16.7.12

Streghe (di Clara Gallini)

Recensione di un corposo volume di Bermani, l’articolo qui riportato fa il punto su una credenza meridionale, legata spesso all’invidia sociale. I fatti di Ponticelli (alla periferia di Napoli) cui Clara Gallini allude sono la voce, poi risultata del tutto falsa, del rapimento di una bambina da parte di una “zingara” e l’incendio al campo Rom che ne conseguì, nel maggio 2008. (S.L.L.)

«Beh, sai, i bambini le streghe se li portano con loro, se li portano con sé a Benevento, si può dire, e poi là gliene fanno di abrasioni! Là, li acchiappa una, li acchiappa l' altra, le botte... sai come le fa diventare! Così magri i bambini li fanno diventare, se li mangiano, gli mangiano il sangue, proprio, se li tirano, se li succhiano... Si arrampicano sopra all'albero e se ti vedono scappano di qua e di là...»: il terribile gioco delle streghe che si celebra attorno al famigerato noce di Benevento mette in scena violenze perpetrate da donne sui bambini.
Fantasia sadica, getta ombre inquietanti su un ordine sociale che si rappresenta come carico di minacce. Fantasia tanto più inquietante proprio per la sua capacità di produrre essa stessa effetti di «realtà»: una realtà vissuta, praticata dalle persone nel quadro di un'esperienza che trasforma i soggetti in indagatori del male, alla ricerca della presenza di quei segni, che caratterizzerebbero persecutore e vittima, onde agire di conseguenza sulle rispettive persone.

Un debito di riconoscenza
«Lellina a Villa Torre, alla notte si alzò la mamma per allattarla perché era piccolina, andò alla culla e la bambina non c' era. Ha chiamato il marito, dice: Guarda, la bambina qua non c'è; ha girato, ha guardato sotto il letto, ha visto tutti i punti, il letto l'ha messo sottosopra, e la bambina non c' era; appena voltato l' occhio, la bambina stava là alla culla. Gliel' ha riportata ma con un affanno, con una faccia bianca che... la bambina pareva mezza morta». Sono numerose le «storie vere» di questo genere raccolte da Cesare Bermani e da lui registrate nel corso di una ricerca sulla stregoneria popolare condotta tra il '65 e il '76 prevalentemente (ma non solo) a Villa Zaccheo, una delle otto frazioni del comune di Castellalto, un paese dell'Abruzzo teramano.
Voci di un «mondo magico» di due, tre generazioni fa che ci vengono ora restituite da Bermani in Volare al sabba. Una ricerca sulla stregoneria popolare (DeriveApprodi 2008), libro che si impone anzitutto per la sua ricchezza documentaria (peccato solo che i testi siano scritti in un corpo così piccolo da essere quasi una sfida per noialtri occhialuti lettori...) e per quel grande rispetto del testo orale, che caratterizza da sempre il metodo di ricerca di questo studioso. Un rispetto che è, come prima cosa, riconoscimento del debito contratto da ogni ricercatore coi propri interlocutori. Due donne avrebbero rappresentato il punto di partenza e di arrivo di questa sua ricerca, come racconta lo stesso Bermani: «Il mio primo contatto col mondo magico abruzzese data dal 1959, in quanto esso era parte integrante della cultura di Mariafelice, nata e vissuta a Zaccheo ma conosciuta a Novara, la mia città, che ho sposato nel 1963, vivendo con lei sino al 1977». Sarebbe poi venuta la ricerca sul campo, di cui si è detto. Infine, «nel marzo 1994 mi sono imbattuto a Lesa (Novara) in una donna che chiamerò Olga, ivi emigrata agli inizi degli anni Sessanta da Pipiete, frazione del comune di Montefiorino in provincia di Ascoli Piceno (Marche), rivelatasi una importante fonte del mondo magico degli anni Cinquanta».
È attraverso queste testimonianze, che torna a noi quell'insieme, per così dire sistematico, di credenze e di pratiche, che è stato capace di «fare» la stregoneria in un dato spazio e in un dato tempo della nostra cultura «popolare». Ecco dunque emergere i segni dei mali provocati dalla strega sui corpi di bambini coperti di lividi o di graffi, defedati e febbricitanti come si può vedere in un'infanzia povera, le paure delle madri di fronte a segnali intraducibili (rumori, scricchiolii, ombre), il ricorso a pratiche di tutela e guarigione, dall'amuleto al pellegrinaggio. Ecco la figura della strega, che sintetizza ed elabora fantasie di una pericolosa diversità di genere (il suo erotismo eccessivo, marcato dalla capigliatura disciolta e molto, troppo, impomatata; la sua signoria sui limiti dell'umano con le relative effrazioni) e che appare e scompare, vola, si trasforma in animale. Ed ecco infine le occasioni con cui la strega viene scoperta (vedendola in viso, riconoscendola in una determinata persona: la vicina, la suocera, la sorella...) e le ritorsioni, più o meno violente ed esplicite, che si compiono per opera di chi si avverta danneggiato da lei.

Temi di antica origine
Questo ultimo libro di Bermani si aggiunge come un ulteriore tassello nella ciclopica produzione dello studioso, improntata ai metodi della «storia orale» anche quando ci presenta una raccolta di testi di canti popolari - di lavoro, d'amore, di protesta e di lotta. Questa volta, le novità sono molte, e la prospettiva storica poco sembra servire all'interpretazione di un fenomeno di lunga durata come è la credenza popolare nelle streghe. Insomma, affrontare questo argomento è proprio una bella «gatta da pelare», per usare una metafora senza alcun dubbio di origine stregonesca. (Nelle campagne di Crema, il mio paese natale, ancora fino agli anni '50 usava che i giovani maschi il primo giorno dell'anno si ingaggiassero nella gattara che era appunto una caccia ai gatti, con conseguente banchetto).
Il complesso della stregoneria ha preso corpo in Europa nell'età moderna ereditando e rielaborando diversi temi di più antica origine e declinandosi in una grande serie di varianti locali, croce e delizia di molti studiosi di folklore. Lo studio dell'argomento si complica ulteriormente sotto il profilo storico e alla luce delle dialettiche culturali, di classe e di genere: basti pensare al ruolo dei Tribunali dell'Inquisizione, con i relativi saperi confidati ai Manuali dell' Inquisitore e con le pratiche di «creazione» ed espulsione della figura della strega come donna il cui corpo diabolico andava purificato col fuoco. D'altra parte, rimane anche aperta la questione se la stregoneria sia esattamente la stessa cosa in contesti culturali così diversi come quelli al cui interno furono attivi i Tribunali dell'Inquisizione e quelli del nostro mezzogiorno, nel cui ambito sembra non abbia operato questo tipo di istituzione. Sarebbe proprio questa assenza (a mio avviso più relativa che assoluta) a porre in luce diversa e più autonoma il carattere «basso» di quelle forme di cultura che ruotano attorno alla credenza nella stregoneria.
Della complessità di questi temi il libro di Bermani tiene conto, specie nelle sue parti introduttive, che ripercorrono una buona parte della sterminata bibliografia prodotta sull'argomento dagli storici e dagli studiosi di tradizioni popolari. Diverso è invece il trattamento riservato a quelle storie «vere», che costituiscono la parte più sostanziosa del libro. Qui il ricorso all'analisi del profondo sembra fornire una sorta di chiave universale per interpretare gli ambivalenti sentimenti di amore-odio che si svilupperebbero nella madre nella sua relazione col figlio e darebbero luogo a fantasie e rappresentazioni spesso marcate da forme di sadismo orale o anale.
Anche altri orientamenti antropologici possono tuttavia essere adottati con profitto, come dimostra Bermani stesso affrontando il tema dell'invidia. Diverse storie mettono infatti in scena donne che gettano l'invidia (o il malocchio), per lo più di persone esterne alla famiglia ristretta che accarezzano un bambino «troppo» bello, o bussano alla porta di casa chiedendo un po' di pane o di olio, ma ricevono un rifiuto.

La morale della favola
Il male dell'invidia colpisce dunque le eccedenze e la asocialità, sempre tra i poveri: una conclusione (analoga a quella cui ero arrivata in una mia vecchia ricerca in Sardegna sfociata poi nel libro Dono e malocchio) che dimostra come sia utile ragionare sull'invidia non solo in termini psicologici ma sullo sfondo di una regola sociale che nel mondo contadino imponeva un minimo di solidarietà tra i poveri, pena altrimenti la trasformazione dell'una parte in strega e della controparte in vittima.
C'è una «morale della favola» ricavabile da queste storie di indigenza e di rapporti sociali tenuti sul filo di una perenne tensione? Basta dire che questo «mondo magico» è stato azzerato dal boom dei consumi e che pertanto nessuno crede più alle streghe? O piuttosto i fatti di Ponticelli non ci restituiscono nuove immagini di una invidia asociale, che guarda al più ricco per colpire il più povero, inteso come essere informe e neppure promosso al rango di strega?

“il manifesto” 20.05.2008 

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