Susan Sontag |
Ho estratto da “L’Indice” del settembre 2003 il brano che segue, ultima parte della recensione di Andrea Carosso a un libro sulle fotografie di guerra di Susan Sontag ed efficace sintesi del pensiero della grande statunitense. (S.L.L.)
Robert Capa, Spagna 1936 |
Le foto di guerra e, più in generale, del dolore altrui, sono doppiamente pericolose: nel produrre un piacere voyeuristico, ci spingono a fasulle forme di empatia nei confronti di chi soffre, trasformandoci in "spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un'ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere".
Davanti al proliferare di immagini della sofferenza degli altri finiamo per essere anestetizzati al dolore, anzi confortati dal fatto che il dolore è "altrui", lontano e sostanzialmente estraneo. Nel costruire una sorta di memoria collettiva (idea che Sontag rifiuta), le fotografie servono a ricordare. Il problema sta nel fatto che ricordiamo solo le fotografie: "il ricordo attraverso le fotografie eclissa altre forme di comprensione e di ricordo": il rischio dell'immagine, insomma, è secondo Sontag quello di obliterare il pensiero, impedendoci in ultima analisi di capire. Il pericolo della "società dello spettacolo" sta principalmente in questo: che l’overload di immagini al quale siamo sottoposti produca una saturazione visiva a cui consegue un'attenzione incostante e "relativamente indifferente ai contenuti".
Davanti al dolore degli altri ci pare un utile contributo critico alla filosofia del vedere. E stato ricevuto freddamente dalla critica statunitense, che vi ha rilevato eccessiva autoreferenzialità e scarsa solidità argomentativa. Sontag, in effetti, manca (non è la prima volta) di quell'apparato sistematico che è proprio del critico accademico; il suo è principalmente un colloquiare con idee proprie espresse in precedenza e con una galleria di pensatori tanto eclettica quanto affascinante e suggestiva… L'assenza di appendici fotografiche, che potrebbe stupire qualche lettore, si rivela invece una scelta felice, in un libro che cerca di ricondurre la sovrastimolazione visiva a una più sana ecologia del pensare.
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