Ancora un brano dalla giornalistica lectura Dantis organizzata nel 2004 dal “Corriere della Sera” (La nostra Commedia), una gran parte dell’articolo di Vincenzo Consolo sul canto XIII dell’Inferno. Lettura intensa, appassionata, colta; scrittura pastosa e ricca. Un omaggio, oltre che a Dante, a un maestro e compagno scomparso da poco, al magnifico scrittore del Sorriso dell’Ignoto Marinaio. Un invito a rileggere, oltre che Dante, cui si dovrebbe periodicamente tornare, per scoprire sensi, bellezze, suggestioni che prima c’erano sfuggiti, anche Consolo. Per esempio il suo magnifico Retablo, che nacque come omaggio al “manifesto”, il quotidiano comunista che resistendo c’incoraggia alla resistenza (S.L.L.)
Vincenzo Consolo |
È Nesso che conduce i due poeti dal primo al secondo girone del settimo cerchio infernale, è il centauro anzi, nel guadare il Flegetonte, che porta in groppa Dante, « ché non è spirto che per l’aere vada » . È Nesso la guida perché dei tre, con Chirone e Folo, staccatisi dalla schiera dei centauri, è il più intriso di sangue ( ha ucciso ed è stato ucciso) e il più adeguato quindi a far attraversare ai due viaggiatori il fiume di sangue bollente e a introdurli ( e introdurre noi) a uno stadio ancor più basso, più disumano, cupo e doloroso: al girone dei violenti contro se stessi, dei suicidi e degli scialacquatori, dei folli dissipatori d’ogni bene. Lascia Dante e Virgilio, il centauro, torna indietro e ha quasi raggiunto la sponda opposta — immaginiamo di sentire il rumore cadenzato dei suoi zoccoli dentro l’acquitrino — quando i due viaggiatori s’inoltrano in un bosco.
Una boscaglia fitta, intricata, buia, incubatica, priva di sentieri, passi, d'alberi nodosi e contorti, con fronde e foglie scure, con spine velenose. E, sopra gli alberi, hanno nido e regno le orrifiche Arpie, gli uccelli rapaci con volto di donna; a terra, hanno dimora fameliche cagne. Le Arpie riempiono il bosco di stridi sinistri. E, sotto il coro stridente, è nel bosco un murmure lamentoso d’invisibili dolenti. Invisibili perché non sono dannati che la « bufera infernal » con sé trascina, né nel fango giacenti, tormentati da grandine, falde di fuoco o saette, né costretti in avelli infuocati o immersi nel sangue bollente: sono spiriti che non hanno lampante forma umana, ma sono chiusi, incarcerati dentro i tronchi e le fronde degli alberi.
Qui, osserva De Sanctis, « La natura ( è) spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell’animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo, pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato... » . « Cred’io ch’ei credette ch’io credessi » , ci dice Dante con quel famoso bell’artificio stilistico, che quei lamentosi si nascondessero dietro gli alberi. E Virgilio allora gli suggerisce di spezzare uno stecco da uno di quegli alberi per fugare così il suo dubbio, il suo smarrimento. E questo fa Dante, tende la mano e strappa un ramoscello. Ed è — orrore — l’albero che grida «Perché mi schiante?», grida, versa sangue nero da quella lacerazione e riprende a lamentare, a dire, continuando su quei suoni aspri di «schiante», a deplorare, a rinfacciare a Dante la crudeltà.
Il poeta, atterrito, mortificato, lascia cadere a terra la fronda. Virgilio allora giustifica Dante, spiega allo spirito offeso che è stato egli stesso a suggerire quel gesto per far constatare al discepolo che la vicenda di Polidoro nella sua Eneide non è frutto di fantasia, ma realtà vera. E qui Dante tocca l’essenza della letteratura, della realtà e della verità «altra» dell’invenzione letteraria, l’essenza dell’allegoria, della metafora; l’essenza infine e il senso della Divina Commedia che va scrivendo. E ancora, l’esplicita citazione dell’Eneide virgiliana, come le infinite altre citazioni nel poema di classici latini o greci, i rimandi alla mitologia, alla teologia, alla filosofia, significano l’essenza memoriale, e teorica e ideologica della letteratura, significano la sua essenza palinsestica, vale a dire di scrittura su altre scritture, più o meno cancellate, più o meno leggibili.
È Virgilio ancora a risolvere quella situazione di penosa sospensione, di paralisi, invitando lo spirito prigione, ascoso, a rivelarsi, a dire chi fu, perché poi Dante, tornando nel mondo, possa, per riparare al mal fatto, ravvivare tra i viventi la sua storia, la sua fama.
« Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo » risponde il dannato.
Ci troviamo così di fronte a una delle più alte, drammatiche e poetiche figure [...] ci troviamo di fronte a Pier della Vigna o delle Vigne, che è la lezione che preferiamo.
Chi era? «Un personaggio divenuto mitico assai prima che l’Inferno dantesco lo divulgasse poeticamente» dice Gianfranco Contini. Capuano, di umili origini, studente a Bologna, diviene consigliere del grande Federico II, lo Stupor Mundi, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia, che Dante, pur ammirandolo, ha collocato tra gli eretici del VI cerchio.
Ascende dunque, Pier delle Vigne, alle più alte cariche presso la corte dell’imperatore: notaio, giudice della Magna Curia, logoteta del regno di Sicilia; poeta e maestro di retorica, è anche, con il suo stile ornato, barocco, l’estensore delle lettere imperiali, il ghost writer si direbbe oggi. Caduto in disgrazia per una congiura di palazzo (è accusato di tradimento e di peculato), è rinchiuso nel carcere di San Miniato o di Pisa, dove si uccide.
Un personaggio salito così in alto, così prossimo al grande potere, colui che teneva «ambo le chiavi /del cor di Federigo» , per colpa della meretrice dagli occhi puttaneschi, a causa vale a dire dell’invidia degli altri cortigiani, precipita nell’abisso, sprofonda nel buio della disperazione, nel gorgo dell’angoscia. E lì, nella cella, in attesa d’esser lapidato, non ha che il suo corpo per urlare la sua innocenza, rispondere a tanta offesa. E offende sé, uccidendosi («ingiusto fece me contra me giusto» dice), e inoculare in chi resta, com’è nei suicidi, il senso di colpa, il rimorso. E giura il dannato, perché Dante lo eterni nella memoria degli uomini, giura che egli mai tradì la fiducia del suo signore, mai venne meno ai doveri del suo ruolo. E ancora, a una domanda di Virgilio, Pier delle Vigne spiega che nei dannati in quel girone, nei suicidi, dopo il Giudizio Universale, giammai potrà ricongiungersi il corpo con lo spirito. Dice: « Saranno i nostri corpi appesi, /ciascuno al prun dell’ombra sua molesta» . La visione di quelle spoglie, di quei carcami appesi agli alberi ci fa pensare — eco sublime della poesia — alla Ballata degli impiccati di François Villon, alle incisioni di Jacques Callot o di Francisco Goya.
È facile dire che si può leggere questo nostro mondo d’oggi, questo nostro presente anche nel tredicesimo canto dell’ Inferno.
È certo che lo sviluppo, soprattutto nell’Occidente, ha avvelenato il pianeta, l’ha «infernato», l’ha ridotto a un bosco d’alberi foschi dentro cui noi suicidi ci siamo imprigionati. È facile vedere qua e là tradimenti, peculati e baratteria dei politici al potere; facile, nei corpi ignudi degli scialacquatori sbranati da cagne fameliche, vedere altri corpi dilaniati da cagne là nelle celle dell’atroce carcere di Abu Ghraib.
Nessun commento:
Posta un commento