30.6.12

Edgar Snow - Ritratto di Mao Tse-tung (da "Stella rossa sulla Cina")

Edgar Snow, nato nel Missouri nel 1905 e morto nel 1972 in Svizzera, arrivò in Cina come inviato speciale. Dopo sette anni di permanenza, nel 1936 superò le linee nazionaliste e incontrò i capi rivoluzionari della Repubblica Sovietica di Cina. Nasceva da quella esperienza Red Star over China (Stella rossa sulla Cina), uno straordinario reportage sul campo pubblicato per la prima volta nel 1938. Dall'edizione Einaudi, del 1965, con la traduzione di Renata Pisu, riprendo il vivido ritratto di Mao Tse Tung, indicato come “l’uomo forte dei soviet”. Vi sono contenuti, a sorpresa, due passaggi relativi all’Italia. Il primo è uno scherzoso siparietto sulle abitudini alimentari e politiche degli italiani, il secondo un richiamo a Vilfredo Pareto che con la sua teoria delle élites aveva conosciuto in Cina uno straordinario successo, connesso alla tradizione mandarinale e all’inguaribile vocazione al mandarinato di molti intellettuali. (S.L.L.)
Edgar Snow con Mao Tse-tung
Mao mi è sembrato un uomo molto interessante e complesso. Ha la semplicità e la naturalezza dei contadini cinesi, uno spiccato senso umoristico e si compiace della risata paesana. Ride soprattutto di se stesso e delle manchevolezze dei soviet: una risata giovanile che però non scuote minimamente la sua fede profonda negli obiettivi finali. È un uomo che parla semplicemente e vive semplicemente, tanto che alcuni sarebbero indotti a giudicarlo una persona piuttosto rozza e volgare. Invece Mao abbina curiose ingenuità a una intelligenza acuta e a una sofisticata mondanità.
Io penso che la prima impressione che mi fece, cioè di naturale sagacia, sia probabilmente quella giusta. Mao è tuttavia un uomo colto, profondo conoscitore dei classici cinesi, lettore onnivoro, studioso appassionato di storia e di filosofia, ottimo oratore, scrittore di stile, ed è dotato di una memoria sorprendente e di una straordinaria facoltà di concentrazione. Trascurato nelle abitudini e nell'apparenza è però meticolosamente preciso sul lavoro: è un uomo di inesauribile energia e uno stratega politico e militare di genio. È indicativo che i giapponesi lo considerino il più abile stratega cinese vivente.
I rossi stavano costruendo dei nuovi edifici a Pao An, ma quando arrivai io gli alloggi erano ancora estremamente primitivi. Mao viveva con sua moglie in una yao-fang di due vani, dalle pareti nude, povere, tappezzate con qualche carta geografica. Mao aveva conosciuto di peggio e, come figlio di un «ricco» contadino dello Hunan, aveva conosciuto anche di meglio. Una zanzariera era l'unico lusso che la coppia si era concessa. Per tutto il resto Mao viveva all'incirca come un qualsiasi soldato dell'Armata rossa. Benché da dieci anni fosse alla testa dei rossi e avesse confiscato centinaia di volte gli averi di proprietari terrieri, funzionari ed esattori delle tasse, possedeva solo le coperte da letto, qualche effetto personale e due uniformi di cotone. Oltre a essere presidente del governo era anche uno dei comandanti in capo dell'Armata rossa, ma sul risvolto della giacca portava solo due striscette rosse che sono il distintivo di qualsiasi soldato rosso.
Con Mao sono stato molte volte a comizi di contadini, a raduni di cadetti rossi e anche al Teatro rosso. A teatro sedeva in mezzo alla folla senza farsi notare e si divertiva follemente. Ricordo che una volta al Teatro antigiapponese, durante un intervallo, il pubblico richiese a gran voce un duetto tra Mao Tse-tung e Lin Piao, il ventottenne presidente dell'Accademia rossa e un tempo uno dei più brillanti cadetti dello Stato maggiore di Chiang Kai-shek. Lin Piao diventò tutto rosso come uno scolaretto e declinò «l'ordine di esibirsi» con uno spiritoso discorso nel quale invece invitava a cantare le donne comuniste.
Il vitto di Mao era quello di tutti gli altri, ma lui, essendo un hunanese, aveva il classico ai-la («amore del pepe») dei meridionali. Arrivava persino a farsi cuocere il pane con dei granelli di pepe dentro. A parte questa passione, non sembrava affatto accorgersi di ciò che mangiava. Una sera a cena espose una sua teoria secondo la quale i popoli che amano mangiare pepato sono rivoluzionari. Citò prima di tutto la sua provincia, lo Hunan, terra che ha generato famosi rivoluzionari. Poi, per dimostrare la sua asserzione, passò alla Spagna, al Messico, alla Russia e alla Francia, ma, ridendo forte, dovette riconoscersi battuto quando qualcuno ricordò come la ben nota passione degli italiani per il pepe rosso e l'aglio contraddicesse la sua teoria. A questo proposito mi viene in mente che una delle più divertenti canzoni dei «banditi» è uno stornello che si chiama Il peperoncino rosso. Il peperoncino, dice la canzone, disgustato della sua insipida esistenza prima di essere mangiato, prende in giro i cavoli, gli spinaci e i fagioli per la loro carriera di invertebrati. Nella strofa finale il peperoncino si mette alla testa di una insurrezione di tutti i vegetali. Il peperoncino rosso era una delle canzoni preferite dal presidente Mao.
Mao è alieno da qualsiasi sintomo di megalomania ma ha un profondo senso della sua dignità personale e c'è qualcosa in lui che fa capire come sia capace, quando è necessario, di prendere drastiche decisioni. Io non l'ho mai visto infuriato ma ho sentito dire che la sua collera è gelida e intensa e che, alternando magistralmente ironia e invettiva, riesce ad essere letale e a schiacciare completamente l'avversario.
Trovai che era sorprendentemente ben informato sugli eventi politici mondiali del momento. Persino durante la Lunga marcia i rossi ricevevano i notiziari radio e nel Nordovest pubblicavano i loro giornali. Mao conosce molto bene la storia mondiale ed ha una concezione estremamente realistica delle condizioni politiche e sociali dell'Europa. Lo interessava molto il partito laburista inglese e, chiedendomi un'infinità di schiarimenti sulla sua politica, esaurì in breve le mie scarse informazioni. Mi sembra che gli riuscisse difficile capire bene perché, in un paese dove gli operai avevano diritto di votare, non ci fosse ancora un governo di operai. Ho paura che le mie spiegazioni non lo abbiano soddisfatto. Espresse il suo profondo disprezzo per Ramsay MacDonald che defini han-chieh, cioè arcitraditore del popolo inglese.
Vale la pena di riferire la sua opinione sul presidente Roosevelt. Era convinto che fosse un vero antifascista e pensava che la Cina avrebbe potuto collaborare con un uomo del genere. Mi fece innumerevoli domande sul «New Deal» e sulla politica estera di Roosevelt dimostrando di averne capito chiaramente le finalità. Considerava Mussolini e Hitler due saltimbanchi, ma intellettualmente stimava più Mussolini, lo riteneva più abile, un machiavellico con una buona conoscenza della storia, mentre invece Hitler, secondo lui, era solo una marionetta priva di volontà in mano ai capitalisti reazionari.
Mao aveva letto molti libri sull'India e si era formato delle opinioni ben precise su quel paese. La sua opinione fondamentale era che l'India non avrebbe mai raggiunto una completa indipendenza senza riforma agraria. Mi domandò di Gandhi, di Javàharlàh Nehru, di Suhasini Chattopa-dhyaya e di altri dirigenti indiani che io conoscevo personalmente. Sapeva qualcosa sul problema dei negri negli Stati Uniti e faceva un confronto non lusinghiero fra il trattamento riservato ai negri e agli indiani d'America e la giusta politica adottata in Unione Sovietica nei confronti delle minoranze nazionali. Tuttavia mi ascoltò con interesse quando gli feci notare alcune fondamentali differenze storiche e psicologiche tra la situazione dei negri d'America e quella delle minoranze etniche della Russia.
Mao è un appassionato studioso di filosofia. Una sera, mentre stava concedendomi un'intervista sulla storia del movimento comunista in Cina, venne a fargli visita un amico che gli portava alcuni nuovi libri di filosofia. Mao mi chiese il favore di sospendere per qualche giorno i nostri colloqui e, dimentico di tutto il resto, divorò quei libri in tre o quattro nottate di intense letture. Le sue conoscenze non si limitavano solo ai filosofi marxisti, ma aveva letto anche qualcosa degli antichi greci, di Spinoza, di Kant, di Goethe, di Hegel, di Rousseau e di altri.
Mi sono spesso domandato come Mao fosse arrivato ad accettare il principio della forza, della violenza e della «necessità di uccidere». In gioventù aveva avuto tendenze fortemente liberali e umanistiche e il passaggio dall'idealismo al realismo doveva essere stato compiuto da lui sul piano filosofico. Benché figlio di contadini, non aveva - al contrario di molti altri rossi - sofferto personalmente della oppressione dei proprietari terrieri: senza dubbio il marxismo era al centro del suo pensiero ma io sono incline a credere che forse l'odio di classe rappresentasse per lui, in sostanza, una conseguenza del complesso della sua filosofia piuttosto che un impulso elementare all'azione.
Niente in Mao faceva pensare al sentimento religioso: i suoi giudizi dovevano esser stati formulati unicamente in base alla ragione o alla necessità. Io credo che proprio per questo, Mao abbia avuto, in complesso, una influenza moderatrice nel movimento comunista quando fossero in discussione problemi di vita o di morte. Mi sembra che abbia tentato di trasformare la sua filosofia - una dialettica della «lunga scadenza» - in un criterio per ogni azione di vasta portata: in quest'ordine di pensiero, la vita umana diviene un valore relativo. Un atteggiamento siffatto è assai poco comune tra i dirigenti cinesi che hanno sempre posto il tatticismo occasionale al di sopra delle esigenze etiche.
Mao lavora tredici o quattordici ore al giorno, sino a notte inoltrata e spesso non va a letto prima delle due o le tre. Ha una costituzione di ferro e ne attribuisce il merito al duro lavoro che da bambino svolgeva nel podere del padre e all'austero periodo degli anni di scuola quando aveva formato, assieme ad alcuni amici, una specie di associazione spartana. Digiunavano, si arrampicavano su per le colline boscose della Cina meridionale, nuotavano nell'acqua gelida, si esponevano a torso nudo alla neve e alla pioggia, e tutto questo allo scopo di temprarsi. Avevano forse intuito che in Cina, negli anni a venire, gli uomini avrebbero dovuto essere in grado di affrontare fatiche e privazioni.
Mao da ragazzo trascorse un'intera estate a girovagare per tutto lo Hunan. Si guadagnava da vivere lavorando ora in un podere ora in un altro e, qualche volta, chiese anche l'elemosina. Per parecchi giorni di fila si nutrì solo di fagioli secchi e acqua, ottimo sistema per «temprare» lo stomaco. Le amicizie che allacciò negli anni giovanili di vagabondaggio per le campagne gli furono molto utili quando, una decina di anni dopo, cominciò a organizzare migliaia di contadini dello Hunan nelle famose Leghe contadine che, dopo la rottura tra Kuomintang e comunisti nel 1927, costituirono la prima base dei soviet.
Mao mi ha impressionato per la sua profondità di sentimenti. I suoi occhi una o due volte si velarono di lacrime quando mi parlò dei compagni morti o di alcuni episodi della sua gioventù, quando, durante le rivolte per il riso e le carestie dello Hunan, vide decapitare i contadini affamati della sua provincia, colpevoli di aver chiesto cibo allo Ya-men. Un soldato mi raccontò che al fronte aveva visto Mao offrire il suo mantello a un ferito. Mi raccontarono anche che aveva rifiutato di portare le scarpe quando i soldati rossi ne erano privi.
Tuttavia dubito molto che Mao possa guadagnarsi il rispetto delle élites intellettuali cinesi perché, pur essendo dotato di un cervello fuori del comune, ha le abitudini tipiche di un contadino. Temo che i discepoli cinesi di Pareto lo trovino un po' rozzo. Ricordo che una volta, mentre stavamo chiacchierando, Mao si slacciò distrattamente la cintura dei pantaloni e si mise a dar la caccia a certi suoi ospiti. Penso che anche Pareto avrebbe fatto su se stesso una piccola ispezione se avesse dovuto vivere in condizioni simili. Ma certo è che nemmeno Pareto si sarebbe tolto i pantaloni davanti al presidente dell'Accademia rossa, come fece Mao un giorno ci stavo intervistando Lin Piao. Faceva terribilmente caldo nella stanzetta dove ci trovavamo; Mao si sdraiò sul letto, si levò i pantaloni e per una ventina di minuti si dedicò attentamente allo studio di una carta militare appesa alla parete. Di tanto in tanto Lin Piao lo interrompeva chiedendogli precisazioni su date e nomi che egli ricordava perfettamente. La sua estrema disinvoltura si accoppiava a una completa indifferenza per l'aspetto esteriore; eppure Mao aveva sotto mano i mezzi per potersi agghindare come un generale da operetta o come un uomo politico degno di figurare nel Chi è? della Cina.
Mao ha percorso a piedi, fatta eccezione per poche settimane in cui era malato, i diecimila chilometri della Lunga marcia come un semplice soldato. Negli ultimi anni, se appena lo avesse voluto, avrebbe potuto ottenere alte cariche e solide ricompense «vendendosi» al Kuomintang, e questo vale anche per la maggior parte dei comandanti rossi. Se non si conosce la storia delle «pallottole d'argento», che in Cina sono servite a comprare molti altri ribelli, non si può apprezzare pienamente la tenacia incorruttibile che per dieci anni ha legato questi comunisti ai loro principi.
Mao mi è sembrato sincero e onesto e quanto mi disse degno di fede: io stesso ho avuto modo di provare la veridicità di molte delle sue affermazioni. Mi ha sottoposto a una blanda propaganda politica (niente in paragone a quella impartitami dai non-banditi), ma non ha mai censurato né i miei scritti né le mie fotografie, e gliene sono grato. Mi ha favorito in ogni maniera perché potessi rendermi conto dei vari aspetti della vita dei soviet.

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