Un tempo, quando si motivava l'improbabilità, in Italia, di una politica riformistica fondata su un "patto tra i produttori", si denunciava l'intreccio tra il normale profitto capitalistico e rendite di ogni tipo, monopoli, privilegi, manomorte, residui di un feudalesimo e di un corporativismo duri a morire.
Ho l'impressione sempre più netta che - grazie agli enormi e incontrollati guadagni con i traffici internazionali di droghe proibite e di armi e alla globalizzazione neoliberista - un simile indistricabile intreccio si sia creato tra economia legale ed illegale. Mi pare cioè che, nella prudenza di governi, magistrature, polizie, autorità finanziarie, organismi internazionali, nel cercare e individuare "associazioni mafiose", "connessioni finanziarie", nel tentativo di isolare lo "spaccio" e perfino il singolo "spacciatore", di isolare i casi scoperti di traffico e perfino le singole "partite" non sia solo da vedere la potenza corruttrice delle mafie, che tenta di salvare i livelli organizzativi e dirigenti, ma qualcosa di più e di peggio: la paura di inceppare e scassare l'intero sistema, la convinzione che "qui bisogna fermarsi, se no salta tutto".
Se condotta con questa consapevolezza e, senza fermarsi alla superficie della "criminalità organizzata", la lotta contro le mafie può diventare "rivoluzione", può fare "saltare tutto". Non c'è riformismo che funzioni: l'illegalità è in tutti i poteri, in tutto il potere, forse nella stessa legge.
Se condotta con questa consapevolezza e, senza fermarsi alla superficie della "criminalità organizzata", la lotta contro le mafie può diventare "rivoluzione", può fare "saltare tutto". Non c'è riformismo che funzioni: l'illegalità è in tutti i poteri, in tutto il potere, forse nella stessa legge.
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