Il manifesto annuncia la visita ufficiale del generale Pétain nella regione del Limousin |
Pétainisme. Una provincia della geografia totalitaria.
Il volto che i cinegiornali ritraevano incombente su ogni focolare di Francia, come fosse di un Lare in uniforme, non potrebbe essere più consono al motto di Philippe Pétain, Patrie, Famille, Travail: ed è noto (fin dal celebre proclama del giugno del ’40, l’appello successivo alla Disfatta) come la sua voce animasse per radio quella veneranda canizie dove coabitavano tanto i segni di un Gallo purissimo (chioma e baffi folti, sguardo di un celeste liquido) quanto la divisa del soldato di Verdun, l’erede di Foch il vittorioso: le sue esternazioni non erano infatti indirizzate ai francesi ma, precisava lo speaker, “alla Francia” in persona, com’era stata consuetudine dei reali discendenti di Capeto. E Filippo l’Ultimo lo battezzò Céline nelle pagine più fosche di Nord (1960), il romanzo ambientato a Sigmaringen, dove il Maresciallo, già virtualmente esautorato nel novembre del ’42 con la occupazione nazista della cosiddetta zona libera, era stato trasferito manu militari da Vichy insieme con Laval, i gerarchi e altri manutengoli, ormai ridotto a un Quisling patetico e decorativo. In quel Valhalla di aguzzini, morituri e spettri vaganti era infine naufragato il sogno di una restaurazione che Pétain aveva vagheggiato come una Rivoluzione Nazionale. Non riuscì a realizzarla e nemmeno a dedurne un profilo coerente, perché molti soggiacquero al culto del Maresciallo (persino i Gide e i Mauriac cedettero per qualche tempo all’immagine salvifica del Pater Patriae) ma pochi, e in genere di dubbio rilievo, furono i pétainisti capaci di tradurne il pensiero in un progetto o in un senso comune. Del resto Pétain non poteva dirsi un intellettuale, meno che mai uno scrittore alla maniera di Charles De Gaulle (che invece lo fu, e di prim’ordine). L’ideologia del Maresciallo è tutta nello slogan che invita a cancellare la Terza Repubblica e, con essa, l’intera civiltà dei Lumi: restaurazione del principio di autorità, ad ogni livello e a partire dalla scuola pubblica considerata una fucina di laicismo e dell’antipatriottismo responsabile della Disfatta; ritorno alla terra e alla frugalità degli uomini semplici (alla cui apologia non fu estraneo, per esempio, un scrittore molto ambiguo quale Jean Giono); rigetto della cultura che non sia mera delega o cinghia di trasmissione del principio di autorità e dunque negazione del pensiero critico, ritenuto distruttivo, e di ogni dimensione problematica. A più di trent’anni di distanza dalla prima uscita, la più compiuta analisi della ideologia pétainista rimane quella di Maurizio Serra che la ripropone, debitamente integrata, in La Francia di Vichy. Una cultura dell’autorità (prefazione di Francesco Perfetti, Le Lettere, “Biblioteca di ‘Nuova Storia Contemporanea’”, pp. X+294,). Si tratta di un lavoro che nulla ha perduto della sua precisione filologica specie nello spoglio della pubblicistica, la quale, a parte i discorsi del Maresciallo, si è diramata in una cespugliosa letteratura di servizio, in opuscoli pedagogici e apologetici ovvero si è riverberata in una pletora di testimonianze autobiografiche, di referti ufficiosi, di scambi epistolari tra personaggi spesso di seconda o terza fila il cui lascito Serra ha il merito di censire e valutare equamente. Scritto sull’abbrivio di un’opera pionieristica (la Histoire de Vichy 1940-1944 di Robert Aron, 1954), in dialogo e in disaccordo con un’altra opera fondamentale (Vichy, 1972, di Robert O. Paxton – Il Saggiatore 1999 – nel cui impianto Serra individua lo schema che riduce Pétain a un puro eversore della Francia repubblicana), il volume inaugura la bibliografia di uno studioso che, nello stesso ambito, al suo attivo fra l’altro L’esteta armato. Il poeta-condottiero nell’Europa degli anni Trenta (Il Mulino 1990, meritevole di una ristampa). Qui, adiacenti e complementari, risaltano da un lato la genealogia del pensiero pétainista e, dall’altro, il calcolo della distanza (in certi casi un’aperta avversione) dai collaborazionisti domiciliati a Parigi. La cernita degli antesignani muove da Renan, passa ovviamente per Charles Maurras (pure se il simbolo della “Action Française”, il bardo del nazionalismo, ebbe rapporti ambivalenti con il Maresciallo) e giunge a Maurice Barrès, un autore oggi rimosso cui vanno ascritte tuttavia le nozioni di souche (“ceppo”) e di terroir (“madre terra”) presto metabolizzate dal ruralismo pétainista come varianti, se non proprio come alternative, alle metafisiche naziste del sangue e del suolo.
Spesso formalmente deferenti all’icona ma di fatto reticenti o insofferenti e ostili sono gli scrittori collabo, fascisti per vocazione e hitleriani per elezione, l’orizzonte dei quali non è un’ennesima Vandea o la Francia borghese delle grandi famiglie ma la scelta di una mistica totalitaria, un estremismo che attinga la perfetta estetizzazione della politica: certo Pétain non può essere l’uomo di Drieu La Rochelle (al cui romanzo autobiografico, Gilles, Serra dedica una limpida analisi in appendice alla monografia) né dell’esteta Robert Brasillach e nemmeno di chi agogna, come Alphonse de Chateaubriant, il sigillo della svastica sul Nuovo Ordine Europeo. Tant’è che i più incalliti, o gli inclassificabili, irridono il Maresciallo: Céline, in un libello infatti proibito tanto a Vichy quanto nella zona occupata (Les beaux draps, tradotto da Daniele Gorret col titolo La bella rogna, Guanda 1982), gli dà più volte del vecchio rimbambito mentre Lucien Rebatet (in Les décombres, che fu il massimo successo editoriale dell’Occupazione) parla di “regime epatico”, con allusione ironica sia alla senilità del Maresciallo sia alla città termale. (La differenza fra gli adepti di un regime reazionario, figuranti di una controrivoluzione mancata, e i sostenitori di un progetto totalitario risulta evidente in un film successivo alla monografia di Serra, lo stupendo L’oeil de Vichy, 1993, un documentario firmato da Claude Chabrol che si avvale della consulenza storica di Robert O. Paxton).
Rimane il fatto che Vichy non produce l’immaginario da tregenda di Parigi occupata e pertanto continua a scontare un relativo deficit sia nella ricerca sia, soprattutto, nel senso comune dei lettori: per restare ad esempi dissimili ma entrambi recenti, Vichy è lontana o defilata sia dal libro di Dan Franck, Mezzanotte a Parigi (Garzanti 2011, non una ricerca storica ma una cronologia affabulata dell’Occupazione) sia da un libro che Maurizio Serra fa in tempo a citare nella nuova introduzione a La Francia di Vichy, vale a dire Ramon (Grasset 2008, non ancora disponibile, purtroppo, in italiano), la biografia che Dominique Fernandez dedica a suo padre, uno dei massimi critici letterari entre deux guerres, lo studioso di Proust e Balzac, il compagno di via di Jean Prévost come di Drieu La Rochelle, un bolscevico passato in poco d’ora ai fasciocomunisti di Jacques Doriot e morto cinquantenne, pochi giorni prima della liberazione di Parigi, fra i labari delle Waffen SS e le camicie brune della Lega dei Volontari Francesi contro il Bolscevismo. Con il suo paternalismo atavico e gli arnesi di un dispotismo retroverso, la Rivoluzione Nazionale di Filippo l’Ultimo continua perciò ad apparire una provincia della geografia totalitaria. Ma va da sé, e non va mai dimenticato, che l’appello alla Patria, al Lavoro, alla Famiglia, resta per proverbio l’ultimo rifugio di tutte le canaglie.
"alias-Talpa" domenica 5/2/2012
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