L'ottimo professore Paolo Sylos Labini, in polemica con Marx e in sintonia con tanti, in un suo pamphlet aveva proclamato : "Altro che proletarizzazione! Questo è il trionfo del ceto medio". Alberto Burgio nell'articolo Vizi e virtù dei ceti medi, su "alfabeta 2" dell'aprile 2011, si prende cura di smentire quelle analisi, che avevano il difetto di considerare definitiva la congiuntura e di sottovalutare le tendenze spontanee del capitalismo, travolgenti se prive di argini e di freni. Ancor più, tuttavia, Burglio si preoccupa di valorizzare le opportunità di alleanze che la nuova "proletarizzazione" in atto sembra offrire al movimento operaio e al lavoro dipendente: non usa la categoria gramsciana di "blocco storico", ma vi allude nella parte finale dell'articolo del quale "posto" qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
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Quindici anni fa Paolo Sylos Labini pubblicò un agile libretto per attaccare Marx. Tracciava un bilancio che intendeva mettere in mostra il suo errore fondamentale: la previsione che il capitalismo avrebbe scomposto le società in due blocchi, da una parte i capitalisti, dall’altra i proletari. A questa «profezia» Sylos Labini contrapponeva la crescita della classe media, non solo sempre più vasta e articolata ma anche sempre più influente sul piano politico. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il cosiddetto neoliberismo ha dispiegato i propri effetti, che la crisi dei mutui ha portato alle estreme conseguenze. Forse, considerando il paesaggio sociale dei paesi a capitalismo maturo oggi, Sylos Labini ci penserebbe su due volte prima di mandare Marx in soffitta.
Gran parte dei ceti medi si ritrova a leccarsi le ferite, non ha capitali, gode di protezioni sociali sempre più incerte, non trova lavoro o ha impieghi precari e sottopagati. Ha raggiunto un elevato grado di scolarizzazione, ma sempre più raramente a questo risultato si accompagna un riconoscimento sociale. La crisi storica del capitalismo (il ridursi, da trent’anni a questa parte, dei margini di profitto del capitale produttivo) si riflette nella proletarizzazione dei ceti medi, un processo che sembra andare nella direzione di quanto ipotizzato un secolo e mezzo fa dall’autore del Capitale e che si profila gravido di implicazioni politiche. L’impressione è che molto, in questo nuovo secolo come già nel Novecento, dipenderà dall’evolversi di questo processo. La rabbia dei ceti medi, le loro paure e il loro risentimento, ma anche, in positivo, la loro capacità di far valere competenza, creatività e capacità relazionale, incideranno in profondità sul decorso delle gravi malattie (populismo, privatismo, ingiustizia sociale e leaderismo autoritario) che affliggono le democrazie occidentali. […]
E in Europa? In Italia? […] Il quadro è ambivalente. Il movimento degli studenti medi e universitari e del precariato intellettuale ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti sullo scenario sociale nei mesi scorsi. Il saccheggio delle risorse pubbliche praticato dai governi nel nome del «risanamento dei bilanci» (non soltanto in Italia, anche in Inghilterra, in Germania e in Francia) ha devastato scuole e università, e nelle «riforme» varate a suon di tagli e di più alte tasse di iscrizione i giovani hanno letto con precisione il destino che si prepara loro, fatto di precarietà, povertà e dequalificazione. Le manifestazioni hanno denunciato la volontà restauratrice di restituire al sistema formativo il ruolo di filtro per la selezione di classe che esso ha svolto sino agli anni Sessanta.
Alla luce di questa consapevolezza è possibile comprendere l’intreccio tra la protesta di studenti e ricercatori precari e la lotta degli operai metalmeccanici italiani contro l’attacco al contratto collettivo nazionale, e il collegamento di entrambe alle mobilitazioni del «popolo viola» – erede del movimento dei girotondi ed espressione dei «ceti medi riflessivi» – contro il dilagare dell’illegalità e della corruzione come metodi di governo. La stretta interazione tra queste lotte riflette la capacità di riconoscere le connessioni che saldano l’attacco al lavoro dipendente e la disoccupazione intellettuale di massa alla protezione di grandi patrimoni e rendite parassitarie. Si tratta, mutatis mutandis, di un paesaggio oligarchico per molti versi somigliante a quello dei paesi del Maghreb, benché la nostra supponenza eurocentrica e l’abuso della retorica democratica rendano difficile cogliere qualsiasi analogia.
Ma i ceti medi in Europa sono anche la principale base di consenso della destra. In Italia costituiscono il blocco sociale che più si avvantaggia dell’illegalità legalizzata a mezzo di ricorrenti sanatorie edilizie e fiscali e di un sistema impositivo che premia l’evasione. In tutta Europa il mondo delle libere professioni e del commercio, la dirigenza e la burocrazia reagiscono ai rischi del declassamento con il classico risentimento antioperaio. Il pessimismo e l’incertezza sui destini della discendenza alimentano in questi settori sociali pulsioni antipolitiche, nostalgie autoritarie e non di rado attitudini razziste. Un emblema di questa chiusura allarmata è la riscoperta della cosiddetta meritocrazia, un discorso nel quale la preoccupazione per il proprio ruolo sociale si traveste da scrupolo etico e da sollecitudine per l’equità e il buongoverno. Chi potrebbe non auspicare il riconoscimento dei talenti e dei meriti? Guai, però, a mettere in discussione i criteri di valutazione e soprattutto le posizioni di partenza. La borghesia ha costruito l’Europa moderna a propria immagine e somiglianza, ne è artefice e pretende di rimanerne padrona. Agita istericamente, da un paio di secoli, i principi delle proprie rivoluzioni, ma non ne tollera la declinazione universalistica che rischierebbe di legittimare trasformazioni radicali.
Insomma, si ha una sensazione: o ci si prende la briga di capire meglio che cosa ribolle nella pancia delle nostre società di cui le classi medie sono grande parte, o non si uscirà dall’incubo di una crisi sempre più minacciosa. Capire non significa fare come, da vent’anni a questa parte, la sinistra postcomunista e postsocialdemocratica, che ha abbandonato il lavoro dipendente nella convinzione che le classi medie siano per natura e in toto portatrici di modernità e di progresso. Al contrario. Implica distinguere, disaggregare, cogliere contraddizioni e dilemmi, a cominciare dal paradosso per cui la semplificazione sociale generata dall’impoverimento dei ceti medi produce complessità politica per l’intensificarsi delle paure e delle pulsioni reazionarie. Capire impone, in altre parole, di tornare a fare «inchiesta sociale» e di studiare dal vivo quella che un linguaggio che a qualcuno parrà arcaico definisce «composizione di classe». Si potrebbero fare esperienze interessanti, verificando, per esempio, sino a che punto abbia lavorato anche da noi il nesso tra proletarizzazione di massa, scolarizzazione e accumulazione tecnologica. E forse si potrebbe stabilire se anche nelle nostre società blindate vi sia, nonostante tutto, la speranza di mandare a fondo i satrapi che ci opprimono con il pretesto della democrazia.
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