L'imperatore Teodosio |
È comune in tempi come i nostri, nei quali il dibattito sul ruolo delle religioni nella cultura e nella società è tornato a farsi intenso, leggere giudizi opposti (e ugualmente acritici) sulla storia del cristianesimo: per alcuni si sarebbe diffuso grazie a un messaggio d'amore e compassione (contrariamente all'Islam, aggiungono in genere costoro), per altri sarebbe «colpevole» delle crociate, dell'Inquisizione e di altri innumerevoli misfatti. Si tratta di polemiche strumentali, che non hanno a cuore la conoscenza storica, ma che della storia si servono appiattendola in una serie di quadretti a tinte rosee o a tinte fosche. Tuttavia è pur vero che sulle modalità dell'affermazione della religione cristiana nell'impero romano, nonostante una ricca letteratura a riguardo, rivolta però soprattutto a un pubblico di specialisti, non sempre le idee sono chiare.
I sospetti dei «tradizionalisti»
Cristiani perseguitati e persecutori di Franco Cardini (Salerno Editrice, pp. 188) ci proietta già dal titolo al cuore del problema; fino all'età di Costantino i cristiani vivono nell'impero romano una condizione difficile, dovuta alla scarsa compatibilità tra una fede monoteistica alla quale si erano votati e un mondo in cui era per loro opportuno tenersi lontani da quelle occasioni in cui cerimonie civili e culti che noi qualifichiamo oggi come «pagani» in qualche modo si associavano: a partire dal cerimoniale di omaggio alla figura dell'imperatore.
Nonostante questa difficoltà di fondo, è assai probabile che molti fra loro cercassero una forma di convivenza con le strutture di potere e di culto circostanti, comportandosi da buoni cittadini non più e non meno degli altri. Il sospetto che circondava i cristiani, come sembrano mostrare alcune testimonianze dell'epoca, era comunemente riservato dai «tradizionalisti» romani a coloro che aderivano a culti provenienti dall'Oriente: le voci che riferivano dei riti abominevoli dei cristiani, consistenti soprattutto in casi d'infanticidio e di pedofagia nonché d'incesti e di promiscuità sessuale, delitti perpetrati nel corso di riti notturni e segreti, erano già circolate in forme più o meno analoghe nei confronti di culti stranieri e misterici come quelli dedicati a Dioniso o a Cibele.
Proposte e imposizioni
La controversa scelta di Costantino a favore dei cristiani, scelta che Cardini dibatte attentamente nel testo, rappresenta un tornante epocale; una minoranza religiosa diviene a quel punto la colonna portante dell'impero, e a partire dalle norme emanate da Teodosio alla fine del IV secolo il cristianesimo si trasforma in religione di stato. Già questo dato, senza bisogno di aggiunte, pone una forte ipoteca sulla tesi del cristianesimo che si diffonde solo grazie al suo messaggio di pace.
Cardini non potrebbe essere più esplicito: «Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j'accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque più o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti "scandalosi" e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana - e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori - si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d'amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell'intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o perfino inibitrice della libertà di coscienza, dell'esibizione della forza militare e della vera e propria violenza».
E ancora: «Quel che intendiamo qui ricordare è che, all'origine delle pagine più nere e sconcertanti non già del cristianesimo - che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici -, bensì della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensì lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro principii, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo».
Cardini non potrebbe essere più esplicito: «Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j'accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque più o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti "scandalosi" e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana - e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori - si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d'amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell'intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o perfino inibitrice della libertà di coscienza, dell'esibizione della forza militare e della vera e propria violenza».
E ancora: «Quel che intendiamo qui ricordare è che, all'origine delle pagine più nere e sconcertanti non già del cristianesimo - che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici -, bensì della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensì lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro principii, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo».
Insomma, se il caso del linciaggio di Ipazia, del quale negli ultimi mesi è capitato di sentir parlare più volte, non è stato un episodio eccezionale nella storia dell'affermazione del cristianesimo, il discorso non può limitarsi agli episodi di violenza esplicita; ma deve portarci invece a riflettere sulla complessità del rapporto persecutori-perseguitati.
Sacrifici in Val di Non
Nel 397, all'indomani dei decreti con i quali Teodosio I aveva eletto il cristianesimo a unico culto di stato, i missionari Sisinnio, Martirio e Alessandro vengono inviati dal vescovo di Trento, Vigilio, nelle aree montane circostanti la città, e precisamente nella Val di Non. Qui cominciano a predicare a montanari che, con tutta evidenza, erano legati alle pratiche religiose tradizionali.
Un giorno, alla fine di maggio, i tre assistono a un sacrificio di animali cui, stando al testo agiografico che racconta le vite dei tre, era stato costretto anche un neoconvertito: si trattava della festa degli Ambarvalia, un inseme di riti atti a favorire la fertilità delle messi; il culmine della cerimonia si raggiungeva con il sacrificio di un toro, una scrofa e una pecora che venivano prima condotti in processione tre volte attorno ai campi. Trattandosi di rituali strettamente legati alla vita stessa delle valli, peraltro piuttosto remote, i costumi locali dovevano aver risentito assai poco dei recenti provvedimenti legislativi sfavorevoli al culto pagano. I missionari cercano di impedire lo svolgimento della cerimonia sacra e i contadini, stanchi delle continue interferenze dei tre, li martirizzano: probabilmente sacrificando anch'essi alle divinità che avrebbero voluto abolire. Anche san Vigilio, secondo una tradizione tutt'altro che certa, avrebbe poi seguito i suoi missionari, finendo lapidato pochi anni più tardi in Val Rendena per aver distrutto un simulacro di Saturno. Martiri o persecutori? Entrambe le cose, evidentemente.
Un giorno, alla fine di maggio, i tre assistono a un sacrificio di animali cui, stando al testo agiografico che racconta le vite dei tre, era stato costretto anche un neoconvertito: si trattava della festa degli Ambarvalia, un inseme di riti atti a favorire la fertilità delle messi; il culmine della cerimonia si raggiungeva con il sacrificio di un toro, una scrofa e una pecora che venivano prima condotti in processione tre volte attorno ai campi. Trattandosi di rituali strettamente legati alla vita stessa delle valli, peraltro piuttosto remote, i costumi locali dovevano aver risentito assai poco dei recenti provvedimenti legislativi sfavorevoli al culto pagano. I missionari cercano di impedire lo svolgimento della cerimonia sacra e i contadini, stanchi delle continue interferenze dei tre, li martirizzano: probabilmente sacrificando anch'essi alle divinità che avrebbero voluto abolire. Anche san Vigilio, secondo una tradizione tutt'altro che certa, avrebbe poi seguito i suoi missionari, finendo lapidato pochi anni più tardi in Val Rendena per aver distrutto un simulacro di Saturno. Martiri o persecutori? Entrambe le cose, evidentemente.
Si tratta di vicende che, seppur nella frammentarietà del racconto, sono significative della difficoltà che incontravano i missionari, forti del fatto che il quadro legislativo vigente aveva ormai abolito i culti precristiani, dichiarando lecito solo quello cristiano niceno-tessalonicese (cioè l'elaborazione teologica emersa come vincitrice dai concili del IV secolo), ma costretti a confrontarsi con comunità nelle quali tale decisione non poteva che assumere i contorni dell'arbitrio. La religiosità delle regioni marginali (e non soltanto di quelle) si radicava sui luoghi fisici (monti, foreste, sorgenti, fiumi, confini e così via) e sui ritmi tradizionali (la nascita, la morte, le nozze, il raccolto) con i quali si viveva a stretto contatto e da cui sovente si dipendeva: da questo derivava sostanzialmente il conservativismo, favorito da strutture mentali vecchie di secoli e forse di millenni, e la pratica tendenza a un sincretismo che accoglieva il nuovo senza per questo dover rinunciare al vecchio. Era arduo per i propagatori e i ministri della nuova fede lo spiegare che il Dio dei cristiani pretendeva un culto assoluto, per il quale si doveva rinunciare alle vecchie divinità e a quelle tradizioni che avevano accompagnato le comunità sino ad allora.
Storie di inquisizione
Cristiani perseguitati e persecutori accenna soltanto alle vicende successive alla prima affermazione del cristianesimo: dal massacro di qualche migliaio di sassoni, decisi a non convertirsi, voluto da Carlomagno e dai suoi vescovi, alle vessazioni degli eretici; dalle stragi dei nativi americani del Nuovo Mondo e alla tratta degli schiavi stivati in catene «a bordo di vascelli i capitani dei quali conoscevano a memoria interi libri della Bibbia». In particolar modo il capitolo delle persecuzioni antiereticali continua a esser terreno di indagine assai fertile; e nonostante le pubblicazioni non manchino, è un campo non privo di sorprese. In Francia è il catarismo a suscitare l'interesse maggiore: ormai abbondano le edizioni critiche degli atti processuali, ricchi di interrogatori a testimoni e sospetti condotti dall'inquisizione domenicana all'indomani della crociata anticatara. Non tutto questo materiale è di facile accessibilità in Italia, e dunque risulta opportuna l'antologia Il processo agli ultimi catari. Inquisitori, confessioni, storie (Jaca Book 2011), a cura di Elena Bonoldi Gattermayer, in cui sono raccolti alcuni fra questi testi. Siamo ai primi del Trecento, quando ormai la «Chiesa» catara è dissolta, ma sacche di resistenza persistono: in esse le credenze del catarismo si mescolano con un pensiero eterodosso (sui sacramenti, l'interpretazione dei testi sacri, la vita oltre la morte) difficile da collocare con precisione, nel quale sovente fanno capolino idee che sembrano provenire più da rielaborazioni personali (o anche collettive: ma senza una precisa gerarchia di insegnamento) del cristianesimo, del manicheismo cataro, di tradizioni che con una qualche approssimazione potremmo definire «popolari».
Un mondo di fate e cavalieri
Perché in fondo la realtà del cristianesimo vissuto si porterà dietro la difficoltà iniziale, il «peccato originale» di una fede imposta attraverso un atto di legge, che difficilmente poteva venire a capo di comportamenti e credenze radicati magari da epoche ancestrali. Un tratto che si percepisce chiaramente quando si volge lo sguardo ad ambiti liminari, qual è per esempio quello del rapporto tra i vivi e i morti: una tema cui è dedicato un recente lavoro di Laurent Guyénot, La mort féerique. Anthropologie médiévale du merveilleux. XIIe-XVe siècle, (Gallimard 2011), che si colloca in modo originale sulla scia di analoghe ricerche di Laurance Harf-Lancner, di Jacques Le Goff o di Jean-Claude Schmitt. Guyénot analizza la cosiddetta «materia di Bretagna», una produzione letteraria che prende piede in Francia alla fine del XII secolo e che rapidamente si propaga in tutta l'Europa. Le avventure cavalleresche che vi si raccontano sono impregnate di sovrannaturale: fate che vivono in mondi «altri», cavalieri a loro volta «fatati», mettono in scena un immaginario della morte del tutto inedito.
Frutto del riemergere di mitologie pagane o prodotti della società contemporanea? Guyénot sembra propendere per la seconda ipotesi, ma certo è che la Chiesa stessa dovrà fare i conti con queste nuove istanze; e il cristianesimo che emergerà da tale confronto sarà qualcosa di nuovo rispetto al passato: come testimonia la nascita dell'idea di Purgatorio, assente nella cultura cristiana primitiva. Da questo cristianesimo «impuro» e perciò straordinariamente interessante non si può prescindere quando si guarda alla sua evoluzione; evoluzione la cui comprensione, al pari di quella di tutti i grandi fenomeni culturali, deve passare attraverso l'accettazione della complessità, rifuggendo la banalità degli schematismi.
"il manifesto" 4.6.2011
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