22.6.12

Considerazioni sul sesso e il riso (di Italo Calvino)

In letteratura la sessualità è un linguaggio in cui quello che non si dice è più importante di quello che si dice. Questo principio non vale soltanto per gli scrittori che — per ragioni buone o cattive — affrontano i temi sessuali più o meno indirettamente, ma anche per quelli che investono in essi tutta la forza del loro discorso. Perfino agli scrittori la cui immaginazione erotica vuole oltrepassare ogni barriera, accade d'usare un linguaggio che, partendo dalla massima chiarezza, passa a una misteriosa oscurità proprio nei momenti di maggiore tensione, come se il suo punto d'arrivo non potesse essere altro che l'indicibile. Questo movimento a spirale per aggirare e sfiorare l'indicibile accomuna gli scrittori dell'erotismo più estremo, da Sade a Bataille, agli scrittori dalle cui pagine il sesso sembra rigorosamente bandito, come Henry James.
La spessa corazza simbolica sotto cui l'eros si nasconde non è altro che un sistema di schermi coscienti o incoscienti che separano il desiderio dalla sua rappresentazione. Da questo punto di vista ogni letteratura è erotica così come è erotico ogni sogno; nello scrittore esplicitamente erotico potremo riconoscere allora colui che attraverso i simboli del sesso cerca di far parlare qualcosa d'altro, e questo altro, oltrepassate una serie di definizioni che tendono a configurarsi in termini filosofici e religiosi, può essere ridefinito in ultima istanza un altro eros, un eros ultimo, fondamentale, mitico, inattingibile.
La maggior parte degli scrittori si situa in zone intermedie tra questi due estremi. Per molti l'approccio di segni del sesso si è svolto tradizionalmente sotto il segno del gioco, del comico, o almeno dell'ironico. Oggi il rigore intellettuale tende a condannare come superficiale e conformista (specie in Francia, per reazione al tradizionale spirito gaulois) il costume di far oggetto di scherzo o di strizzata d'occhio le cose sessuali. Polemica giustissima, soprattutto quando colpisce appunto il costume (maschile) d'abbassare il sesso, d'avvilirlo; ma essa rischia di far dimenticare il legame profondo, a livello antropologico, tra sesso e riso. Perché il riso è pure difesa della trepidazione umana di fronte alla rivelazione del sesso, è esorcismo mimetico — attraverso lo sconvolgimento minore dell'ilarità — per padroneggiare lo sconvolgimento assoluto che il rapporto sessuale può scatenare. L'atteggiamento ilare che accompagna il parlare del sesso può essere dunque inteso non solo come anticipo impaziente della felicità sperata, ma pure come riconoscimento del limite che si sta per varcare, dell'entrata in uno spazio diverso, paradossale, "sacro". Oppure, semplicemente, come modestia della parola di fronte a ciò che è troppo al di là della parola, di contro alla rozza pretesa che un linguaggio sublime o serioso potrebbe avere di darne "l'equivalente".

Ciò che occorre a questo punto stabilire è se in questo quadro può trovare posto l'intento smitizzante d'una rappresentazione diretta, oggettiva, spassionata, dei rapporti sessuali come fatti della vita in mezzo agli altri fatti della vita. Se questo atteggiamento fosse possibile esso occuperebbe non solo un luogo centrale, in opposizione tanto alle censure interne della repressione e dell'ipocrisia quanto alle speculazioni sacrali o demoniche sull'eros, ma sarebbe senz'altro la vincitrice, sgombrerebbe il campo da tutte le altre. L'esperienza letteraria degli ultimi cinquant'anni ci persuade però che questa posizione resta una pretesa intellettuale e illuministica. Il linguaggio della sessualità ha senso infatti soltanto se è posto al culmine d'una scala di valori semantici: è quando la partitura ha bisogno delle note più acute o delle più gravi, è dove la tela domanda i colori più accesi, che il segno del sesso entra in gioco. Nell'universo del linguaggio, questa è la funzione del segno del sesso: esso non può uscire dalla sua posizione privilegiata, infrarossa o ultravioletta, ed è la connotazione positiva o negativa che accompagna i segni del sesso in ogni singola produzione letteraria a diventare determinante d'ogni sistema d'attribuzione di valori interno al testo.
Possiamo dire che l'asse dei valori nell'immaginazione letteraria oscilla tra apologetica e vituperio del rapporto sessuale: a un estremo l'esaltazione trionfalistica e all'altro estremo la discesa agli inferi della "miseria della carne". Il secondo atteggiamento è largamente dominante nella letteratura d'oggi: la rappresentazione dei rapporti sessuali più tipica — penso soprattutto ai romanzi americani degli ultimi anni — è su un registro di anti-climax, in cui gli elementi della ripugnanza e della desolazione e quelli grottesco-caricaturali sono così forti da richiamare alla memoria la tradizione sessuofobica della predicazione ecclesiastica e le visioni erotico-mostruose delle tentazioni dei Santi. Ma è soltanto nell'opposizione con l’atteggiamento complementare che può essere situato oggi questo predominio tematico: studiando come il versante dell'apologetica del sesso abbia raggiunto un grado di mistificazione retorica tale da esser reso difficilmente praticabile se non a livello di mass-media.
Qui il discorso interno al testo (a ogni possibile testo) non basta più ed è il momento giusto per situare il testo nel quadro sociale da cui nasce. Viviamo in un'epoca di tendenziale desessualizzazione; la lotta per l'esistenza nelle metropoli è tale da avvantaggiare la sessualità; la mitologia sessuale a livello di mass-media ha una funzione di compensazione, di recupero di qualcosa che si sente già perduto o fortemente in pericolo.
E’ in questo quadro che si possono giudicare le attribuzioni di valore interne ai testi letterari. E allora colui che rappresenta il sesso in modi grotteschi o infernali può essere visto come qualcuno che ci avverte di questa situazione limite, o ci mette in guardia dall'illusione di recuperare facilmente una pienezza perduta; mentre l'apologeta del sesso può essere uno che mente, che perpetua un'illusione, che occulta con artifici verbali (noi italiani pensiamo subito a D'Annunzio) l'invivibilità del mondo asessuato in cui stiamo affondando; oppure può essere uno che si rende conto fino in fondo della perdita che ci minaccia e si fa predicatore d'un riscatto sessuale (che magari assume aspetti regressivi, di mitizzazione intellettualistica del primitivo, come in D. H. Lawrence), oppure cerca di stabilire un rapporto più calorosamente umano con la realtà dando all'incontro sessuale un posto centrale e stabilendo una scala di valori in base alla comunicativa vitale d'ogni esperienza e d'ogni presenza umana (per Henry Miller, che sembra unire in sé la linea grottesca e quella apologetica, la letteratura è un metodo per restituire eros all'esistenza).
Oggi la situazione è più grave e i rimedi devono essere più estremi. Le arti plastiche già si sono poste il problema di stabilire una comunicazione erotica con i materiali e gli oggetti della nostra più squallida vita quotidiana. La letteratura può seguire la stessa via ritentando una comunicazione di segni sessuali sul piano linguistico più basso (quello della fine del mondo di Beckett o quello della regressione dell'uomo di massa di Sanguineti) o immaginando rapporti sessuali non antropomorfi (come ho tentato io, raccontando amori di molluschi o di organismi unicellulari).
Ho citato adesso esperienze letterarie che si svolgono sotto il segno del riso. Come volevo dimostrare, solo il riso — irrisione sistematica, falsetto autoderisorio, smorfia convulsa — garantisce che il discorso è all’altezza della terribilità del vivere e segna una mutazione rivoluzionaria.

Da “Il Caffè”, Anno XVII n.2, Luglio (Settembre) 1970

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