Luce Irigaray |
Troppo spesso immaginiamo che un intellettuale sia solo qualcuno che ha studiato e sia, quindi, un esperto per quanto concerne la cultura. Certo, si suppone che un intellettuale abbia fatto più studi degli altri. Generalmente è così, benché oggi una persona che ha acquistato una semplice tecnica - per esempio in informatica, in comunicazione, in pubblicità — possa essere ritenuta un intellettuale
senza essere colta. Ma nemmeno essere colti basta, secondo me, per essere un intellettuale. Un intellettuale non può limitarsi a conoscere il passato, a ripetere cose già scoperte e dette che, inoltre, non sono appropriate alla nostra epoca. Il ruolo di un intellettuale non è di farsi prendere sul serio perché ha studiato, anche se studiare è un lavoro troppo poco stimato oggi. Ma studiare deve innanzitutto servire per imparare a pensare da se stessi: a riflettere sul tempo presente, a costruire un futuro migliore. Il mestiere di un intellettuale consiste nel pensare per rimediare alle cose che non funzionano, che non sono adatte all'epoca in cui vive, e nell'elaborare una cultura che più conviene all'umanità e al suo divenire.
Ciò implica conoscenze ma anche capacità creative e un atteggiamento etico fatto di disinteresse personale e di preoccupazione per il mondo, per gli altri.
Pensare presuppone anche coraggio per sopportare le critiche, la solitudine, il dubbio. Pensare implica azzardarsi fuori dal comune, fuori dalle abitudini, fuori dal consueto - perfino fuori dal paese, dalla casa e da sé, per aprire vie nuove, vita nuova per sé e per gli altri. Non solo in nome di qualche pater- o mater-nalismo, ma perché questa via o questa vita più corrispondono allo sbocciare dell'umanità. Ora, cambiare consuetudini, cambiarsi, richiede energia e coraggio, anche quello di attirarsi le critiche, la repressione o la vendetta. La vita di un vero intellettuale non è mai, quindi, il percorso agevole e quieto che certi altri lavoratori si figurano.
Da Il laviro del pensiero in "Alfabeta 2" n.3 ottobre 2010
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