L’articolo che segue è la recensione di un libro di Marcella Bacigalupi e Piero Fossati, Giorgio Caproni maestro, edito da Il nuovo melangolo, sul finire del 2010. Oltre che il libro riassume le tappe di un’esperienza didattica originale, una sorta di maieutica, da parte di un grande poeta che fu e volle restare “maestro” dei bambini, nonostante tutti i tentativi di ingabbiare la sua prodigiosa creatività. (S.L.L.)
Giorgio Caproni |
È una scrupolosa indagine investigativa quella che ha portato Marcella Bacigalupi e Piero Fossati a rintracciare i registri scolastici del maestro Caproni ripercorrendo la storia, e la geografia, di una attività durata quasi quarant'anni. Dalla prima esperienza didattica a Loco di Rovegno, nel 1935, fino all'ultimo giorno di scuola a Roma nel dicembre 1973 i due autori, riportando alla luce, da fascicoli polverosi, verbali scritti a mano in una grafia minuta e meticolosa, documentano come il maestro sia venuto costruendo quel non metodo che lo ha reso unico nella memoria dei suoi allievi. E dietro quel singolare genere di scrittura - cronaca di vita della scuola, piani d'insegnamento - si sente il respiro dell'artista capace di sottrarsi alla burocrazia delle direttive ministeriali. «Quanto al programma particolareggiato, mi è impossibile redigerlo nei minimi dettagli, poiché esso nascerà spontaneamente dalle occasioni e dal particolare temperamento degli alunni...».
Maestro socratico, si è detto di lui (ma difficilmente Caproni avrebbe accettato che si parlasse di sé in questi termini), dotato di un'arte maieutica che in uno scambio fantasioso di parole, ma ancor più di gesti, conduceva i suoi alunni alla scoperta del mondo in un succedersi di giochi, poesia, invenzioni e colpi di teatro. Stravaganze le definiva chi vedeva in quell'uomo schivo e riservato con gli adulti una minaccia a un metodo consolidato dalla forza dell'abitudine e della pedanteria. Il maestro procedeva sulla sua strada incurante delle note di demerito che si accumulavano per andare a ingrossare il suo fascicolo personale, note con cui la burocrazia istituzionale tentava di metterlo in riga, di ricondurlo alla norma.
A pochi è data la fortuna di incontrare un maestro in senso alto. Caproni lo è stato. Un maestro unico. Il paradosso apparente è che lui stesso non ne aveva alcuna convinzione, e nel non considerare il suo lavoro una missione stava forse la sua grandezza. A chi gli chiedeva di quella sua attività mai tradita, delle sue originalità didattiche, si definiva con modestia e in modo sbrigativo un maestro senza metodo.
Di Caproni è certo questo l'aspetto meno conosciuto ed egli stesso mostrava una estrema riluttanza a parlarne. Un silenzio che non sapeva o voleva spiegare e, pur dichiarando di aver fatto volentieri quel mestiere, diceva quasi a giustificarsi, «un'attività normale, non poeticizzabile». Ben altro impegno quello del poeta, ma anche il termine poeta lo infastidiva: «Preferisco definirmi scrittore in versi».
Nel 1935 ha inizio la sua attività di maestro supplente nella provincia ligure; nel 1938 concorre per un «posto di prima categoria» e si trasferisce a Roma dove insegna nella scuola «Giovanni Pascoli» di Trastevere, «felice di vivere fra i ragazzi». Da Trastevere passa poi alla scuola elementare «Francesco Crispi» a Monteverde Vecchio e, nonostante nel suo animo nutra sentimenti contrastanti nei confronti della città, è questa la sua sede definitiva, è qui che decide di rimanere.
Il maestro Caproni, a suo modo, era un pioniere. Ignorava la scansione oraria prevista per le diverse materie, parlava di tutto cogliendo qualsiasi pretesto, se scoppiava un temporale era una buona occasione per una lezione di meteorologia, e così anche per la chimica, la fisica, la storia e la geografia. Portava a scuola il violino su cui suonava in sordina musiche di Beethoven e Schubert. Montava sul pavimento un fantastico trenino con la stazione di Brignole. Inventò le attività di ricerca. Trascurava i programmi ministeriali, motivo di disperazione per i direttori didattici. I bambini non erano mai seduti al loro posto, non avevano un loro posto, lo circondavano, lo assediavano con le loro domande. E quale fosse il divertimento è facile immaginare. Era quello il suo non metodo: stupire, insinuare dubbi, giocare con le parole. «Le parole inventano un altro mondo, sono anzi un altro mondo distinto da quello dei fatti».
Antonio Debenedetti, un allievo del tutto particolare, consapevole della propria condizione privilegiata nel disporre a domicilio di un precettore come Caproni, ne riconosce l'assoluta originalità e i suoi ricordi hanno contribuito a farci intravedere il carattere di un uomo della cui vita poco si sapeva. C'è un argomento, a proposito dei maestri, su cui Debenedetti si sofferma: il duro giudizio di Caproni su Cuore di De Amicis: «Ho ritrovato una antica edizione di Cuore di Edmondo De Amicis, la copertina zeppa di insulti pazzeschi perché Giorgio mi inculcava un tale odio per De Amicis che poi, rimasto solo, io scrivevo: Cuore lesso per bambini idioti».
Per diverse generazioni, Cuore è stato il libro della prima educazione dei sentimenti, sulle cui pagine tanti bambini e adolescenti hanno fatto i loro incerti passi nel mondo della lettura: è facile immaginare che abbiano pianto. C'era anche Caproni tra quei bambini in lacrime. Che un eccesso di pateticità sia in genere disdicevole, che sia indice di abuso dei sentimenti del lettore, tanto più se bambini, non è questo il punto. È un'altra la ragione del difficile rapporto di Caproni con l'autore di Cuore. De Amicis credeva fermamente nell'idea risorgimentale di fare gli italiani, nell'amore per la patria, nord e sud uniti, nell'educazione ai valori laici, nella solidarietà interclassista, nella dignità del lavoro, qualsiasi lavoro. E per formare il nuovo cittadino credeva nella funzione educativa della scuola. Scuola ed esercito come luoghi privilegiati per la formazione dell'identità di italiani, in un'Italia nata da poco che stentava a conoscersi e a riconoscersi, a parlare una stessa lingua. In quegli anni la retorica del linguaggio e dei sentimenti non destava sconcerto di fronte a tanta impresa
Dopo solo cinquant'anni, Caproni ha di fronte a sé il baratro del Novecento, guerre, lutti, tradimenti. Segnato nel profondo dalla violenza feroce e dalla barbarie e di cui è stato testimone e attore, Caproni non ammette alcuna celebrazione, né patria, né scuola, né esercito. L'accanimento polemico verso la più nota figura di maestro nel libro Cuore esprime il rifiuto del poeta verso quella retorica, quell'idea di patria sottesa che aveva generato guerre mondiali e stermini. Caproni rifiuta «la pedagogia degli occhi rossi» e gli è del tutto estranea la commozione come strumento formativo.
Avvicinandosi la data del pensionamento, ottiene di occuparsi dei bambini orfani di Monteverde. Li tratta da pari, con loro ascolta musica e legge poesie. E ai Troppi innocenti che nascono, derelitti, nel mondo dedica i suoi versi. Nel 1973 un incarico «atipico» lo porta ad aggirarsi in diverse classi leggendo «brani di autentiche poesie prese in tutto l'arco della letteratura italiana». Quel nomadismo poetico è il cerimonioso congedo di Caproni dal maestro.
“il manifesto” 4.1.2011
Nessun commento:
Posta un commento