23.6.12

Susan Sontag e le foto di guerra (di Andrea Carosso)

Susan Sontag
Ho estratto da “L’Indice” del settembre 2003 il brano che segue, ultima parte della recensione di Andrea Carosso a un libro sulle fotografie di guerra di Susan Sontag ed efficace sintesi del pensiero della grande statunitense. (S.L.L.)
Robert Capa, Spagna 1936
Le foto di guerra e, più in generale, del dolore altrui, sono doppiamente pericolose: nel produrre un piacere voyeuristico, ci spingono a fasulle forme di empatia nei confronti di chi soffre, trasformandoci in "spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un'ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere".
Davanti al proliferare di immagini della sofferenza degli altri finiamo per essere anestetizzati al dolore, anzi confortati dal fatto che il dolore è "altrui", lontano e sostanzialmente estraneo. Nel costruire una sorta di memoria collettiva (idea che Sontag rifiuta), le fotografie servono a ricordare. Il problema sta nel fatto che ricordiamo solo le fotografie: "il ricordo attraverso le fotografie eclissa altre forme di comprensione e di ricordo": il rischio dell'immagine, insomma, è secondo Sontag quello di obliterare il pensiero, impedendoci in ultima analisi di capire. Il pericolo della "società dello spettacolo" sta principalmente in questo: che l’overload di immagini al quale siamo sottoposti produca una saturazione visiva a cui consegue un'attenzione incostante e "relativamente indifferente ai contenuti".
Davanti al dolore degli altri ci pare un utile contributo critico alla filosofia del vedere. E stato ricevuto freddamente dalla critica statunitense, che vi ha rilevato eccessiva autoreferenzialità e scarsa solidità argomentativa. Sontag, in effetti, manca (non è la prima volta) di quell'apparato sistematico che è proprio del critico accademico; il suo è principalmente un colloquiare con idee proprie espresse in precedenza e con una galleria di pensatori tanto eclettica quanto affascinante e suggestiva… L'assenza di appendici fotografiche, che potrebbe stupire qualche lettore, si rivela invece una scelta felice, in un libro che cerca di ricondurre la sovrastimolazione visiva a una più sana ecologia del pensare.

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