9.6.12

Nei "cafè" parigini della Rivoluzione. L'aquila e il berretto frigio (G.Scaraffia)

In un vecchio ritaglio trovo una pagina di Giuseppe Scaraffia zeppa di curiosità sui caffè parigini al tempo della Rivoluzione. Ne sono protagonisti uomini politici come Robespierre e Danton, giornalisti come Marat, letterati come Restif de la Bretonne.
L’impressione trasmessa è che - a Parigi - la tempesta rivoluzionaria non avesse attenuato la tradizionale, settecentesca joie de vivre, ma l’avesse addirittura esaltato. (S.L.L.)  
Robespierre
Rousseau s' è mostrato più volte al Café de la Régence. La sua presenza ha attirato una folla prodigiosa, e il popolaccio s'è assembrato sulla piazza per vederlo passare... Hanno fatto cessare queste scene esortandolo a non farsi vedere più in quel caffè. Così registra la “Correspondance Littéraire” del luglio 1770.
Nella grande sala scintillante di specchi, narra Le Sage, i clienti, seduti davanti ai tavolini di marmo, giocavano a scacchi con grande serietà. Dietro di loro, immobili e attenti, gli spettatori seguivano ogni gesto. Regnava un tale silenzio, che si avvertiva solo il lieve stridore dei pezzi sulla scacchiera. Chi si fermava a guardare, osserva lo scrittore, si sentiva assolutamente solo, nonostante la ressa. Parigi è il posto del mondo, e il Café de la Régence il posto di Parigi in cui si gioca meglio a questo gioco, aveva scritto Diderot nel Nipote di Rameau. La Fayette amava sostare in quel locale. La sua immagine, secondo Meister, aveva a prima vista qualcosa di imponente; ma se la si esaminava con un po' di penetrazione fisiognomica, si scoprivano subito gli indizi di una mente sciocca e di un carattere testardo.
Anche Robespierre, appassionato degli scacchi, era un habitué del locale. Il candore della cipria metteva in risalto i suoi occhi verdi, spesso protetti dagli occhiali a causa di una forte miopia. L' ampiezza della fronte preludeva alla ferma piega delle labbra. Robespierre aveva gesti lenti, il busto eretto per compensare la mediocre statura; ostentava un'eleganza Ancien Régime, prediligendo le tinte tenui e i tessuti a righe. Contrariamente ai sanculotti portava, sotto i calzoni al ginocchio, calze di seta ben tese. A Chateaubriand sembrò un deputato d'aspetto molto comune, grigio, vestito con il decoro di un notaio di paese attento alla propria persona; ma lo scrittore non si rese conto di averlo notato proprio per quella calma accuratezza. Anche la sua gelida eloquenza, volutamente tediosa, riusciva, dopo un' iniziale indifferenza degli ascoltatori, a sedurli e a calmare la burrasca dei clubs. Le persone che calzavano scarpe stavano per uscire dai salotti, e già le punte degli zoccoli urtavano le loro porte, concludeva Chateaubriand; ma sarebbe stata proprio una persona con le scarpe a spalancare alle masse i battenti della nazione. Estremamente riservato, Robespierre, ricorda Madame Roland, parlava poco, limitandosi a sogghignare, intervenendo con brevi osservazioni sarcastiche ed evitando di esprimersi esplicitamente. Ricordati, Robespierre, che il potere è dei flemmatici, gli diceva Saint-Just. Danton soleva prendere in giro quel moscardino dagli orecchini ben visibili sotto i capelli castani. Un contemporaneo, Fleury, ammirò l'ampio gilet bianco sotto la marsina nocciola e la morbida sfumatura grigia dei calzoni. L'alta cravatta bianca serviva, osservò Nodier, a celare l'eccessiva ampiezza del mento. Il sorriso fiducioso del ritratto giovanile fattogli da Greuze si era venato di crudeltà, accentuata dall' ironica indifferenza dello sguardo. Il suo volto, notò ancora Nodier, conservava una perfetta imperturbabilità, mentre le labbra molli e carnose pronunciavano freddamente i discorsi più veementi. Quando Robespierre si presentava al Café Zoppi, il cameriere si affrettava a portargli, insieme alla tazzina di caffè, una piramide d' arance. Il Café Procope aveva cambiato nome e stile. Anche se i servitori avevano deposto le parrucche e i candidi grembiuli inamidati, vi si poteva sempre gustare un' ottima bavaroise, dolce infusione di tè e sciroppo. L' aveva ordinata Voltaire quando, travestito da prete, al duplice riparo di un' immensa parrucca e d' un vasto tricorno, aveva deciso di sentire cosa si diceva della sua Semiramide. Grazie alle idee politiche del nuovo proprietario, il locale era diventato il ritrovo dei Cordiglieri. Una cospicua biblioteca era a disposizione della clientela e i giornali venivano riscaldati sul tubo della stufa.
Nel 1792 il berretto frigio, ricordo di quello portato dagli schiavi nel mondo antico, fece la sua comparsa al Café Zoppi. Danton stava facendo la sua abituale partita a carte con il sanguinario Legendre, quando la sala fu invasa da un gruppo di uomini armati di picche e sciabole, con dei berretti rossi in testa. “Che ne pensi, cittadino Danton, gridò il capo, di questo berretto frigio che portava Paride?”. Dopo averlo scrutato un momento Danton si rimise a giocare, brontolando: “Se a Paride questo copricapo non fosse stato meglio che a te, non credo che la bella Elena lo avrebbe seguito a Troia.
Eppure il berretto frigio, sormontato dalla coccarda tricolore, era destinato a un rapido successo e sostituì ben presto gli stemmi sulle carrozze dei ricchi patrioti. Isolato in un angolo, berretto frigio, carmagnola e zoccoli, Marat scriveva, preparando i proclami del suo giornale, L'Ami du peuple. Aveva respinto le offerte di aiuto di Desmoulins e di Fréron dicendo: “L'aquila vola sempre sola; è il tacchino che va in gruppo”. Medusa rivoluzionaria, ostentava la propria inquietante bruttezza come una minaccia, incarnazione della miseria che voleva rappresentare. Persino il robespierriano Levasseur ne rimase colpito. Lo osservai, ricorda, con l' inquieta curiosità con cui si contemplano certi orribili insetti. I vestiti in disordine, il volto livido, gli occhi stralunati avevano qualcosa di repellente e di spaventoso che turbava il cuore. Eppure tutti, compreso l'Incorruttibile, temevano il lampo giallastro dello sguardo di Marat, le geremiadi lanciate dalle sue labbra gonfie. Solo il 18 settembre 1793, due mesi dopo la sua morte, la Convenzione decretò che in avvenire i galeotti non avrebbero più dovuto portare il berretto frigio, divenuto ormai l' emblema del civismo e della libertà.
Del resto neanche Danton era bello. “La natura, diceva, mi ha conferito l' aspra fisionomia della Libertà!”. Il Ciclope, l' Atlante, lo Stentore, il Titano, l' Ercole della rivoluzione, come l'avevano soprannominato, aveva incontrato la sua futura moglie nel locale del padre, il Café Charpentier, vicino al Pont-Neuf. Benché non fosse trasandato, i suoi abiti fastosi, spesso scarlatti, sembravano contenere a fatica la mole e l' irruenza della sua persona. Secondo una nemica di Danton, Madame Roland, le fattezze del tribuno ne svelavano la voracità, mentre il riso della dissolutezza tentava invano d'addolcire l'insolenza dello sguardo, infossato sotto le mobili sopracciglia. Lo tradivano anche la foga dei discorsi, la violenza dei gesti, la brutalità delle imprecazioni. Michelet non fu colpito tanto dai segni lasciati dal vaiolo, né dalle rughe dell' ampio volto, quanto dalla piccolezza degli occhi. Quello che spaventa di più, è che non ha occhi... E tuttavia questo mostro è sublime. Quella faccia quasi senza occhi sembra un vulcano senza cratere. Pure, la gente accorreva al Café Zoppi per ascoltare il tuono della sua tempestosa eloquenza. Lo accompagnava spesso un amico, Fabre d'Eglantine, attore e commediografo fallito, seduttore inveterato. Vestito, a quanto racconta Madame Roland, da bacchettone ipocrita, era sempre pronto a calunniare e a rubare. Robespierre gli riconosceva l' arte di instillare negli altri le proprie idee a loro insaputa, e una grande capacità di ingannare.
Anche Hébert frequentava quelle sale. In uno degli stupendi disegni di Gabriel lo vediamo di profilo, i capelli spettinati sotto il cilindro, i tratti grossolani, un naso imponente sulle grosse labbra dischiuse, lo sguardo smarrito e stupefatto di chi è travolto dalla storia. Ultrarivoluzionario, il redattore del virulento “Père Duchesne” teorizzava apertamente l'importanza politica della volgarità. Soleva dire:“Bisogna bestemmiare con quelli che bestemmiano, se si vuole essere letti dai poveracci”. Alle cinque di ogni pomeriggio gli avventori davano vita a un club deliberante a tutti gli effetti, giungendo a fare collette per offrire armi all'esercito rivoluzionario. Pieno di fervore patriottico, Zoppi battezzò una della stanze Sala degli uomini illustri.
Quando morì Benjamin Franklin, si verificò un curioso episodio di idolatria. Gli amici della rivoluzione e dell' umanità, riuniti al Café Procope, tenuto da Zoppi velarono a lutto i lampadari. Nere stoffe coprirono sedie e divani, una scritta Franklin è morto venne affissa sulla porta d' una sala. Dentro, il busto del defunto, inghirlandato di foglie di quercia, recava scritto Vir deus. Si pensava inoltre a una statua di Muzio Scevola per fare da pendant al bassorilievo di Mirabeau, sormontato da due geni in lacrime. La sera, i giornali reazionari sequestrati venivano dati alle fiamme davanti all' ingresso del caffè.
Restif de la Bretonne si era abituato a frequentare il caffè nel circolo ristretto e brillante di un giovane gourmet, Grimod de la Reynière. La cerimonia d'iniziazione consisteva, secondo Nerval, nel bere ventidue tazzine di caffè. Sotto tre immensi lampadari stracarichi di candele, Chénier, Mercier, Restif ed altri, accuratamente selezionati, sedevano intorno a un'immensa tavola rotonda. Cortei di servitori in costume antico, in omaggio al risorgente neoclassicismo, servivano in processione le portate, preceduti dall' anfitrione vestito di nero. Ad una di queste cene, fu servita a ciascuno degli invitati, ed erano ventotto, una pietanza diversa, nei piatti d'argento massiccio. I capelli di due graziose cameriere servivano, secondo le usanze degli antichi romani, a detergere le mani dei banchettanti; a metà della cena, tutti i servitori sedevano accanto agli invitati. Restif, riferì Humbdoldt a Goethe, era piccolo, robusto e piuttosto aggressivo. Aveva la fronte alta e convessa, un grande naso adunco e le sopracciglia nerissime. Teneva il viso, segnato dagli anni, nascosto sotto l' ampia ala del cappellaccio calato in avanti. Un mantello scuro, di tessuto grezzo, lo avvolgeva quasi interamente. Sembrava che volesse essere solo più un'ombra per scivolare meglio nelle strade notturne quando, lasciato il calore e le luci del Café Manouri, s' addentrava nel buio alla ricerca dell' inaudito, dell' atroce e dell' inconfessabile. Burbero e scostante, Restif era capace di discorrere per ore con gli altri avventori, illustrando con voce stentorea le sue utopie, oppure, seduto in un angolo, giocava silenziosamente a scacchi fino alle undici. A quell' ora s' alzava senza una parola, abbandonando spesso la partita a metà, e usciva nella notte. Talvolta accentuava il suo aspetto trascurato, lasciandosi crescere la barba. A chi gliene chiedeva la ragione, diceva: Cadrà solo quando avrò finito il mio prossimo romanzo. E se questo sarà di più volumi ? Sarà di quindici. Quindi vi raserete solo tra quindici anni? Non temete, scrivo mezzo volume al giorno. Talvolta il rifugio tranquillo del caffè era violato da misteriose presenze. Il 14 luglio 1790, il Gufo, come Restif amava soprannominarsi per le sue abitudini notturne, vide un ubriaco provocare i partigiani del moderato La Fayette, e poi cercare d' infilzare chi resisteva ai suoi insulti. Restif riconobbe in lui lo stupratore di una ragazza; ma nel frattempo l' energumeno si era dileguato. Si trattava, gli spiegò uno degli astanti, di un ultra aristocratico, protetto dagli amici che si erano infiltrati nelle sezioni giacobine. Talvolta erano invece degli autentici rivoluzionari a tempestare contro Lafayette, tra una limonata e l' altra, con un fuoco non attenuato dalla freschezza della bevanda; e allora, con la sua abituale ironia, Restif diceva a Fabre d' Eglantine: Il nostro Arrabbiato è furioso!. Talora la libertà di cui misteriosamente godeva il vecchio osservatore veniva insidiata dal sospetto. Una sera Collot d' Herbois gli disse: Io sono diventato giacobino: come mai voi no? Per tre infermità molto penose... E' un buon motivo. Io sto per dedicarmi interamente alla politica, e non perderò il mio tempo, né le mie fatiche. Per prima cosa voglio legarmi a Robespierre. E' un grand' uomo. Sì, non cambia mai. Io so parlare, gestire e muovermi con grazia... Ho una mozione che farà tremare i re, si vantava l' altro, ormai distratto. Talvolta erano le donne, le altere repubblicane, tribuni in gonnella, secondo la definizione di Michelet, a turbare la relativa quiete del caffè. Il 30 giugno 1793 Restif scorse un gruppo di patriote particolarmente giovani e attraenti, circondate da una folla d' ammiratori. In disparte, un gruppo di nobili commentava ad alta voce: Sono pagate!. Allora una delle rivoluzionarie ribatté: Ti sbagli! Nessuno mi paga. E cominciò a elencare i soprusi che aveva patito dai ministri e dai familiari del re. Intanto un' altra, con un' aria molto decisa, colpì con un pugno uno dei provocatori. I presenti consigliarono a quest' ultimo di ritirarsi, ma Restif vide che la ragazza si mise a cercarlo in mezzo alla folla. Allora si fece avanti e raccolse un' altra delle storie dolenti e pruriginose, ingenue e violente, che formano la trama ossessiva delle Notti di Parigi. Se all' inizio a riempirli fu l' estate piovigginosa dell' 89, in seguito i caffè, queste manifatture dello spirito, secondo i Goncourt, rappresentarono un territorio franco in cui le diverse posizioni politiche potevano incrociarsi e scontrarsi senza eccessivo pericolo. Una parte del loro fascino veniva anche dallo sfarzo dell' arredamento, mantenuto con il pretesto della pubblica utilità del locale: il mondo nuovo nasceva in mezzo all' inconfessata nostalgia di quello che stava distruggendo. Nei caffè i parigini sperimentarono un nuovo tipo di spazio, sospeso tra la confortevolezza dell' intèrieur e l' apertura della strada. Nei riflessi dorati degli specchi l' individuo si moltiplicava senza smarrire la propria identità, anzi esaltandola. Bevande eccitanti come il caffè, o rinfrescanti come la limonata, lo scuotevano dal torpore; secondo Montesquieu, tutti quelli che uscivano da un caffè credevano di essere quattro volte più intelligenti di quando vi erano entrati. Sotto una trasparente campana di silenzio, gli scacchisti, intenti al proprio gioco tra gli sguardi discreti degli spettatori, realizzavano l' utopia estrema del caffè: la solitudine in compagnia, la concentrazione all' interno della distrazione. La loro silenziosa esibizione era come una speranza di tregua nel turbinoso accavallarsi degli avvenimenti, e la nostalgia di un pensiero ordinato, che restava fuori dall' azione e dal caos delle emozioni. -

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