29.6.12

Yao Wenyuan, la banda e la sinistra che non c'è più (di Tommaso Di Francesco)


Yao Wenyuan a una riunione durante la Rivoluzione Culturale
Dopo la morte di Yao Wenyuan, l'ultimo protagonista incluso nella «banda dei quattro», resta senza testimoni la rivoluzione culturale, formidabile tentativo di cambiare il mondo. Era questo il sommario dell'articolo con il quale "il manifesto", per la firma di Tommaso Di Francesco commenta la scomparsa del giornalista e dirigente politico scomparso, articolo encomiabile perché rappresenta la volontà di restituire alla memoria una pagina di storia volutamente cancellata in questi ultimi decenni a Est come a Ovest, in Cina come nel resto del mondo. Anche tra i compagni - perfino dopo l'evidente inverarsi delle previsioni dell'ultimo Mao - vi è chi si attarda a considerare la lotta politica in Cina negli anni 1966-69 solo come lotta per il potere. "Ogni lotta - soleva dire Mao giustamente - è lotta per il potere", ma quella che si svolgeva in Cina era soprattutto lotta tra "due linee", "due vie", "due classi". I rivoluzionari maoisti hanno perso, per i rapporti di forze e per i loro errori, ma questo non può induce ad accettare la vulgata del nemico di classe, il suo tentativo di criminalizzare tutti gli oppositori intransigenti del capitalismo. (S.L.L.) 
Il processo alla cosiddetta Banda dei quattro
Con i tradizionali dieci-venti giorni di ritardo da parte delle autorità cinesi e gli immancabili quanto distorti necrologi dei media occidentali, è arrivata in questi giorni la notizia della morte di Yao Wenyuan, la penna della rivoluzione culturale del 1966. Così la «banda dei quattro» non c'è più: dopo il suicidio nel 1991 della vedova di Mao, Jiang Qing, la morte per cancro nel 1992 del «giovane successore», l'operaio di Shanghai Whang Hongwen, e la scomparsa otto mesi fa del teorico Zhang Chunqiao, che era stato di fatto anche segretario del Pcc. Quella che la restaurazione di partito guidata da Deng Xiaoping e la vulgata internazionale hanno chiamato con disprezzo la «banda dei quattro» - tutti prontamente arrestati e finiti in galera per molti anni (dando per inteso che il quinto «bandito», Mao Zedong stesso, era già morto nel 1976) - non ha più un testimone vivo sulla faccia della terra. Se non fosse per il fatto che quest'anno è il quarantennale di quello straordinario movimento, e che la Cina con i suoi nodi irrisolti, compreso l'avvento del suo costoso, diseguale e predatorio iper-capitalismo, è diventato il dilemma principale della crisi internazionale, potremmo tranquillamente disinteressarci della morte dei leader della rivoluzione culturale. Non possiamo invece permettercelo perché in quei nomi, in quelle biografie, è contenuto lo sforzo, fallimentare, di costruire per la Cina e per il mondo un'alternativa di sistema, diversa e contrapposta sia al capitalismo sia al modello socialista dell'allora Urss. Attraverso una rivoluzione «culturale» capace di rimettere in discussione l'esclusiva della politica da parte del partito attraverso la costruzione di luoghi di aggregazione, democrazia e potere diversi dagli apparati precostituiti, nel tentativo di costruire nuove istituzioni valide alla transizione di una società egualitaria per un paese allora di 800 milioni di persone alle prese con un profondo isolamento internazionale e, all'interno, con la necessità di organizzare il lavoro e la ripartizione delle risorse senza alimentare la divisione sociale e senza confermare la miseria esistente - com'era stato nel 1958 per il Grande balzo. Insomma, il contrario della Cina attuale.
Parliamo dunque di Yao Wenyuan e del «raffinato» Zhang, della «perfida» Jiang Qing, del «dissoluto» Wang. Con la convinzione di parlare di cose che ci riguardano: avevano la consapevolezza, rivelatasi ahimè più che veritiera, di agire in una situazione in cui «la sinistra non c'era più».

L'entrata in scena
Tutto comincia con un articolo di Yao Wenyuan. E la sua entrata in scena fu proprio a partire dalla difficile situazione di uscita dal disastro del Grande Balzo (1958-1960), che vide Mao cercare di attivare i settori intellettuali, economici e scientifici della società e del partito e nel 1964 costituendo il Gruppo per la rivoluzione culturale, composto da cinque membri, diretto da Peng Zhen, potente sindaco di Pechino e membro dell'Ufficio politico, e con la partecipazione del fedelissimo di Mao, Kang Sheng.
E qui viene il bello. Perché Mao, che aveva voluto questo «Gruppo dei Cinque» ricordando la sua antica indicazione sulla necessità di «incoraggiare l'espressione, dare libero sfogo alla voce del popolo, in modo che tutti osino parlare, criticare, discutere», decise tra l'altro di selezionare alcune decine di opere letterarie che considerava «negative» perché comunque circolassero nel paese per essere conosciute e criticate: tra queste c'era il dramma storico Le dimissioni di Hai Rui di Wu Han, nel quale un onesto funzionario mandarino della dinastia Ming, nel 1559, dopo avere assunto la difesa degli interessi dei contadini della regione di Suchow e avere chiesto all'imperatore di ascoltare i suoi buoni consigli, non solo non veniva ascoltato ma veniva al contrario destituito e relegato ai margini del potere. Sembrava un testo «storico» apologetico come tanti rivolti alla tradizione mandarina cinese, senonché l'autore e il forte tema allusivo dell'argomento affrontato, fecero deflagrare il confronto. E pare quasi incredibile che da un testo teatrale storico sia potuta nascere per intero la stagione del movimento della Rivoluzione culturale - che non durò dieci anni come è stato erroneamente scritto, ma meno di tre, dal 1966 al 1969.
Chi era Wu Han? Era uno storico non comunista, un «compagno di strada», specializzato in saggi sulle dinastie imperiali, che soprattutto era diventato vicesindaco di Pechino, e dunque era vicinissimo al potente Peng Zhen, responsabile del Gruppo dei Cinque. Wu Han aveva cominciato a scrivere l'opera stimolato in un primo tempo dalle lodi dello stesso Mao per quell'antico personaggio e la sua onestà, ma il Grande Timoniere non aveva esitato a criticare poi alcuni scritti di Wu Han indicandoli come esempio di forte politicità esercitata da chi dichiarava invece di non occuparsi di politica e per di più di non essere comunista. Ma il fatto più importante era un altro. In quel dramma attraverso la figura del protagonista Hai Rui era adombrata - ed era immediatamente leggibile, siamo a metà 1965 - la vicenda dell'epurazione del capo dell'esercito, Peng Dehuai, eroe dell'Armata popolare e della guerra di liberazione, uscito di scena dopo uno scontro con Mao sui principi riorganizzativi dell'esercito che Peng aveva voluto piuttosto simili a quelli dell'esercito sovietico (nel 1965 verranno invece aboliti tutti i gradi superiori, dai marescialli agli ufficiali fino ai generali): lo scontro era per la riconduzione delle forze armate, dopo la guerra di Corea, sotto il comando del partito e comunque contro ogni pericolo «bonapartista». Il dramma di Wu Han appariva, e di fatto era, una critica verso Mao e un sostegno aperto alla riabilitazione di Peng Dehuai.
Così il caso «negativo» venne sottoposto all'ufficiale «Gruppo della Rivoluzione culturale», con grande fastidio del sindaco di Pechino Peng Zhen. Allo stesso tempo Mao incaricò la moglie Jiang Qing di avviare un «secondo rapporto» sul testo teatrale. Il rapporto venne affidato a Yao Wenyuan che nel novembre 1965 attaccò Wu Han sul giornale di Shanghai Wen Huipao. «La grande rivoluzione culturale proletaria cominciò con la critica del compagno Yao Wenyuan alla Destituzione di Hai Rui », scrive lo stesso Mao, ricordando di avere chiesto a Jiang Qing che venisse prima letto da «qualcuno dei compagni dirigenti del Comitato centrale, ma la compagna Jiang Qing disse: l'articolo può essere pubblicato così com'è, non credo ci sia bisogno che lo leggano i compagni Zhou Enlai e Kang Sheng». Quello che sembrava una disputa in redazione sulle correzioni e i refusi di un pezzo diventò subito invece il «casus belli». Perché a quel punto insorse l'ala moderata del partito e il potente Peng Zhen impedì la pubblicazione dell'articolo di Yao a Pechino. E' lo stesso Mao a lamentarsene: «Dopo che l'articolo di Yao Wenyuan fu pubblicato - scrive il Grande Timoniere - la maggior parte dei giornali di tutto il paese lo riprese, tranne a Pechino e nello Hunan. Suggerii che fosse pubblicato in opuscolo ma anche questa proposta incontrò opposizioni e non se ne fece nulla... L'articolo di Yao Wenyuan era il segnale della Grande rivoluzione culturale proletaria».
A quel punto lo scontro non era più sul testo di Wu Han ma, con l'entrata in campo degli altri leader cinesi, da Liu Shaoqi allo stesso defilato Deng Xiaoping, diventò un conflitto aperto sul ruolo del Partito comunista. Il «Gruppo dei Cinque» venne sciolto il 16 maggio 1966. E il primo giugno un dazebao firmato da alcuni studenti, neolaureati e docenti di BeiDa, l'università di Pechino, fu affisso sui muri del campus: non attaccava, com'era già accaduto, le autorità accademiche, ma apertamente e pubblicamente, per la prima volta nella storia della Cina popolare, il comitato di partito dell'università, accusandolo di avere impedito la libera discussione sulla vicenda Wu Han. Era davvero l'inizio. Ad agosto Mao Zedong, dentro Zhongnanhai, sede del Partito comunista, appendeva il suo inequivocabile dazebao: «Bombardate il Quartier generale».

Il comizio a Shanghai
Addio dunque Yao Wenyuan. Era la «penna» del partito, ma certo non un letterato come Mao. Forse un giornalista polemista del tipo «al servizio di...», ma aveva scritto anche l'importante saggio dal titolo La classe operaia deve dirigere tutto, tentando così di imitare il davvero raffinato teorico Zhang Chunqiao, con il quale aveva parlato al comizio che il 5 febbraio 1967 aveva insediato, davanti ad un milione di persone, la Comune di Shanghai. Un'avventura destinata a durare meno di 20 giorni: il 24 febbraio la Comune diventerà infatti «comitato rivoluzionario» e sarà lo stesso Zhang Chunqiao, tornato da un doppio incontro con un preoccupato Mao di fronte alle divisioni che ormai stanno mettendo in discussione l'esistenza del Partito comunista, ad invitare gli operai, i soldati e i contadini comunisti di Shanghai a fare un passo indietro e a non mettere la Comune al posto del Partito.
Addio Yao Wenyuan, di cui è ormai impossibile trovare in Cina - dove non si può parlare di due cose: di Tian An Men `89 e della Rivoluzione culturale - almeno uno dei milioni di opuscoli scritti e pubblicati nel 1966. Chissà se era vero quello che raccontavano di lui - e che i sinologi non hanno certo mai preso sul serio, a ragione? Che abitava nella casa del Grande Timoniere e quindi lo vedeva di continuo. Che avesse sposato la figlia di Mao e Jiang Qing, Li Na. Addirittura (voce circolata a Mosca) che Yao non fosse altri che il figlio di Mao, quell'Anlung che, secondo questa versione, non era stato giustiziato dal Kuomintang nel 1930 ma, avventurosamente sfuggito alla morte, nascosto e allevato da Yao Fengtsu, lo scrittore progressista e non comunista.

“il manifesto” 13 gennaio 2006

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