26.6.12

Il ciclismo e la costruzione dell’Italia moderna (da Max Keefe)

Del volume Pedalare! Storia del ciclismo italiano dello storico inglese John Foot ho già pubblicato la recensione di Giovanni Ruffa da “alias” (http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2011/09/me-brusa-el-cu-novecento-italiano-il.html). Qui riprendo un articolo dal bel sito di “Max Keefe” (a naso pseudonimo di Roberto Mengoni, un dilettante della scrittura che diletta assai alcuni lettori, tra cui il sottoscritto), precisamente dal numero 23 di questo giugno, che partendo dallo stesso libro illumina altri aspetti dell’intreccio tra ciclismo e storia d’Italia (http://www.robertomengoni.it/index.html). (S.L.L.)
Secondo John Foot, professore della UCL di Londra e storico dell’Italia moderna, due film incarnano la rapida trasformazione dell’Italia nel dopoguerra: Ladri di biciclette (1948) e Il sorpasso (1962). Dalla povertà al lusso. Dalle due ruote alla Lancia Aurelia. Due anni prima era morto Fausto Coppi. Una morte assurda, per una malattia curabile, che i medici non seppero riconoscere in tempo.
Con la scomparsa di Coppi si chiuse l’epoca d’oro del ciclismo, una collezione di nomi da accostare ad Omero: Ganna, Bottecchia, Girardengo, Guerra, Binda, Bartali, Magni. Un cinquantennio di vittorie su strumenti di tortura, biciclette pesanti da trascinare su strade fangose, brecciate o distrutte dalle bombe, da saper riparare al volo con i denti e il mastice. In questo mezzo secolo, iniziato con il primo Giro nel 1910, il ciclismo era l’autentico sport nazionale, interprete profondo dell’animo popolare. A migliaia si assiepavano sugli stradoni della corsa rosa, scalpitando nei sandali, accaldati ed impolverati, “in attesa di quel naso triste come una salita”, della Locomotiva umana, dell’“airone fragile dalle gambe lunghe”. Allora non c’era la televisione e la radio abbozzava i primi passi nell’etere. La narrazione della storia seguiva canali primordiali, di bocca in bocca, da un bar all’altro, nutrita dalle pagine della Gazzetta dello sport del giorno dopo.
L’Italia degli anni ’40 e ’50 era l’ambiente giusto per creare miti. Rurale, tradizionale, iliadica ma poco idillica, abitata da uno sterminato numero di poveracci che condividevano il letto con la fame e che presto sarebbero scappati tutti verso le fabbriche del nord, per trovare il benessere del frigorifero e dell’utilitaria. Quella era gente che non sapeva perché stava assieme nella stessa nazione, se non che, oltre montagne su cui si era combattuto duramente per due volte, c’era gente ancora più strana del villaggio accanto.

Un popolo alla ricerca di un modo per mettersi alle spalle la miseria ed andare oltre.
Secondo John Foot, non si può capire la storia italiana del dopoguerra senza prendere in considerazione il ciclismo e i suoi miti, da Toti a Pantani. Lo storico inglese analizza i miti, non tanto per scoprirne la verità o la falsità (i miti sono per definizione la ri-costruzione popolare di un avvenimento lontano) quanto per capire in che modo essi hanno descritto, e continuano oggi a descrivere, un certo periodo della storia della penisola. Non è importante sapere se Bartali abbia effettivamente impedito la guerra civile nel luglio 1948 (non lo fece) quanto comprendere il fatto che popoli divisi da mille fratture sociali abbiano avuto racconti comuni in cui si riconoscevano, da trasmettere e da tramandare nel tempo.
Non c’era differenza tra i campioni e gli spettatori che li aspettavano. I ciclisti non avevano tecnici, medici e massaggiatori al seguito. Riparavano le loro armature come i contadini aggiustavano da soli case ed attrezzi. Non c’erano magliette tecniche né cibi speciali per i campioni. Le gerarchie sportive rispecchiavano quelle sociali: il campione e i gregari erano come il padrone con i braccianti. I gregari erano nati per servire il capitano. E basta. Racconta John Foot che quando Carrea, gregario di Coppi si ritrovò per caso sulle sue spalle la maglia gialla nel Tour del 1952, la sua reazione fu di disperazione e si fece fotografare mentre lustrava gli scarpini al capitano con il simbolo del primato. Che il giorno dopo restituì a Coppi con un sospiro di sollievo.
Ma il capitano non era un privilegiato. Viveva una vita intimamente legata a quella dei compagni, in bici dalla mattina alla sera, pasti e serate in comune, puramente maschile, senza spazio per mogli, fidanzate e modelle.
Coppi il comunista e Bartali il cattolico.
Miti semplici e privi di fondamento, come ogni mito che si rispetti. Etichette elementari con cui gli italiani cercavano di leggere la grande frattura politica e sociale del secondo dopoguerra. Coppi non era comunista, Bartali era devoto ma aveva partecipato con la sua bici alla resistenza. Gli italiani avevano bisogno di simboli in cui ritrovarsi, uniti nella discordia, divisi nel fanatismo sportivo, in attesa di diventare un solo popolo nel nome della televisione.
Coppi è l’elemento centrale del saggio. Il volto aguzzo e le gambe fragili di Coppi erano quelli di molti italiani. Coppi volava sulla bicicletta ed era goffo in terra. Finì per innamorarsi di una donna sposata, rompendo un tabù ancestrale, il nono comandamento della vita patriarcale, “non desiderare la donna d’altri”. Lui non ne ebbe molta felicità ma, in qualche modo lanciò lo sprint ad una società nuova che stava soppiantando quella arcaica. Morì giovane, alimentando il culto del martire e cristallizzando per l’eternità un volto con cui gli altri ciclisti si sarebbero confrontati.
L’epoca d’oro del ciclismo italiano è finita nel 1960, che oggi rivive nella narrazione delle imprese del passato, e anche una certa idea d’Italia. Le tradizioni patriarcali come l’eroismo del campione solitario sulle vette alpine. La vita rurale e la semplicità come i racconti provenienti da lontano, immaginati più che vissuti. La povertà e le folle per strada, i campanili e lo spirito comunitario, l’ingenuità e le promesse della modernità.
Oggi il Giro è una pallida ombra dell’antica gloria. Prevalgono le tattiche di squadra, il lavoro di gruppo. I campioni risplendono per una stagione. I giornalisti guardano ossessivamente al passato in cerca di paragoni. Fuga d’altri tempi è il classico titolo della Gazzetta per descrivere la cavalcata solitaria di un oscuro ciclista, lasciato solo perché i capitani non hanno sufficienti energie per scattare da soli. Pantani è stata forse l’ultima gloria, anche se il doping ne ha offuscato la leggenda.
John Foot ha scritto “Pedalare!” per parlare della storia d’Italia attraverso il ciclismo. Con ancora maggiore profondità che nel suo precedente lavoro Calcio! (vedi MaxKeefe 7 del marzo 2011), indaga sulla costruzione dei miti e dell’identità nazionale nel periodo di maggior fulgore del ciclismo.
Un racconto godibile, appassionato ma rigoroso, in cui la storia dei campioni è la storia dei nostri occhi che li guardarono, di come sono cambiati. Da ingenui occhi contadini a disincantati sguardi urbani. Forse più grassi, forse più felici. Ancora desolatamente affamati di miti.

1 commento:

Sassifrago Narrimbi ha detto...

Buongiorno Salvatore. Ho scoperto dopo ben quattro anni che sono stato citato per questo mio articolo. Grazie. Max

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