La sessualità può svelare la verità su un individuo?
Nella Volontà di sapere Foucault mostra come questa pretesa sia intrecciata a una forma di potere e di sapere sorta in età moderna. Per gli antichi il sesso era il luogo del piacere, non quello in cui si rivela qualche verità sulla persona, e di esso si occupava l’ars erotica, non la psicoanalisi o la medicina. E’ solo all’inizio del XIX secolo che i piaceri considerati “perversi” vengono medicalizzati e meticolosamente classificati: omosessualità, masochismo, sadismo, pedofilia ecc. I segreti erotici vengono resi accessibili mediante confessione, fatta non più al sacerdote ma allo psichiatra o allo psicoanalista. Così nasce la scientia sexualis che per Foucault è la spia del “sonno antropologico” in cui è caduto il pensiero occidentale tra 800 e 900.
La sessualità può svelare la verità oltre che sull’individuo anche sulla sua opera?
E’ raro che la critica letteraria avanzi una tale pretesa. Salvo in un caso: Pier Paolo Pasolini. Quando si tratta delle sue opere la scientia sexualis si scatena in un singolare sessuocentrismo inerpretativo, che finisce a volte per sbaragliare ogni altro sapere, filologico e filosofico.
Un esempio. Sul “Corriere della sera” del 1 marzo scorso Pietro Citati recensiva Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi con queste parole: “Ai tempi di Petrolio, Pasolini aveva quasi completamente perduto la squisita gioia erotica, che aveva dato tenerezza e morbidezza alle sue opere giovanili … Ora voleva essere posseduto, dominato, violentato … Solo così poteva contemplare il sacro”.
Citati, uno dei critici letterari più accreditati, dice di non conoscere Petrolio. Ma pur non conoscendo l’opera, aderisce con entusiasmo alla lettura che ne fa Trevi, tutta incentrata sulla sessualità di Pasolini e le sue ritualità sado-maso, mangiandosi ogni altra considerazione sull’opera. Trevi definisce Petrolio “cronaca di un’iniziazione” o anche “libro sacro”, proprio per il suo carattere iniziatico (un “movimento di metamorfosi-iniziazione-morte innescato senza possibilità di ripensamento o passi indietro”) e che ha molti punti di contatto con i riti dei misteri eleusini. Un libro perciò comprensibile solo da “iniziati”, cioè da chi abbia “familiarità con la violenza e soprattutto con la ritualità sadomaso”. E infatti secondo Trevi, un solo studioso ha finora potuto comprenderlo, Massimo Fusillo, non perché più bravo ma perché ha la “vocazione” del “Master” e “una delle sue pratiche preferite è lo spanking, ovvero le sculacciate”.
Petrolio quindi non parla del potere, di come attrae gli individui, degli effetti che ha sulle loro vite, della mutazione antropologica, dell’Italia delle stragi, del lucore cosmico, della sopravvivenza dell’arcaico nel moderno e di molto altro? No. Parla solo di cose interne al soggetto che scrive: “Tutto quello che Pasolini scriveva negli ultimi anni era il frutto di un scoperta che riguardava lui stesso, non il mondo esterno”. Una cosa simile forse non si direbbe nemmeno di un cane che abbaia nella notte. Giacché se il padrone si sveglia e va a vedere se c’è un ladro, vuol dire che interpreta quel baccano come riguardante il mondo esterno, non gli stati d’animo dell’animale. E quale sarebbe poi la “scoperta” che Pasolini avrebbe fatto su se stesso? Sempre la stessa: “il fascino della violenza, il desiderio di subire, di sottomettersi”.
Io non sono tra quelli che negano in via di principio che elementi della biografia dell’autore possano arricchire la comprensione di un’opera. Come si potrebbe del resto dimenticare l’omosessualità di Proust leggendo la Recherche? O, leggendo L’idiota, che Dostoevskij soffriva di epilessia? Ma per Pasolini si verifica qualcosa di più singolare. Le pratiche erotiche estreme a cui si dice che lo scrittore si dedicasse negli ultimi anni e notti della sua vita diventano l’unica chiave interpretativa dell’opera. Non quella che arricchisce l’interpretazione, ma quella che la esaurisce.
Non credo sia dia l’analogo per altri autori pur con biografie erotiche d’eccezione, sia etero che omosessuali. Nemmeno per de Sade. A romanzi come La filosofia nel boudoir o Le 120 giornate di Sodoma non si nega di poter significare qualcosa di più dell’eros dell’autore, di dire delle verità sulla natura umana, sulla società, di esprimere un pensiero, persino una critica dell’illuminismo. Alle ultime opere di Pasolini lo si nega spesso. Cominciò Sanguineti a dire che Petrolio e Salò non erano che documenti di una patologia. Fortini parlò di “illeggibile referto di un’autodistruzione”. Il curatore dell’opera omnia di Pasolini, Walter Siti, chiude quel monumento di migliaia e migliaia di pagine invitandoci a leggere, in quella proliferante scrittura, il sintomo di una tendenza “masochistica” a “mettere in piazza” i “panni sporchi” per “autodistruggersi”. Si noti: documenti, referti, cronache, sintomi, ma non opere. Per loro Pasolini non produce romanzi o film. Pasolini si confessa. E senza bisogno di medico o psicoanalista. La confessione è la sua opera. Di cosa è sintomo questa tendenza di tanti letterati italiani a ridurre l’opera di Pasolini a sintomo o confessione?
La sessualità può svelare la verità oltre che sull’ individuo e la sua opera, anche sul suo omicidio?
Delle tre questa è la pretesa più aberrante. Dalle abitudini sessuali della vittima si vuole dedurre la matrice sessuale dell’omicidio (su cui invece non c’è alcuna certezza). Come dire: uno dedito a quel tipo di esperienze erotiche non può che morire ammazzato. Tanto va la gatta al lardo… Qui non viene meno solo il rigore ermeneutico ma anche la logica e il senso civile della verità, che non si fermano a ciò che è verosimile, ma chiedono fatti e prove.
La follia sacra che distrusse Pasolini è il titolo che il “Corriere” ha dato all’articolo di Citati. In che senso lo distrusse? Nello spirito o nel corpo massacrato all’Idroscalo? Questa disinvoltura nel passare dal piano metaforico al fattuale, facendo collassare le categorie logiche in una torbida melassa sessuo-misteriosofica, si riscontra anche nelle dichiarazioni di Nico Naldini (cugino e biografo di Pasolini), nei cinque libri di Giuseppe Zigaina (scritti per dimostrare che Pasolini avrebbe “organizzato” la propria morte per entrare nel mito), nel pamphlet di Marco Belpoliti Pasolini in salsa piccante, che sostiene fideisticamente la matrice sessuale dell’omicidio, invitando a non parlarne più.
Trevi è più prudente, ma si muove nella stessa ambiguità: “Nessuna iniziazione può aggirare la necessità della morte. Perché possa accedere alla visione suprema (…) l’uomo dovrà sbarazzarsi di se stesso”. Di nuovo, si parla di morte rituale o reale? Di morte cercata o inferta a tradimento? Per lui non c’è ragione di disambiguare. Tanto Pasolini si era già trasformato in uno “spettro” ben “prima della notte dell’Idroscalo”.
Io non so chi abbia ucciso Pasolini né se l’omicidio sia di matrice “politica”. Non ho certezze. Perciò non mi riconosco nella categoria dei “complottisti” che Trevi (con la stessa superficialità di ragionamento che Pierluigi Battista usa da anni sul “Corriere”) appiccica su tutti coloro che chiedono di far luce su quel delitto ancora oscuro. Quello che so, come chiunque abbia seguito la vicenda, è che la versione ufficiale della morte per rissa sessuale vacilla sempre più sotto le contraddizioni emerse e rese pubbliche negli ultimi anni. Gli scrittori e i giornalisti che continuano a ricamare sulla “bella” morte, “sacrificale” o “iniziatica”, del poeta omosessuale, forse non si rendono conto di contribuire all’occultamento della verità?
Dal sito “il primo amore” http://www.ilprimoamore.com/blog/
Postato il 14 giugno 2012
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