Nel 1992 uscì per i tipi di Einaudi La corsa del tempo (Liriche e poemi), un’ampia antologia dall’opera di Anna Achmatova per la traduzione e la cura di Michele Colucci. Su “la talpa libri” del “manifesto” ne uscì una recensione di Daniela Di Sora, che era anche un profilo della Achmatova e una rievocazione della genesi del suo poema Requiem, scritto durante gli anni più tremendi dello stalinismo. (S.L.L.)
Qualche anno fa Josif Brodskij, dell'Achmatova discepolo e amico, ha affermato che per chi volesse formarsi un gusto letterario e imparare a capire la letteeratura, sarebbe sufficiente leggere pochi smilzi volumetti di poesia, perché la poesia è concepita per arrivare al cuore di ogni argomento, e può insegnare alla prosa il valore di ogni singola parola. Se l'obiettivo fosse capire gli «anni terribili» della Russia, capire non lo stalinismo, ma la gente, percepire lo strazio delle donne ammassate in attesa davanti alle prigioni, il terrore di «quando sorrideva / solo il morto, lieto della propria pace», in questo caso credo che di libro ne basti uno solo, ed è Requiem di Anna Achmatova. Già la storia della composizione di questo poema ci trascina in quegli anni in cui non era possibile conservare i propri versi nelle case, dove si susseguivano le perquisizioni, e il solo mezzo era affidarle alla carta il tempo sufficiente per impararle a memoria, come racconta anche Lidija Cukovskaja, nel suo libro di ricordi Incontri con Anna Achmatova: «Scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio... Bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere - un rito splendido e doloroso».
Da Nikolaj Gumilev, suo primo marito, fucilato nel 1921 per attività controrivoluzionaria, Anna Andreevna Gorenko (questo il vero nome) aveva avuto un figlio, Lev, arrestato il 13 marzo del 1938. Requiem è il racconto dei diciassette mesi trascorsi in fila dinnanzi al carcere Le Croci di Leningrado insieme ai parenti degli altri detenuti, quasi tutte donne, in attesa della sentenza: «Ci si levava come a una messa mattutina / si andava per un'inselvatichita capitale, / là ci si incontrava più inanimate dei morti [...]». Racconto in prima persona che si dilata, si trasforma in grido colletivo, si fa bocca con cui quel popolo grida, fino a mutarsi quasi in delirio... A lungo inedito in Unione Sovietica, dove è uscito sulla rivista Oktjabr' solo nel 1987, fu pubblicato in russo a Monaco nel 1963, e tradotto in italiano da Carlo Riccio nel 1966 per Einaudi, che ora lo ripropone nella traduzione di Michele Colucci, insieme ad altre liriche che ci consentono di seguire l'intero viaggio esistenziale e poetico di questa figura tragica e fiera, superbamente incapace di sottrarsi al proprio destino: “io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era»…
Ha forse ragione Viktor Sklovkij quando paragona, come ricorda Colucci, «la lirica dell'Achmatova giovanile a un raggio di sole penetrato in una stanza buia. Una lama di sole che illumina vividamente uno spazio esiguo». Questa lama di luce viene però diretta con decisione a illuminare risolutamente un oggetto, lo chiama in vita per fargli alludere a qualcosa d'altro, uno sfondo, una situazione, un sentimento. E ha sicuramente ragione anche il poeta Michail Kuzmin, quando nell'introduzione alla prima raccolta, Sera, del 1912, parla di «comprensione dell'a¬cuto e inesplicabile significato delle cose». E' certo l'amore il sentimento che domina le prime raccolte di versi, ma sullo sfondo della Pietroburgo degli anni dieci, fra penombre lilla, scialli neri e pallori mortali, non è l'esangue fantasma della donna simbolista che si aggira, ma una presenza vera, già nutrita di sofferenza. E la gamma tematica si amplia ben presto, provvederà lo scoppio della guerra, e poi la rivoluzione ad offrire ben altri spunti di dolore. Anche il lungo intervallo di silenzio, più di dieci anni, dal 1924 al 1936 è eloquente. Verrà poi, nel '46, a guerra terminata, la condanna delle riviste “Zvezda” e “Leningrad”, che avevano pubblicato sue poesie e racconti di Zoscenko, la celeberrima definizione di Zdanov dell'Achmatova come «metà suora e metà prostituta», l'accusa alla sua poesia di essere «imbevuta di pessimismo e dannosa alla gioventù», l'espulsione dall'Unione degli scrittori sovietici. Solo dopo il XX Congresso del Pcus riprenderà la sua attività letteraria, e le sarà persino concesso di recarsi all'estero. Si spegne il 5 marzo del 1966: «Se ti avessero mostrato, burlona, / beniamina di tutti gli amici, / gaia peccatrice di Càrsokoe Selò, / quel che sarebbe stata la tua vita[...]».
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