dopo la svolta. Quando equipara il comunismo al nazismo Veltroni sa perfettamente di fare suo il leit-motiv della destra e sa di rinnegare non solo il Pci di Berlinguer, ma anche quei grandi che opportunisticamente cita, da Gobetti a Don Milani, dei quali nessuno giunse a quella falsificante e aberrante equiparazione.
Sono passati quasi tredici anni da quella lettera e credo che essa documenti ottimamente il trasformismo di un intero ceto politico (e qui tra dalemismo e veltronismo non c’è davvero differenza) che si è posto come obiettivo preminente e assoluto la propria autoperpetuazione. Obiettivo assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo di classe, di valori, di obiettivi.
I Veltroni e i D’Alema e i loro imitatori e seguaci nelle città e nei paesi d’Italia, come gli stalinisti di un tempo, si ritengono “fatti di una pasta speciale” e perciò considerano se stessi garanzia di una “buona politica”. Poco importa loro se questa “buona politica” toglie diritti, poteri e reddito alla classe operaia e ai lavoratori che fino a ieri avevano costituito il loro riferimento sociale, se essa esplicitamente combatte l’eguaglianza e l’equità sociale chiamandoli egualitarismo, se essa non si propone più il superamento delle classi sociali, ma piuttosto la selezione di classi dirigenti e proprietarie, se essa non contrasta più il dominio imperiale dell’Occidente capitalistico ma tenta di estenderlo e protrarlo.
I Veltroni e i D’Alema e i loro imitatori e seguaci nelle città e nei paesi d’Italia, come gli stalinisti di un tempo, si ritengono “fatti di una pasta speciale” e perciò considerano se stessi garanzia di una “buona politica”. Poco importa loro se questa “buona politica” toglie diritti, poteri e reddito alla classe operaia e ai lavoratori che fino a ieri avevano costituito il loro riferimento sociale, se essa esplicitamente combatte l’eguaglianza e l’equità sociale chiamandoli egualitarismo, se essa non si propone più il superamento delle classi sociali, ma piuttosto la selezione di classi dirigenti e proprietarie, se essa non contrasta più il dominio imperiale dell’Occidente capitalistico ma tenta di estenderlo e protrarlo.
Bisognerà che la si scriva finalmente la storia di questi gruppi dirigenti, mettendo in fila e analizzando tutti i documenti del loro “rinnegamento” trasformistico, anche come premessa per costruirla daccapo una sinistra. In quella storia la lettera di Veltroni a “La Stampa” avrà un posto di riguardo.
Proprio per questo bisogna fare “tanto di cappello” a uno storico di mestiere e a un uomo di sinistra, Gianpasquale Santomassimo, che ne comprese subito il peso e la trattò fin da allora come un documento storico. L’articolo che scrisse su “La rivista del manifesto” del gennaio 2000 è un’analisi del testo veltroniano nello stesso tempo appassionata e scientifica.
Proporre qui, uno appresso all’altra, la lettera di Veltroni e l’articolo di Santomassimo mi pare un buon punto di partenza per lo studio che ci tocca fare. Ma nel testo dello storico c’è ancora di più: c’è una proposta su come uscire da questo guazzabuglio delle identità a cui più d’uno resta gelosamente ancorato, su come ristabilire un rapporto sano con la storia, in primis con quella storia che sentiamo nostra, quella del movimento operaio e della sinistra italiana. Suggerisco di leggere con particolare attenzione l’ultima parte dell’articolo.
Proporre qui, uno appresso all’altra, la lettera di Veltroni e l’articolo di Santomassimo mi pare un buon punto di partenza per lo studio che ci tocca fare. Ma nel testo dello storico c’è ancora di più: c’è una proposta su come uscire da questo guazzabuglio delle identità a cui più d’uno resta gelosamente ancorato, su come ristabilire un rapporto sano con la storia, in primis con quella storia che sentiamo nostra, quella del movimento operaio e della sinistra italiana. Suggerisco di leggere con particolare attenzione l’ultima parte dell’articolo.
(S.L.L.)
Veltroni con Pasolini e Adornato negli anni 70 |
DOCUMENTI
La lettera di Walter Veltroni
sulle richieste di Riotta
Su «La Stampa» di ieri, Gianni Riotta scrive: «E' arrivato il momento di riconoscere che la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali». Riotta ci chiede di riconoscerci in questa affermazione. Lo faccio volentieri e sinceramente. Ma l'ho già fatto, nella mozione che ho presentato per il prossimo, primo congresso dei Democratici di sinistra. Il secolo che muore, il Novecento, viene in quel documento definito come «il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. E il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo» . Lo stalinismo come il nazismo, i gulag e Auschwitz, il comunismo come tragedia del Novecento. Cosa si può dire di più netto e chiaro? Né si tratta solo di giudizi retrospettivi. Parlando alla Festa Nazionale dell'Unità, a Modena, davanti al popolo diessino con le sue bandiere e i suoi striscioni, dicevo che «il secolo che si sta concludendo ci ha insegnato, in modo tragicamente chiaro, che giustizia e libertà sono due valori inscindibili: non può esserci vera libertà dove non c'è giustizia; e non può esserci vera giustizia senza libertà, senza democrazia, senza rispetto rigoroso e integrale dei diritti umani. Lo abbiamo detto più volte in questi mesi, a voce sempre più alta, senza guardare alla lingua, alla religione, o al colore delle bandiere dei nostri interlocutori». E citavo la Birmania e Cuba, la Turchia e la Serbia, Timor Est e la Cina, definendo lo sconosciuto ragazzo di Piazza Tien-An-Men, che ebbe il coraggio di pararsi da solo e inerme davanti ad una colonna di carri armati, come «il simbolo del migliore Novecento». Ma Riotta va oltre e ci chiede di «sciogliere il legame con la politica di tutto il Pci». Noi abbiamo fatto di più. Abbiamo sciolto il Pci. Lo abbiamo fatto dieci anni fa, con la svolta di Occhetto. Con uno strappo violento. Non solo con una drammatica scissione politica, ma attraversando un percorso di dolore umano autentico, mettendo in discussione biografie individuali e collettive e allo stesso tempo provando un senso di liberazione.
Dicemmo, noi che avevamo poco più di trent'anni, che una storia, grande e tragica, era finita, per sempre. Tra noi c'erano, e ci sono, idee diverse sulla velocità e il senso di marcia di quel cambiamento. Tuttavia quella storia finì. Il Pci che ho conosciuto era una strana creatura. Principale partito della sinistra, ha raggiunto il trentacinque per cento, senza mai governare. Era un luogo nel quale potevano convivere i comunisti con gli iscritti e gli elettori del Pci. Non erano tutti la stessa cosa. Quanti erano, nel trentacinque per cento di elettori del '76, quanti anche tra i dirigenti, coloro che credevano all'ideologia comunista, al socialismo realizzato, al partito unico, alla dittatura del proletariato, alle nazionalizzazioni, al patto di Varsavia? Quanti? Non era il Pci di Berlinguer, anche, il luogo nel quale si ritrovava una riserva di energie ideali e morali di una società civile democratica che non amava chi era, da tanti anni, al potere in Italia? Ci si guardi intorno, ci si guardi all'interno. Quanti di coloro che scrivono sui giornali, che insegnano all'università, che producono, hanno votato il Pci in quegli anni? Errori giovanili? Un abbaglio collettivo? Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così. Tuttavia era una contraddizione. Perché quel Pci solo allora, dopo la Cecoslovacchia, cominciò a fare i conti con fatica con la realtà del socialismo realizzato. E più da esso si allontanava, più la contraddizione si faceva esplosiva. Noi trentenni «finimmo» la storia del Pci, perché la contraddizione era diventata insostenibile. In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l'Urss come avversario e la democrazia occidentale nel Dna, nel vissuto, nella formazione culturale. Io ero ragazzo, negli Anni Settanta, ma pensavo che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell'invasione sovietica. Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura un nemico da abbattere. Ci sembrava che Berlinguer facesse, in quel tempo, cose coraggiose. Tutti i giornali italiani «aprirono» a nove colonne quando Berlinguer disse al congresso del Pcus che «la democrazia è un valore universale». Sembrò a tutti che la dichiarazione della preferenza per la Nato del '76 fosse uno straordinario atto di coraggio politico. In quei tempi lo era. Come le carte del Kgb contro Berlinguer dimostrano. Ma il Pci e la sua storia erano stati altro. Erano stati le lacrime per Stalin e l'appoggio alla repressione della rivolta di Ungheria. Era stato il linciaggio politico di Giuseppe Di Vittorio in una Direzione, quella del '56, la cui lettura degli atti provoca brividi lungo la schiena. Comunismo e libertà sono stati incompatibili, questa è stata la grande tragedia europea del dopo-Auschwitz. E se oggi dovessi guardare alle idee che hanno attraversato la storia della sinistra italiana di questo secolo dovrei, in cerca di culture ancora feconde, comporre un mosaico complesso: Gobetti, Rosselli, Gramsci, Spinelli, Colorni, Ernesto Rossi, Lombardi, Parri, Dossetti, don Milani. Esperienze diverse, spesso conflittuali tra loro, certo. Ma sono i filoni di pensiero che hanno mostrato di essere tanto vivi da attraversare il ventre del Novecento e giungere fin qui. Una settimana fa, su queste colonne, Barbara Spinelli ci chiedeva di prendere atto che la sinistra italiana non è nata nell'Ottantanove. Ha ragione. Culturalmente e' vero. Ma politicamente la sinistra italiana di oggi nasce dalla fine del Pci, della sua contraddizione interna. Dal dissolversi di quello che Riotta chiama «lo spettro dell'Urss», che «ha impedito, per un secolo, alla sinistra italiana di crescere libera e maggioritaria». Dal liberarsi di energie che hanno consentito ciò che non era mai successo: che le culture riformiste si incontrassero, contaminassero, unissero. Concludendo la sua celebre storia del Novecento, «Il secolo breve», Eric Hobsbawm osserva, non senza angoscia, che noi uomini e donne di questa fine secolo «non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e sappiamo anche perché. Una cosa però ci è chiara. Se l'umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l'alternativa a una società cambiata, è il buio». So bene che l'ombra del comunismo continuerà a pesare a lungo, come un'ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana. Ma so anche che si tratta di un'ombra che nessuna nuova parola, detta o scritta, può dissolvere completamente. Solo il tempo potrà farlo. Un tempo nel quale la politica, anche la politica dei Ds, deve sforzarsi di fare i conti con la propria innovazione culturale e con le grandi sfide del domani: se non vogliamo che l'ombra del passato si tocchi, fino a confondersi, col buio del futuro.
“La Stampa" 16 ottobre 1999
Veltroni con Berlusconi negli anni 80 |
L’articolo di Gianpasquale Santomassimo
sui giri di Walter
Quello della identità, delle tradizioni politiche e culturali a cui fare riferimento è un problema comprensibilmente molto sentito nell'ultimo decennio a sinistra, in forme talvolta anche eccessivamente cariche di pathos. A qualcuno la continua ed esibita ricerca di un'anima da parte di una sinistra che sta perdendo il corpo, e non pare preoccuparsene troppo, può apparire un lusso: ma in realtà le due cose sono strettamente collegate.
Su questo terreno, di per sé nebuloso e impervio, va registrata comunque una svolta importante, che va valutata in tutte le sue implicazioni. Mi riferisco alla lettera di Veltroni alla Stampa del 16 ottobre 1999 nella quale, fra l'altro, veniva sancita l'incompatibilità tra comunismo e libertà. Non a caso essa è stata ed è al centro di una viva e talvolta drammatica polemica politica che ha animato i congressi del partito di Veltroni, con punte di disagio e di malessere che nessuno può sottovalutare. Discutere quel testo implica indubbiamente un diretto coinvolgimento di sentimenti, di storie, di motivazioni personali e generazionali. Ma, al di là di questo, vorrei proporre una chiave di lettura diversa. Assumendo la lettera di Veltroni come un vero e proprio documento storico. La "storicità" dei documenti prescinde infatti dal loro valore e dal loro spessore culturale.
Non c'è dubbio che questa lettera si ponga come un documento importante, che chiude una lunga fase, iniziata quasi un quarto di secolo fa sotto l'offensiva della politica culturale craxiana, attraverso una strategia di richieste sempre più ultimative e circostanziate di abiure specifiche su singoli momenti e personaggi della storia comunista, e che ha visto la progressiva dismissione di elementi dell'identità costitutiva dei comunisti italiani fino alla completa abiura della propria storia. Credo che su questo terreno la lettera di Veltroni rappresenti una tappa risolutiva, e un punto di non ritorno. Se non altro perché non è rimasto più niente da abiurare, almeno per la storia di questo secolo. Restano la Comune di Parigi e la rivolta di Spartaco, ma Veltroni potrà provvedere alla prossima occasione.
Intanto, credo si debba porre una questione preliminare, sulla natura di questi pronunciamenti e sulla "laicità" di questi comportamenti. Togliatti, negli anni Cinquanta, dialogava in termini problematici con Norberto Bobbio in tema di comunismo e libertà; Veltroni risponde alle intimazioni di Gianni Riotta e condanna, a richiesta, la rivoluzione d'Ottobre e quant'altro. Le proporzioni tra gli interlocutori sono rispettate. Ma c'è qualcosa che non torna, nella stessa logica delle "scuse per il passato" e del pentitismo storiografico sempre più ricorrente nel rapporto patologico con la storia che sembra instaurarsi in un paese che sembra, peraltro, del tutto sprovvisto di memoria, anche per il suo passato più recente.
Quando il papa pronuncia solenni mea culpa sul passato prossimo o lontano della Chiesa compie gesti, comunque valutabili nel merito, di grandissima novità e grandissima portata. Egli si pone come espressione di una comunità ecclesiale che si fonda anche su una continuità dottrinaria e su una presunzione di infallibilità che rende necessaria la revisione ufficiale di giudizi sul passato. Ma Walter Veltroni non è il papa, è il segretario di un partito che non si sa bene cosa sia, ma si presume laico. Non c'è alcun motivo perché debba pronunciarsi su accadimenti che precedono la sua nascita. In realtà, in questi pronunciamenti "storici", c'è l'ultimo residuo di un'antica visione sacrale del ruolo del segretario di un partito comunista che spinge con naturalezza a pronunciare condanne e riabilitazioni sul passato. È la sottile continuità di un rapporto con il passato come fonte di legittimazione (o come rischio di delegittimazione) che ha attraversato la storia del movimento operaio in questo secolo, e che spingeva altrove (ma a volte anche in Italia) a riscrivere la storia ad ogni cambio di segreteria o ad ogni svolta congressuale e che modificava presenza e gerarchia di icone nelle sale e negli uffici e nelle pagine dei libri. Un rapporto di legittimazione della politica attraverso la storia di cui pensavamo di esserci finalmente liberati, ma che il "nuovista" Veltroni paradossalmente ripropone. Il confuso album di figurine dei personaggi della sinistra da portare con noi nel Duemila contenuto nell'Epistola a Riotta è l'equivalente postmoderno della genealogia dello storicismo marxista che da De Sanctis e Labriola conduceva a Gramsci e Togliatti.
Ma il primo degli aspetti fondamentali da analizzare è quello della visione del Novecento che emerge da questo testo (che non è opinione di un singolo dirigente, ma si ripropone in forma più ampia nel documento congressuale della maggioranza dei Ds, da cui, in effetti, Veltroni cita testualmente). Con le affermazioni enfatiche sul "Novecento secolo del sangue", secolo dei gulag e dei lager, secolo di Auschwitz, secolo segnato dalla tragedia del comunismo, il punto di vista del maggiore partito della sinistra italiana si inserisce senza alcuna originalità in un diffuso e ormai pervadente giudizio sul Novecento, frutto di un giornalismo storico apocalittico (ed eurocentrico), particolarmente diffuso in Italia e in Francia, che punta in realtà a eternare il punto di vista dei vincitori della guerra fredda e a condannare come crimine potenziale qualunque tentativo di andare oltre l'orizzonte della democrazia liberale (e liberista). Il risultato è l'acquisizione di una prospettiva storica demoliberale, priva di quelle tensioni critiche e problematiche che hanno costituito la grandezza dello stesso pensiero liberale e democratico dall'Ottocento ad oggi. Caratterizzata vistosamente e ossessivamente dall'anticomunismo, questa nuova vulgata storiografica tende a porsi quale nuovo senso comune con grande dispiego di mezzi e con una pallida e intermittente resistenza critica da parte della sinistra. Il paradigma del totalitarismo, inteso quale fenomeno unitario (unificante movimenti e ideologie che nella storia reale sono stati contrapposti) che avrebbe segnato di sé quale male assoluto tutto il secolo, ha sostituito tutti i precedenti paradigmi storiografici come chiave interpretativa di ogni vicenda. Molto blanda e comprensiva verso i vari fascismi, questa visione è compattamente "demonizzante" verso il comunismo e la sua incarnazione nell'"impero del male" sovietico, motore negativo di tutto il secolo e dei suoi orrori.
Ora, il Novecento è stato segnato dalle due più grandi guerre della storia (non causate in alcun modo dal comunismo) e da un carico di orrori e di oppressioni su cui è giusto che si torni sempre a riflettere. Eppure, fino a pochi anni fa, a qualsiasi democratico chiamato a compendiare il senso del secolo sarebbe certamente venuto in mente che il Novecento è stato anche e soprattutto il secolo della decolonizzazione, della liberazione e della indipendenza per gran parte del pianeta, dell'ingresso consapevole e organizzato di masse sterminate nella storia mondiale; e anche dell'ampliamento del benessere, delle libertà e dei diritti sociali e individuali. In questa storia di lotte, di vittorie e di sconfitte, i movimenti e i partiti comunisti e socialisti hanno avuto grande parte. Dimenticarlo è un'amnesia colpevole e inspiegabile, che pregiudica la percezione del futuro possibile assai più che il giudizio sul passato.
Non intendo qui discutere del giudizio storico sull'incompatibilità tra comunismo e libertà, che è questione troppo seria e complessa per essere affrontata a partire da questa base. Se fosse la semplice constatazione di un limite tragico e irrisolto nei tentativi di costruzione delle società socialiste, che ne ha inficiato fin dal principio potenzialità di sviluppo e di espansione, non si potrebbe che convenirne. Ricordando magari che la prima a formulare la critica di quel limite fu una comunista rivoluzionaria, Rosa Luxemburg, il cui nome non rientrerà mai negli album di figurine della sinistra raccolti da Veltroni, ma che è realmente una figura da "portare con noi nel Duemila". Ma Veltroni va ben oltre, e liquida come "stravolgimento di nobili ideali" fin dal suo sorgere l'intera esperienza della rivoluzione russa, senza neppure tener conto del durevole potenziale di effettiva liberazione che quell'evento suscitò in tutto il mondo. Un giudizio drastico e liquidatorio, che coinvolge la stessa storia dei comunisti italiani, e di fronte al quale è del tutto illogico affermare che tutto questo era già contenuto nella svolta dell'89.
Il ruolo che la nuova visione della storia assegna al comunismo è in effetti molto diverso. Il comunismo viene rubricato come una pura e semplice "tragedia del Novecento". Una storia criminale, alla Livre Noir? Chi, muovendo da quella storia, è arrivato, legittimamente e pensosamente, a queste conclusioni, dovrebbe avere in primo luogo la dignità di ritirarsi dalla vita politica. Senza illudersi di "rassicurare" alcuno, anche perché, come ha fatto notare Eugenio Scalfari, il meccanismo inquisitorio della richiesta di abiure per sua natura non avrà mai fine. Non erano passate ventiquattrore dall'abiura di Veltroni sulla storia del Novecento che già un editorialista del "Corriere della sera" scriveva che tutto questo non bastava, e che per essere credibili gli ex-comunisti avrebbero dovuto anche condannare ogni forma di vulnus alla proprietà privata. Del resto, perché i cittadini dovrebbero sentirsi rassicurati e correre a votare per i complici di un crimine secolare? Il ruolo dei pentiti è quello di testimoniare nei tribunali contro la propria parte di un tempo, non quello di porsi come guide credibili per il futuro.
O Veltroni ritiene che l'unico modo di guadagnare credibilità sia ormai quello di chiamarsi fuori del tutto da quella storia, dichiarando di "non essere mai stato comunista"? È un tentativo molto arduo e dalle implicazioni controverse, se non altro perché espungere il comunismo dalla storia del Novecento è praticamente impossibile, per l'intrico di legami, ideali e concreti, che esso ha intrecciato con ogni movimento di libertà, di giustizia e di democrazia (si veda il caso emblematico dell'antifascismo, non a caso al centro di polemiche delegittimanti proprio per la sua contaminazione indissolubile con il comunismo).
Credo peraltro che sia giusto porre l'accento, come Veltroni ha fatto spesso negli ultimi tempi, sulle diversità generazionali nelle motivazioni dell'adesione al Pci. Era molto diverso aderire a quel partito prima o dopo il 1956, ed ancor più dopo il 1968 e la Cecoslovacchia. Significava, nell'ultimo caso, essere del tutto immuni dal mito e dal fascino residuo del modello sovietico, e mantenere nei suoi confronti un atteggiamento di motivata diffidenza. Lasciar credere però di essersi iscritti a quel partito in quanto "non comunisti" e per abbattere Breznev e la sua dittatura è francamente poco credibile, se non altro perché c'erano molte altre organizzazioni, legali e illegali, che offrivano con maggiori garanzie le stesse opportunità.
Quanto al "non essere mai stati comunisti", c'è un curioso equivoco storico che andrebbe sciolto. Chi si è iscritto giovanissimo agli organismi dirigenti del partito comunista dovrebbe sapere che quel partito richiedeva un'adesione al suo programma politico, in piena autonomia da professioni di fede religiosa o filosofica. Cosa significava e cosa significa "comunista" per Veltroni? Sembra di capire che il termine designi coloro che volevano introdurre una rigida dittatura del proletariato e lasciare scorrazzare liberamente i carri armati del patto di Varsavia nelle nostre piazze. Se è così, i "comunisti" erano davvero una piccola minoranza residuale in quel partito.
Chi ha qualche anno più di Veltroni ricorda le prime Tribune politiche televisive, che furono una cosa completamente nuova e che influirono moltissimo nell'educazione politica della nostra generazione. Sentivamo discutere uomini, come Moro, Nenni, Togliatti, Saragat, La Malfa, che oggi possono apparirci dei giganti paragonati al ceto politico attuale. Nelle tribune dedicate al partito comunista era immancabile la domanda sul "modello" di quel partito. Il vostro modello è quello sovietico? La risposta, altrettanto immancabile, era sempre la stessa, da parte di Togliatti, di Longo o di Berlinguer: il nostro modello è la Costituzione repubblicana, niente di più e niente di meno.
Del resto una delle critiche più ricorrenti che nel dibattito culturale e storiografico della sinistra veniva avanzata al Pci, e in particolare al "partito nuovo" di Togliatti, era proprio quella di aver lasciato fin troppo sullo sfondo, come un pallido obiettivo lontano nel tempo, il fine ultimo della società ideale che avrebbe voluto perseguire. L'unico dirigente del Pci che si propose concretamente di introdurre nella struttura sociale del paese alcuni "elementi di socialismo" fu proprio Enrico Berlinguer. Non Togliatti, non Longo: proprio il Berlinguer degli anni Settanta a cui Veltroni si richiama. Era una delle tante "cose coraggiose" che il comunista Berlinguer faceva e che Veltroni rimuove completamente.
Il secondo punto fondamentale da sottolineare è quello relativo alla proposta di una nuova identità, fondata su una nuova e composita tradizione, che il documento contiene. È estremamente significativo l'album di figurine dei personaggi della sinistra "ancora vivi" che hanno attraversato "il ventre del Novecento" per giungere fino a noi. Qui si fanno concretamente conti con la tradizione della sinistra che, attraverso un meccanismo di inclusioni e di esclusioni, portano ad esiti sconcertanti e imprevisti.
Nell'elenco di Veltroni troviamo la permanenza provvisoria di un comunista come Gramsci, forse interpretato come un liberale inconsapevole. C'è l'appropriazione indebita e sconcertante di due cattolici. Quel Dossetti che si batté fino ai suoi ultimi giorni per difendere la Costituzione repubblicana dai tentativi di stravolgimento che il partito di Veltroni assecondava. E quel don Milani che condusse una battaglia coraggiosa, per la quale pagò di persona, in difesa dell'obiezione di coscienza e contro tutte le guerre. Walter Veltroni, il primo dirigente politico italiano che dopo il Duce è riuscito a portare in piazza centomila persone per manifestare a favore di una guerra, confidava ai corrispondenti dell'Unità, uscendo dalla scuola di Barbiana, di aver molto sofferto in viaggio perché un cittadino seduto di fronte a lui in treno sfogliava una rivista di armi. Il disgusto lo costrinse a cambiare di posto. Ma non possiamo escludere che l'ignaro appassionato di armamenti avesse maturato la sua passione durante la mobilitazione per la guerra etica di primavera e che si recasse come Veltroni in Toscana per seguire il vertice dei signori della guerra della sinistra mondiale.
Per il resto, ed è il dato più sorprendente, troviamo nella lista di Veltroni l'intera genealogia del Partito d'Azione. Una tradizione importante della sinistra italiana, ma del tutto esterna alla identità originaria del partito da cui Veltroni proviene. Un partito che deve il suo intatto prestigio alla qualità straordinaria dei suoi uomini, ma anche alla sua repentina scomparsa (che ne ha preservato fascino, mito e rimpianto, sottraendolo alla prosaica esperienza della politica repubblicana), dovuta allo scarso favore degli elettori e alla inconciliabilità delle sue anime (Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi, Emilio Lussu erano personalità politicamente inconciliabili). In quella tradizione ricca e composita erano peraltro presenti tensioni assai meno pacificate di come vengono raffigurate. Carlo Rosselli, ad esempio, non era solo l'inventore di una fortunata sigla che accomuna giustizia e libertà e perciò può essere da tutti condivisa, ma era un rivoluzionario internazionalista e classista, che oggi per le sue idee apparirebbe agli occhi di Veltroni, se leggesse gli autori che cita, come un pericoloso sovversivo.
Ma il dato sconcertante è che non ci troviamo di fronte alla trasformazione o all'evoluzione di un'identità - processo di per sé naturale e inevitabile, perché le identità sono sempre dinamiche e soggette a sviluppo - ma all'acquisizione in blocco di una identità altrui. “L'Unità” ha preso del resto a difendere la tradizione azionista da ogni critica con lo stesso metodico e automatico senso di sacralità con cui in passato difendeva la tradizione comunista.
In tutto questo sorprende e addolora l'eliminazione radicale non solo della tradizione comunista, ma anche di quella socialista. In una lista così dettagliata, e carica di nomi francamente superflui, Veltroni non ha la sensibilità neppure di fare i nomi di Giacomo Matteotti e Sandro Pertini, uomini e simboli che abbiamo tutti sentito come nostri.
Molti critici avevano pensato dieci anni fa che il rischio insito nella svolta di Occhetto fosse la "socialdemocratizzazione" del Pci. Un timore che purtroppo si è rivelato infondato. Uso l'avverbio purtroppo perché sono consapevole che la socialdemocrazia è cosa seria e rispettabile, radicalmente difforme rispetto all'approdo genericamente "democratico" a cui si tende. Una nuova identità "nata nell'89", e che nel '99 sembra fondarsi sulla condanna del comunismo e sul vanto per la "guerra etica". Una forza che sembra tendere a una "democrazia senza aggettivi", ignorando che la democrazia senza aggettivi non esiste in natura e che ogni democrazia è connotata storicamente. Un partito che rotti i ponti con la tradizione del movimento operaio si inoltra inevitabilmente nel tunnel del "partito democratico", sollecitando, altrettanto inevitabilmente, il riemergere di un problema di autonomia e di presenza di una forza di sinistra, di massa e radicata nel mondo del lavoro, che la storia italiana sembrava avere risolto in forma definita da oltre un secolo.
Come si risponde a questo? Compilando album di figurine alternativi? Credo che si debba invece uscire del tutto da questo terreno, e si debba rifiutare alla radice tutta la logica delle abiure e delle riabilitazioni. Uscendo del tutto dalle controversie che hanno segnato la riflessione sul passato nella sinistra. Tanto più perché le varie diaspore provocate dall'89 hanno indotto ad assolutizzare "anime" particolari e identità minori, ognuna con la sua storia e la sua elaborazione di memoria. Un processo che contiene l'innegabile ricchezza di una nuova complessità, ma anche tendenze distruttive di ogni possibilità di ricomposizione unitaria. Anche per questo bisognerebbe assumere un atteggiamento integralmente laico nei confronti della storia e tagliare corto con ogni forma di polemica e di rivendicazione basata sul passato. La storia non è un supermercato dove ci si può aggirare con un carrello prendendo le scatole che piacciono e rifiutando quelle nocive alla nostra dieta.
Una nuova sinistra che punti ad un rinnovamento e a un rilancio delle ragioni e del senso della sinistra dovrebbe avere il coraggio di assumere su di sé l'eredità di tutto il movimento operaio italiano. Non questo o quel dirigente del passato, non questo o quel momento di una storia grande e complessa, di cui va rivendicato con orgoglio il ruolo e il contributo insostituibile al cammino del paese. Collegandosi al senso profondo di questa storia, alle aspirazioni e ai sentimenti delle donne e degli uomini che ne hanno costruito e nutrito il percorso storico. E su questa base guardare avanti, senza lasciarsi opprimere dal peso della storia e delle polemiche periodiche che sulla storia vengono innescate.
“La rivista del manifesto” – gennaio 2000
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