Riprendo uno stralcio da Tradizione, identità, memoria, un articolo di Roberto Danese, pubblicato su “alfabeta 2” n.18 di aprile 2012, il cuore di una riflessione profonda e convincente sul concetto di “radici”, che diventa un ragionare di natura, cultura e libertà. (S.L.L.)
E’ appena uscito per il Mulino un interessante libretto, subito al centro di un acceso dibattito sulla stampa, di Maurizio Bettini, filologo classico e antropologo del mondo antico, intitolato Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, che sviluppa un articolo apparso qualche anno fa sulla rivista omonima della casa editrice bolognese.
Bettini si occupa del concetto di «radici» culturali, che, secondo alcuni, è fondamentale per stabilire l'identità di un popolo, come potrebbe essere quello padano o quello europeo, sulla base di una tradizione che ne ha conservato alcuni tratti ineludibili, capaci di distinguerlo da altri popoli o altre culture con esso incompatibili. L'esempio più tipico è quello delle fumose radici cristiane, che molte forze politiche volevano inserire nel preambolo della Costituzione Europea, in modo tale da creare un gap incolmabile con altre culture, come, tanto per dirne una a caso, quella islamica.
Il punto nodale di fenomeni come questo è che si dà per certo che la nostra identità collettiva sia costituita da una tradizione a cui facciamo naturalmente capo, nella quale affondano appunto le nostre radici. Questo, secondo Bettini, non è per è nulla scontato, come non è scontata l'immagine metaforica delle «radici» da cui questa o quella comunità fisiologicamente proverrebbero.
In altre parole, bisognerebbe esser quanto meno cauti nel dire con convinzione che la nostra civiltà è cresciuta dalle radici giudaico-cristiane o dalla tradizione classica dei Greci e dei Romani o da altro.
L'idea della tradizione intesa come il fusto di un albero che affonda le proprie radici in una terra particolare e che, tramite queste radici, da questa terra trae identità e nutrimento, quasi come una legge di natura che impedisce di scegliere liberamente i propri riferimenti culturali, in realtà è più un meccanismo simbolico che un dato sostanziale. Si tratta di un'immagine, creata artificialmente molti secoli fa, che, acquistando forza, ha generato la convinzione che «una volta «radicati» in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità culturale diventa impossibile» (p. 28). Si crea cosi, tramite una figura retorica, quello che Bettini chiama «dispositivo di autorità», istillando la convinzione che appartenere a una tradizione sia un fatto automatico, frutto di una necessità biologica, piuttosto che di una scelta culturale.
Invece le cose non stanno così. Immagini come quella botanica delle «radici» o quella della «discendenza» da culture condizionanti che stanno sopra la nostra e che quindi sono ineluttabilmente più importanti, sono in realtà solo immagini, forti quanto si vuole, ma immagini. Basta «smarcarsi» un po' da esse per avere uno sguardo assai più lucido su quello che è la tradizione e su cosa sia veramente lo sviluppo storico di una cultura. I fermi richiami alla tradizione dell’antichità classica, del Cristianesimo delle origini si possono rivelare assai più fragili di quanto non si creda. Già i Greci - come dimostra Bettini — sapevano bene che nel corso dei secoli la loro civiltà non è cresciuta dritta e imponente come il tronco di una quercia, ma avevano piena consapevolezza che c'erano stati mutamenti e contaminazioni culturali in grado di creare, nel corso della loro storia, più tradizioni, una diversa dall'altra.
Abbiamo usato non a caso il verbo «creare», perché le tradizioni non ci sono per natura, ma le si creano, selezionando e insegnando alle generazioni future i valori e i disvalori che più interessano. Quindi anche la tradizione, come la metafora delle «radici» che la rappresenta, è una pura costruzione, volta a «identificare» fortemente un gruppo sociale, dotandolo di riferimenti culturali univoci che quasi mai corrispondono alla sua natura, ma che invece «definiscono» la purezza della sua lignee, come uno schermo protettivo contro pericolose contaminazioni con culture diverse, quasi sempre considerate inferiori.
Tito Livio sapeva bene invece che la grandezza di Roma era nata, sin dagli albori della sua storia, dalla commistione di più culture e di più genti, da un meticciato diffuso che aveva permesso di sviluppare la magnitudo roboris dell'Urbe. E forse anche noi dovremmo abituarci a non aver paura del meticciato, visto che viviamo una globalizzazione in cui tutto si mescola e si confonde: è giusto riconoscere e conservare gli elementi caratterizzanti trasmessi «verticalmente» nel corso della storia attraverso la creazione di tradizioni, ma bisogna anche valorizzare e considerare gli apporti «orizzontali» di civiltà e culture diverse che confluiscono nella nostra cultura, come gli affluenti di un grande fiume, conferendole quella costante mutevolezza e quella instabilità che sono l'unica vera garanzia di vitalità e progresso per un popolo. Anche un argomento che Bettini non tratta, come l'immetodica e strenua difesa dei dialetti, che ha portato alla bizzarra proposta di inserirli nei programmi delle nostre scuole, potrebbe rispondere a questa logica. L'idea che un dialetto si possa insegnare in classe, implica la convinzione che esso sia una lingua pura, radicata nella cultura di una comunità, legata alla terra e alla tradizione, ma anche ben definita e codificata, dotata di una grammatica normativa e quindi propinabile agli studenti. Abbiamo grandi dialettologi e storici della lingua italiana che ci possono insegnare come l'idea che esista, ad esempio, un dialetto veneto tout court, unico e puro come una vera e propria lingua di cultura, sia quanto meno peregrina: ci sono decine di dialetti nel Veneto, molto diversi tra loro, vivi solo nel parlato quotidiano e perciò sempre in continuo sviluppo e in continua simbiosi con altri dialetti, con l'italiano, con lingue straniere europee e non. Insomma la legge del meticciato vale anche per la lingua d'uso, che diventa invece «insegnabile» a tavolino quando attorno a essa nasce una secolare tradizione letteraria, che permetta di codificare artificialmente alcuni suoi aspetti, in modo tale da darle una grammatica, delle regole che possono essere scritte. Come faccio a fare una cosa simile col dialetto, mettiamo, di Pieve di Cadore, di Cingoli o di Cutro? Eppure ho visto in edicola grammatiche del dialetto veneto a dispense: anche questo una sorta di fake, una mitologia populista di stampo ideologico, una artefatta «tradizione» linguistica che, come quelle discusse da Bettini, è legata «indissolubilmente all'esistenza della scrittura» (p. 51).
La purezza di una civiltà, il suo legame stretto e imprescindibile con la terra in cui «affonderebbe le sue radici», in grado di dare preminenza rispetto ad altri, sono dunque concetti privi di un vero fondamento antropologico; sono edifìci ideologici inventati per distinguere - spesso sanguinariamente - un popolo dall'altro, negando la dinamica «combinatoria» di cui da sempre le culture vivono. Basti leggere, per convincersene, l'illuminante capitolo Scegliere la tradizione, in cui Bettini, con disarmante chiarezza, ci spiega come è nata la cruentissima lotta in Ruanda fra Hutu e Tutsi, in realtà lo stesso popolo, ma percepiti come etnie diverse solo grazie a una maldestra classificazione ottocentesca fatta dai missionari e dai colonizzatori occidentali, rivelatasi talmente forte e condizionante da convincere i due gruppi di appartenere a tradizioni se non addirittura a razze diverse. Quindi la memoria collettiva e la tradizione che ci fanno inorgoglire di discendere da questo o da quel ceppo etnico in realtà non ci sono, ma ce le siamo costruite, da sempre, per secoli. Sono mitologie che abbiamo trasmesso e insegnato nelle nostre scuole percependole e facendole percepire come storia, come le 'radici' di quello stesso albero di cui noi siamo rami e polloni…
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