Il “sonetto lussurioso” di Pietro Aretino che riporto qui sotto è un gioco: gioco di trasgressione, gioco di parole e gioco di concetti, con cui il “divino” pare anticipare un certo Seicento raziocinante, un certo poetare barocco pieno d’arguzia e di acutezza.
Pure io ci vedo di più, qualcosa che eccede l’intenzione del facitore di versi lubrichi, una anticipazione della “teoria del piacere” di Leopardi, della terribile contraddizione esistenziale per cui le donne e gli uomini tendono a un piacere che non abbia limiti nella durata e nell’intensità, mentre la natura non offre che piaceri “finiti”.
E l’accontentarsi non significa essere contenti. (S.L.L.)
“Perch'io prov'or un sì solenne cazzo
che mi rovescia l'orlo della potta,
io vorrei esser tutta quanta potta,
ma vorrei che tu fossi tutto cazzo.
Perché, s'io fossi potta e tu cazzo,
isfameria per un tratto la potta,
e tu avresti anche dalla potta
tutto il piacer che può aver un cazzo.
Ma non potendo esser tutta potta,
né tu diventar tutto di cazzo,
piglia il buon voler da questa potta”.
“E voi pigliate del mio poco cazzo
la buona volontà: in giù la potta
ficcate, e io in su ficcherò il cazzo;
e di poi su il mio cazzo
lasciatevi andar tutta con la potta:
e sarò cazzo, e voi sarete potta”.
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