Le Olimpiadi insanguinate da una strage voluta.
L'irruzione della politica nello sport,
l'Ira, i pugni alzati, Urss-Usa 55 a 33.
I ricordi di una cronista.
Olimpiadi di Monaco, 1972. Un militante del gruppo palestinese Settembre Nero sorveglia la stanza ove sono tenuti in ostaggio gli atleti israeliani |
Non ci occupavamo di sport, allora, al manifesto. Nemmeno nella scarna ( e sofisticata) maniera attuale. E così, quando le agenzie in quel 5 settembre 1972 batterono la notizia che nella notte un commando palestinese aveva sequestrato un gruppo di atleti israeliani e li teneva prigionieri, armi in pugno, in una delle palazzine del villaggio costruito per le XX Olimpiadi, a Monaco di Baviera non c'era nessuno dei nostri. Partii io in gran fretta, ignara di come sarei potuta entrare, senza accredito, nell'esclusivo recinto dove alloggiavano gli addetti ai lavori. Alla fine riuscii ad intrufolarmi, grazie alla connivenza di alcuni famosissimi nomi del giornalismo sportivo italiano che, su un divano di fortuna, ospitarono la collega aliena del neonato quotidiano comunista.
Stranamente la sorveglianza della polizia in quelle prime ore era lasca, sproporzionata a quanto stava accadendo. Sebbene due degli ostaggi fossero stati già ammazzati nel corso della colluttazione seguita all'irruzione dei sequestratori nel dormitorio della squadra israeliana, all'alba, nel villaggio sembrava quasi non fosse successo niente: lungo i viali interni, fra padiglioni nazionali, mense, press center, la circolazione appariva normale. Alcuni atleti avevano già ripreso ad allenarsi. Unico trambusto apparente, i materassi della allora ancor esistente Germania dell'est portati via e traslocati altrove: perché l'abitazione riservata alle squadre della Rdt si trovavano proprio di fronte al luogo del fatto, il solo isolato da una discretissima sorveglianza.
Sbirciando fra le spalle degli agenti, in punta di piedi su una panchina adiacente a Connollystrasse, in una condizione per così dire privilegiata - perché oltre lo sbarramento installato per respingere la folla che cominciava ad accalcarsi sul piazzale, anche se dietro il cancelletto che portava agli spogliatoi - potei così vedere, a poche decine di metri di distanza, sulla soglia di un balcone al secondo piano, due uomini con la calza calata sul volto e un khalashnikhov imbracciato: l'immagine che ora, a distanza di 34 anni, ci mostra il discusso film che Spielberg ha dedicato a quell'evento,«Monaco».
A 30 chilometri da Dachau
Sebbene sia passato tanto tempo, ricordo ancora con esattezza quelle ore tremende. Non si trattava, infatti, di una pur drammatica presa di ostaggi come altre già accadute. Lì eravamo in Germania, nella città di Hitler, a 30 km dal lager di Dachau, le vittime del sequestro erano ebrei, gli autori del sequestro le vittime della maggiore ingiustizia contemporanea, palestinesi, il solo popolo escluso dalla festa olimpica. Da solo cinque anni cacciato anche dalla Cisgiordania, mentre da due la sua rappresentanza era stata espulsa anche dal provvisorio rifugio trovato ad Amman, a seguito di una orrenda battaglia ordinata da re Hussein, quella che fu chiamata «Settembre nero».
Anche quella vicenda l'avevo vista da vicino, perché quel fatidico mese mi ero trovata nella capitale giordana per raccontare su il manifesto mensile (il quotidiano non era ancora nato) i primi drammi di una storia che nel frattempo abbiamo imparato a conoscere, ma allora era ignota ai più. Il commando del villaggio olimpico era parte di una nuova organizzazione, che proprio «Settembre nero» si chiamava. Era stato il Fronte popolare, qualche tempo prima, a dare il via alle nuove forme di lotta con il dirottamento di un boeing della Twa (una pratica allora piuttosto inconsueta), operato per attirare sulla questione palestinese l'attenzione di un'opinione pubblica mondiale altrimenti distratta. Ora, a muoversi era una frangia semi-ribelle della stessa Al Fatah. Come non esser tentati di profittare dello straordinario palcoscenico internazionale offerto dai Giochi Olimpici per svelare l'ipocrisia della retorica che li accompagna, la pace e l'uguaglianza fra i popoli?
Per ore sembrò che non accadesse niente. Le radioline, che allora chiamavamo «a transistor», trasmettevano a tutto volume ai curiosi accalcati sul Kusoczinskidamm, fuori dal recinto, la scarsa cronaca della Radio bavarese. Vicino a me e agli altri giornalisti in pole position una selva di telecamere, puntate come fucili verso la palazzina 31 e il visibilissimo balcone dove si alternavano nella guardia esterna i sequestratori, coperto da un improvvisato paravento di cartone solo l'ingresso dell'edificio per non far vedere i mediatori di cui, a partire dal pomeriggio, era cominciato il via vai. Si diceva fossero dell'ambasciata sudanese, poi di quella tunisina, ma ogni informazione veniva regolarmente smentita. Per certo sapevamo solo che c'erano anche funzionari tedeschi che stavano trattando sulle richieste: liberare 236 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, più i due della Rote Arme Fraktion, Andreas Baader e Ulriche Meinhof. Il tempo passa e qualcuno sospetta siano stati già tutti segretamente evacuati, ma non si capisce da dove. Poi, però, ricompare il palestinese, in testa un cappelluccio bianco con una piccola tesa. Sembra essere il capo. E' accompagnato da un ragazzo giovanissmo e mingherlino, con i capelli lunghi, che alle prime avevamo preso per una donna. Sono ancora lì.
Verso le 5 vengono fatti entrare 14 fucilieri scelti della brigata di polizia di Wiesbaden, travestiti da atleti, tuta bianco-rossa ma mitra imbracciato. Scompaiono dietro il paravento e ricompaiono sul tetto. Poi due di loro si calano all'altezza del balcone ma tornano precipitosamente indietro. La folla gradisce l'exploit, è eccitata, si moltiplicano le grida dei venditori di bibite e panini. Sembra il replay di «Un asso nella manica». Anche Spielberg ha raccontato che quando, ventiquattrenne, seguì negli Stati uniti alla televisione, come altri milioni di spettatori, la vicenda, non riusciva a capacitarsi che non si trattasse di un film di suspence.
Gli ultimatum venivano fissati e rinviati. L'ultimo, alle 9 di sera. Ricordo bene la paura che mi cresceva dentro, lo sgomento nel guardare i ragazzi palestinesi, pensando ai ragazzi israeliani che non potevo vedere: come potrà finire?
Poco prima delle nove tutto precipita. Ci informano che dentro la palazzina 31 si trovano il sindaco del villaggio Olimpico e il capo della polizia di Monaco. Possiamo scorgere nel buio che nel frattempo è calato le loro sagome sul balcone. Dunque, ci siamo. E infatti un pulmino Volkswagen blu si accosta all'edificio. Il palestinese con il cappelluccio bianco esce e lo ispeziona ma non deve esser rimasto soddisfatto perché il veicolo se ne va e poco dopo arriva un grande furgone militare. Una selva di poliziotti sbuca da non si sa dove, il piazzale esterno viene evacuato, intravediamo una quindicina di persone uscire alla spicciolata , alcune con i fucili, e montare a bordo della vettura approntata. Contemporaneamente atterranno nello spazio posteriore quattro elicotteri su cui vengono imbarcati i passeggeri del furgone.
Lo spettacolo è finito. Ce ne andiamo anche noi a vedere il seguito alla televisione.
L'attesa al Press center del villaggio Olimpico non dura a lungo. Alle undici di sera uno squarcio di immagine e l'annuncio concitato di un reporter televisivo accostato alla recinzione dell'aereoporto Nato di Furstenfeldbruck. Dice che si sentono degli spari ma che è tutto buio, che non si sa cosa stia accadendo. Riprende il programma normale.
Perché tanti spari?
Restiamo in attesa, allarmati. Poco dopo, il volto sorridente del portavoce del governo, Konrad Ahlers, ci tranquillizza: «Tutto è stato perfetto - annuncia - l'operazione è riuscita, gli ostaggi non sono partiti per l'Egitto come volevano i sequestratori». Aggiunge che il nemico ha subìto pesanti perdite: due palestinesi ammazzati a bruciapelo, un terzo suicidatosi con una granata, un quarto fuggito ma braccato. Ma allora, perché tanti spari all'aeroporto? Cosa è davvero accaduto?
Una prima parziale verità arriva verso l'una e mezza: un comunicato per i giornalisti in cui si ammette che l'ottimismo manifestato poco prima è parzialmente infondato. «Siamo spiacenti». Verso le due, sconvolto, il sindaco di Monaco si sfoga con un giornalista della France Press: «E' una tragedia - dice - l'intera operazione è fallita». Fallita come e perché, quante sono le vittime? A lungo non lo sapremo. Ahlers compare ancora una volta alla televisione ammettendo che l'operazione «non è perfettamente riuscita» ma è pur sempre riuscita, perché «abbiamo salvato gli israeliani impedendo che partissero per l'Egitto dove non sappiamo cosa sarebbe potuto accadergli, Brandt non essendo riuscito a parlare direttamente con Sadat per ottenere garanzie.». «Capirete - aggiunge persuasivo il portavoce del governo - noi non potevamo lavarcene le mani, non potevamo far questo agli ebrei ».
Quel che è realmente accaduto all'aereoporto, chi delle due parti che hanno concordato l'operazione - il governo israeliano e quello tedesco - abbia imposto la scelta della strage che ha lasciato sul terreno 16 morti - nove israeliani, otto palestinesi, oltre a un poliziotto bavarese - con esattezza non lo si saprà mai.
In seguito si è solo saputo che il governo socialdemocratico era incline a cedere, e anche a liberare i due prigionieri della Raf, ma che Golda Meyer lo aveva impedito e i tedeschi non se l'erano sono sentita di contrariare il primo ministro israeliano. Le dimensioni della tragedia provocata da una linea d'azione folle, oltreché dall'incredibile imperizia della polizia, anche noi, che pure eravamo lì, le capiamo solo tardissimo e comunque dopo che la televisione ha annunciato che l'indomani, alle 10, ci sarebbe stata allo stadio la cerimonia funebre per gli ostaggi (quanti?) periti, nell'orario previsto per i 200 metri femminili e i 400 maschili. In fretta, perché i giochi possano riprendere, sia pure con un programma scalato di un giorno. Ci si fa premura di avvertire che i biglietti già acquistati per l'atletica saranno validi per il funerale. Al Press center, quando i programmi sono terminati, resta aperto lo schermo che trasmette le immagini di una emittente americana che va in onda in differita per via del fuso orario: sono quelle del match di box Cuba-Usa.
Il match Germania-Ungheria
Meno di 24 ore dopo la strage, 75.000 spettatori entusiasti gremivano lo stadio per la partita di calcio Germania federale-Ungheria. Lo stesso stadio dove, in mattinata, si era tenuta la cerimonia funebre. Durante la quale è morto, di infarto, un altro israeliano: un vecchio ebreo, sindaco di una cittadina vicino Tel Aviv, cui il cuore non ha retto per quell'accavallarsi di simboli nella vicenda. Le bandiere dei giocatori olimpici erano a mezz'asta, nemmeno uno straccio per la Palestina, nessuno a piangere i suoi morti.
Il terrorismo è nato a Monaco, si è detto; e si dice ancora. E' vero. Nei due anni successivi gli agenti del Mossad, raccogliendo l'indicazione ufficiale di Golda Meyer - che l'indomani della strage aveva detto: «Daremo la caccia ai complici dei sequestratori ovunque nel mondo, fino quando non li avremo eliminati tutti» - hanno proceduto all'assassinio di undici esponenti dell'Olp sospetti di connivenza con Settembre nero: a Roma, a Parigi, a Nicosia, a Beirut, ad Atene, a Glarona in Svizzera, a Hoorn in Olanda, a Tariffa in Spagna. La prima vittima fu Wael Zwaeter, dolce e colto amico che, primo rappresentante di Al Fatah in Italia, aveva con gentilezza e sapienza, spiegato a tanti di noi la storia del suo popolo. Fu ammazzato mentre rientrava a casa, a piazza Annibaliano a Roma, con un sacchetto di panini in mano, la sua cena.
Questi omicidi erano stati preceduti, già dal giorno seguente l'arrivo di bare e sopravvissuti all'aeroporto di Tel Aviv, dalle incursioni di Tsalal nel sud del Libano, protagonisti Sharon e Barak, che lasciano sul terreno centinaia di abitanti dei campi profughi, bombardati dall'alto e schiacciati con i carri armati. Poi il via, nemmeno un mese dopo, agli assassini individuali, raccontati nella forma più compiuta dal giornalista canadese Gorge Jonas, che nel suo libro «La vendetta», raccoglie le confessioni dell'agente israeliano che coordinò le operazioni, nome in codice Avner. Il libro che ha contribuito ad ispirare Spielberg per il suo film «Monaco» e ad alimentare le polemiche della destra contro il regista.
Sì, a Monaco è nato il terrorismo, ma anche l'imbroglio sul senso di questa parola , che ha tutto confuso. Gli agenti del Mossad e i loro mandanti ministeriali, terroristi non sono stati chiamati mai. Sul terreno, assassinata, hanno lasciato anche la speranza della pace. Come ha detto Ghandi: «Occhio per occhio e tutto il mondo resterà cieco».
Tutto questo 34 anni fa. Era l'inizio degli anni Settanta, i vietcong stavano per vincere e per fortuna c'era anche tanta voglia di lotta per la vita. Con gran dispiacere del presidente del comitato Olimpico, l'americano Brundage, che aveva strenuamente voluto la immediata ripresa delle gare, la politica rientrò subito di prepotenza fra i campi da gioco.
Matthews e Collett
Il giovedì, appena calata la cortina sulla tragedia israeliano-palestinese, era stata la volta dei nordirlandesi dell'Ira, che, travestiti da ciclisti, avevano cercato di partire nella corsa con gli altri concorrenti, per poi consegnare, una volta bloccati, un comunicato contro il colonialismo britannico. Poi, più clamorosa, la faccenda di Matthews e Collett, i due atleti afroamericani, arrivati rispettivamente primo e secondo nella corsa dei 400 metri. Montati sulla pedana per la premiazione, si erano tolti le scarpe e avevano chiacchierato ostentamente fra loro, e, mentre gli altri, sull'attenti, cantavano l'inno americano, avevano giocato, ironici e annoiati, con le loro sacre medaglie. Fischiati dalla folla che voleva che Olimpia non fosse più disturbata, si erano voltati e avevano salutato col pugno chiuso in segno di sfida. Risalutati, allo stesso modo, da un gruppo di spettatori neri.
Il comitato olimpico, indignato, li escluse dalle gare successive. A votare contro la decisione, solo gli Stati uniti: nonostante l'offesa alla patria, aveva prevalso l'ambizione dei dirigenti della squadra: non sciupare medaglie nella durissima competizione che per anni ha animato le Olimpiadi, quella fra le due grandi potenze atomiche. (Nel `72 vinse comunque l'Urss con 55 ori contro i 33 degli Stati Uniti).
Stranamente la sorveglianza della polizia in quelle prime ore era lasca, sproporzionata a quanto stava accadendo. Sebbene due degli ostaggi fossero stati già ammazzati nel corso della colluttazione seguita all'irruzione dei sequestratori nel dormitorio della squadra israeliana, all'alba, nel villaggio sembrava quasi non fosse successo niente: lungo i viali interni, fra padiglioni nazionali, mense, press center, la circolazione appariva normale. Alcuni atleti avevano già ripreso ad allenarsi. Unico trambusto apparente, i materassi della allora ancor esistente Germania dell'est portati via e traslocati altrove: perché l'abitazione riservata alle squadre della Rdt si trovavano proprio di fronte al luogo del fatto, il solo isolato da una discretissima sorveglianza.
Sbirciando fra le spalle degli agenti, in punta di piedi su una panchina adiacente a Connollystrasse, in una condizione per così dire privilegiata - perché oltre lo sbarramento installato per respingere la folla che cominciava ad accalcarsi sul piazzale, anche se dietro il cancelletto che portava agli spogliatoi - potei così vedere, a poche decine di metri di distanza, sulla soglia di un balcone al secondo piano, due uomini con la calza calata sul volto e un khalashnikhov imbracciato: l'immagine che ora, a distanza di 34 anni, ci mostra il discusso film che Spielberg ha dedicato a quell'evento,«Monaco».
A 30 chilometri da Dachau
Sebbene sia passato tanto tempo, ricordo ancora con esattezza quelle ore tremende. Non si trattava, infatti, di una pur drammatica presa di ostaggi come altre già accadute. Lì eravamo in Germania, nella città di Hitler, a 30 km dal lager di Dachau, le vittime del sequestro erano ebrei, gli autori del sequestro le vittime della maggiore ingiustizia contemporanea, palestinesi, il solo popolo escluso dalla festa olimpica. Da solo cinque anni cacciato anche dalla Cisgiordania, mentre da due la sua rappresentanza era stata espulsa anche dal provvisorio rifugio trovato ad Amman, a seguito di una orrenda battaglia ordinata da re Hussein, quella che fu chiamata «Settembre nero».
Anche quella vicenda l'avevo vista da vicino, perché quel fatidico mese mi ero trovata nella capitale giordana per raccontare su il manifesto mensile (il quotidiano non era ancora nato) i primi drammi di una storia che nel frattempo abbiamo imparato a conoscere, ma allora era ignota ai più. Il commando del villaggio olimpico era parte di una nuova organizzazione, che proprio «Settembre nero» si chiamava. Era stato il Fronte popolare, qualche tempo prima, a dare il via alle nuove forme di lotta con il dirottamento di un boeing della Twa (una pratica allora piuttosto inconsueta), operato per attirare sulla questione palestinese l'attenzione di un'opinione pubblica mondiale altrimenti distratta. Ora, a muoversi era una frangia semi-ribelle della stessa Al Fatah. Come non esser tentati di profittare dello straordinario palcoscenico internazionale offerto dai Giochi Olimpici per svelare l'ipocrisia della retorica che li accompagna, la pace e l'uguaglianza fra i popoli?
Per ore sembrò che non accadesse niente. Le radioline, che allora chiamavamo «a transistor», trasmettevano a tutto volume ai curiosi accalcati sul Kusoczinskidamm, fuori dal recinto, la scarsa cronaca della Radio bavarese. Vicino a me e agli altri giornalisti in pole position una selva di telecamere, puntate come fucili verso la palazzina 31 e il visibilissimo balcone dove si alternavano nella guardia esterna i sequestratori, coperto da un improvvisato paravento di cartone solo l'ingresso dell'edificio per non far vedere i mediatori di cui, a partire dal pomeriggio, era cominciato il via vai. Si diceva fossero dell'ambasciata sudanese, poi di quella tunisina, ma ogni informazione veniva regolarmente smentita. Per certo sapevamo solo che c'erano anche funzionari tedeschi che stavano trattando sulle richieste: liberare 236 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, più i due della Rote Arme Fraktion, Andreas Baader e Ulriche Meinhof. Il tempo passa e qualcuno sospetta siano stati già tutti segretamente evacuati, ma non si capisce da dove. Poi, però, ricompare il palestinese, in testa un cappelluccio bianco con una piccola tesa. Sembra essere il capo. E' accompagnato da un ragazzo giovanissmo e mingherlino, con i capelli lunghi, che alle prime avevamo preso per una donna. Sono ancora lì.
Verso le 5 vengono fatti entrare 14 fucilieri scelti della brigata di polizia di Wiesbaden, travestiti da atleti, tuta bianco-rossa ma mitra imbracciato. Scompaiono dietro il paravento e ricompaiono sul tetto. Poi due di loro si calano all'altezza del balcone ma tornano precipitosamente indietro. La folla gradisce l'exploit, è eccitata, si moltiplicano le grida dei venditori di bibite e panini. Sembra il replay di «Un asso nella manica». Anche Spielberg ha raccontato che quando, ventiquattrenne, seguì negli Stati uniti alla televisione, come altri milioni di spettatori, la vicenda, non riusciva a capacitarsi che non si trattasse di un film di suspence.
Gli ultimatum venivano fissati e rinviati. L'ultimo, alle 9 di sera. Ricordo bene la paura che mi cresceva dentro, lo sgomento nel guardare i ragazzi palestinesi, pensando ai ragazzi israeliani che non potevo vedere: come potrà finire?
Poco prima delle nove tutto precipita. Ci informano che dentro la palazzina 31 si trovano il sindaco del villaggio Olimpico e il capo della polizia di Monaco. Possiamo scorgere nel buio che nel frattempo è calato le loro sagome sul balcone. Dunque, ci siamo. E infatti un pulmino Volkswagen blu si accosta all'edificio. Il palestinese con il cappelluccio bianco esce e lo ispeziona ma non deve esser rimasto soddisfatto perché il veicolo se ne va e poco dopo arriva un grande furgone militare. Una selva di poliziotti sbuca da non si sa dove, il piazzale esterno viene evacuato, intravediamo una quindicina di persone uscire alla spicciolata , alcune con i fucili, e montare a bordo della vettura approntata. Contemporaneamente atterranno nello spazio posteriore quattro elicotteri su cui vengono imbarcati i passeggeri del furgone.
Lo spettacolo è finito. Ce ne andiamo anche noi a vedere il seguito alla televisione.
L'attesa al Press center del villaggio Olimpico non dura a lungo. Alle undici di sera uno squarcio di immagine e l'annuncio concitato di un reporter televisivo accostato alla recinzione dell'aereoporto Nato di Furstenfeldbruck. Dice che si sentono degli spari ma che è tutto buio, che non si sa cosa stia accadendo. Riprende il programma normale.
Perché tanti spari?
Restiamo in attesa, allarmati. Poco dopo, il volto sorridente del portavoce del governo, Konrad Ahlers, ci tranquillizza: «Tutto è stato perfetto - annuncia - l'operazione è riuscita, gli ostaggi non sono partiti per l'Egitto come volevano i sequestratori». Aggiunge che il nemico ha subìto pesanti perdite: due palestinesi ammazzati a bruciapelo, un terzo suicidatosi con una granata, un quarto fuggito ma braccato. Ma allora, perché tanti spari all'aeroporto? Cosa è davvero accaduto?
Una prima parziale verità arriva verso l'una e mezza: un comunicato per i giornalisti in cui si ammette che l'ottimismo manifestato poco prima è parzialmente infondato. «Siamo spiacenti». Verso le due, sconvolto, il sindaco di Monaco si sfoga con un giornalista della France Press: «E' una tragedia - dice - l'intera operazione è fallita». Fallita come e perché, quante sono le vittime? A lungo non lo sapremo. Ahlers compare ancora una volta alla televisione ammettendo che l'operazione «non è perfettamente riuscita» ma è pur sempre riuscita, perché «abbiamo salvato gli israeliani impedendo che partissero per l'Egitto dove non sappiamo cosa sarebbe potuto accadergli, Brandt non essendo riuscito a parlare direttamente con Sadat per ottenere garanzie.». «Capirete - aggiunge persuasivo il portavoce del governo - noi non potevamo lavarcene le mani, non potevamo far questo agli ebrei ».
Quel che è realmente accaduto all'aereoporto, chi delle due parti che hanno concordato l'operazione - il governo israeliano e quello tedesco - abbia imposto la scelta della strage che ha lasciato sul terreno 16 morti - nove israeliani, otto palestinesi, oltre a un poliziotto bavarese - con esattezza non lo si saprà mai.
In seguito si è solo saputo che il governo socialdemocratico era incline a cedere, e anche a liberare i due prigionieri della Raf, ma che Golda Meyer lo aveva impedito e i tedeschi non se l'erano sono sentita di contrariare il primo ministro israeliano. Le dimensioni della tragedia provocata da una linea d'azione folle, oltreché dall'incredibile imperizia della polizia, anche noi, che pure eravamo lì, le capiamo solo tardissimo e comunque dopo che la televisione ha annunciato che l'indomani, alle 10, ci sarebbe stata allo stadio la cerimonia funebre per gli ostaggi (quanti?) periti, nell'orario previsto per i 200 metri femminili e i 400 maschili. In fretta, perché i giochi possano riprendere, sia pure con un programma scalato di un giorno. Ci si fa premura di avvertire che i biglietti già acquistati per l'atletica saranno validi per il funerale. Al Press center, quando i programmi sono terminati, resta aperto lo schermo che trasmette le immagini di una emittente americana che va in onda in differita per via del fuso orario: sono quelle del match di box Cuba-Usa.
Il match Germania-Ungheria
Meno di 24 ore dopo la strage, 75.000 spettatori entusiasti gremivano lo stadio per la partita di calcio Germania federale-Ungheria. Lo stesso stadio dove, in mattinata, si era tenuta la cerimonia funebre. Durante la quale è morto, di infarto, un altro israeliano: un vecchio ebreo, sindaco di una cittadina vicino Tel Aviv, cui il cuore non ha retto per quell'accavallarsi di simboli nella vicenda. Le bandiere dei giocatori olimpici erano a mezz'asta, nemmeno uno straccio per la Palestina, nessuno a piangere i suoi morti.
Il terrorismo è nato a Monaco, si è detto; e si dice ancora. E' vero. Nei due anni successivi gli agenti del Mossad, raccogliendo l'indicazione ufficiale di Golda Meyer - che l'indomani della strage aveva detto: «Daremo la caccia ai complici dei sequestratori ovunque nel mondo, fino quando non li avremo eliminati tutti» - hanno proceduto all'assassinio di undici esponenti dell'Olp sospetti di connivenza con Settembre nero: a Roma, a Parigi, a Nicosia, a Beirut, ad Atene, a Glarona in Svizzera, a Hoorn in Olanda, a Tariffa in Spagna. La prima vittima fu Wael Zwaeter, dolce e colto amico che, primo rappresentante di Al Fatah in Italia, aveva con gentilezza e sapienza, spiegato a tanti di noi la storia del suo popolo. Fu ammazzato mentre rientrava a casa, a piazza Annibaliano a Roma, con un sacchetto di panini in mano, la sua cena.
Questi omicidi erano stati preceduti, già dal giorno seguente l'arrivo di bare e sopravvissuti all'aeroporto di Tel Aviv, dalle incursioni di Tsalal nel sud del Libano, protagonisti Sharon e Barak, che lasciano sul terreno centinaia di abitanti dei campi profughi, bombardati dall'alto e schiacciati con i carri armati. Poi il via, nemmeno un mese dopo, agli assassini individuali, raccontati nella forma più compiuta dal giornalista canadese Gorge Jonas, che nel suo libro «La vendetta», raccoglie le confessioni dell'agente israeliano che coordinò le operazioni, nome in codice Avner. Il libro che ha contribuito ad ispirare Spielberg per il suo film «Monaco» e ad alimentare le polemiche della destra contro il regista.
Sì, a Monaco è nato il terrorismo, ma anche l'imbroglio sul senso di questa parola , che ha tutto confuso. Gli agenti del Mossad e i loro mandanti ministeriali, terroristi non sono stati chiamati mai. Sul terreno, assassinata, hanno lasciato anche la speranza della pace. Come ha detto Ghandi: «Occhio per occhio e tutto il mondo resterà cieco».
Tutto questo 34 anni fa. Era l'inizio degli anni Settanta, i vietcong stavano per vincere e per fortuna c'era anche tanta voglia di lotta per la vita. Con gran dispiacere del presidente del comitato Olimpico, l'americano Brundage, che aveva strenuamente voluto la immediata ripresa delle gare, la politica rientrò subito di prepotenza fra i campi da gioco.
Matthews e Collett
Il giovedì, appena calata la cortina sulla tragedia israeliano-palestinese, era stata la volta dei nordirlandesi dell'Ira, che, travestiti da ciclisti, avevano cercato di partire nella corsa con gli altri concorrenti, per poi consegnare, una volta bloccati, un comunicato contro il colonialismo britannico. Poi, più clamorosa, la faccenda di Matthews e Collett, i due atleti afroamericani, arrivati rispettivamente primo e secondo nella corsa dei 400 metri. Montati sulla pedana per la premiazione, si erano tolti le scarpe e avevano chiacchierato ostentamente fra loro, e, mentre gli altri, sull'attenti, cantavano l'inno americano, avevano giocato, ironici e annoiati, con le loro sacre medaglie. Fischiati dalla folla che voleva che Olimpia non fosse più disturbata, si erano voltati e avevano salutato col pugno chiuso in segno di sfida. Risalutati, allo stesso modo, da un gruppo di spettatori neri.
Il comitato olimpico, indignato, li escluse dalle gare successive. A votare contro la decisione, solo gli Stati uniti: nonostante l'offesa alla patria, aveva prevalso l'ambizione dei dirigenti della squadra: non sciupare medaglie nella durissima competizione che per anni ha animato le Olimpiadi, quella fra le due grandi potenze atomiche. (Nel `72 vinse comunque l'Urss con 55 ori contro i 33 degli Stati Uniti).
il manifesto 26.01.
2006
2006
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