29.7.12

Steinbeck corrispondente di guerra.

Crane, Harte, Bierce, London e poi Dos Passos, Mailer, Jones, Vonnegut, Heller, Herr e O’Brien. Tra diciannovesimo e ventesimo secolo la letteratura statunitense sembra aver mantenuto col tema della guerra un discorso ininterrotto e complesso. Non semplice appendice o serbatoio creativo, accanto alle traduzioni romanzesche di questo discorso (Da qui all’eternità, Comma 22 o Mattatoio n. 5), una parte considerevole è rappresentata da quel genere di scrittura in presa diretta che, dell’esperienza quotidiana della morte e delle battaglie, fa resoconto e notizia in una corrispondenza pubblica; a differenza del cronista, ovvero, più esattamente, dell’inviato speciale in senso proprio, il corrispondente dal fronte – specie quando si tratti di un affermato scrittore – non è però gravato dell’obbligo di raccontare cosa stia accadendo e come nella complessa dinamica dei rapporti di forza tra potenze, stati ed eserciti; il suo compito, ammesso che si possa definire tale, è più leggero e difficile allo stesso tempo. Raccontare la guerra negli articoli destinati a un media di massa come la carta stampata vuol dire, per lui, partecipare le emozioni e i sentimenti che prova chi quella guerra sta combattendo: tradurre paure e infondere speranze, testimoniare e illudersi.
In questo senso, se si apre credito alla lettura «tematica» che della sua opera ha condotto Edmund Wilson, John Steinbeck (1902-’68), che alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale aveva già pubblicato Pian della Tortilla, La battaglia, Uomini e topi e Furore, rappresenta affatto, con qualche approssimazione e in potenza, il modello tipico del corrispondente di guerra.
Dell’autore californiano, premio Nobel nel 1963, Wilson scrive, infatti, che «non ha niente da opporre alla sua visione dell’uomo che si odia e si autodistrugge, se non un’irriducibile fede nella vita; e, nelle sue stesse perorazioni a favore dei diseredati, s’intravvede sempre quel realismo biologico che è il suo naturale abito mentale». Abito di cui lo stesso Steinbeck non ha fatto mistero quando, nel 1958, ha raccolto in volume i dispacci giornalieri di sei mesi, dal 20 giugno al 13 dicembre del ’43, al seguito delle truppe americane. «Rileggendoli dopo tutti questi anni – confessa lo scrittore –, mi rendo conto non solo di quante cose avevo dimenticato, ma anche che sono articoli datati, che l’approccio è arcaico e gli impulsi sono romantici, e che, forse, alla luce di quello che è successo da allora, tutto l’insieme è insincero, deformato e fazioso». Ma, al di là delle regole di comportamento («alcune imposte e altre auto-imposte») che il corrispondente si vedeva costretto o si sentiva condizionato ad adottare (come far apparire necessarie anche le scelte strategiche solo sbagliate o illogiche e riportare qualsiasi follia a un più vasto e incomprensibile disegno tattico), prendendo di nuovo in mano C’era una volta una guerra (traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani «Overlook», pp. 287, € 17,00), qual è oggi, sullo sfondo di un orizzonte immaginario che dalle parole sembra poter prescindere per raccontare la ferita della guerra, il senso e la misura di quell’approccio arcaico, romantico, insincero, deformato e fazioso?
Un primo indizio ce lo fornisce ancora il prologo, laddove Steinbeck ammette: «ci censuravamo molto più di quanto venissimo censurati. Ci sentivamo responsabili per quello che veniva chiamato il “fronte interno”. C’era la sensazione diffusa che se il fronte interno non fosse stato accuratamente protetto dalla realtà della guerra si sarebbe lasciato prendere dal panico. E sentivamo anche di dover proteggere dalle critiche i militari, altrimenti si sarebbero ritirati nelle tende imbronciati come Achille […] L’incauto reporter che avesse infranto le regole avrebbe pregiudicato la pubblicazione dei suoi articoli in patria, e in più il comando lo avrebbe allontanato dal fronte: e togliere il fronte di guerra a un corrispondente è come togliergli la materia prima». Il fatto che, poco sopra questa affermazione, Steinbeck si sia definito, rispetto al gruppo di colleghi che ha conosciuto al seguito dell’esercito, «un ritardatario, una specie di vacca sacra, un turista», e il ricorso, in seguito, a una corporativa terza persona plurale, sembra intenda garantire dell’obiettività di tali scrupoli etici e morali, nonché della loro legittimità: «Sì – prosegue Steinbeck –, scrivevamo solo di una parte della guerra, ma eravamo convinti, ardentemente convinti, che fosse la cosa migliore da fare. E forse è per questo che, finita la guerra, romanzi e racconti di ex soldati, come Il nudo e il morto, si rivelarono così scioccanti per un pubblico che era stato accuratamente protetto da ogni contatto con quella disastrosa follia isterica».
E difatti, passando al contenuto vero e proprio del libro, stupisce, nella prima sezione, composta dai
trentaquattro articoli per lo più dettati al telefono dall’Inghilterra per le colonne dell’“Herald Tribune” di New York, il ricorso a ellissi narrative, a espedienti retorici, a distrazioni deliberate dai fatti; alla finzionalizzazione, in altri termini, e alla diegetizzazione dell’esperienza bellica. Ogni accadimento, ogni situazione viene ridotta a breve racconto, a parabola esemplare, più che della realtà delle cose, di quella che avrebbe dovuto essere una simile realtà. Prima di arrivare a un qualche concreto riferimento al decorso effettivo del conflitto, per esempio, si devono attendere oltre cento pagine, e anche in questo caso il referto è ridotto all’osso, depotenziato da qualsiasi analisi o interpretazione. Riprendendo il filo wilsoniano, però, si direbbe che qui intervenga non solo e non tanto un’attitudine comune a tutti i corrispondenti, bensì soprattutto l’umanesimo di John
Steinbeck: una filosofia poco convincente e poco resistente alla prova del tempo, ma non di rado redenta, anche in questi pezzi di servizio – e per usare nuovamente le parole del critico del Castello di Axel – da «eccezionali, a volte addirittura sorprendenti, mezzi di osservazione e di invenzione». Tra quest’ultimi, il più frequente lo dichiara proprio l’artefice, laddove riconosce di avere lasciato esprimere le proprie opinioni o di aver cristallizzato il senso di un evento «mondiale» nella vicenda di pochi uomini che, sebbene realmente esistiti (sono i soldati con cui Steinbeck divide vitto e alloggio), diventano, con ciò solo, dei personaggi – come ilmemorabile Big Train Mulligan, sorta di imboscato al fronte che «dopo due anni di esercito e un anno in Inghilterra, è forse uno dei soldati semplici più sereni e realizzati di questa guerra».
L’ultima sezione del libro, la terza dopo quella nordafricana, è dedicata allo sbarco degli Alleati in Sicilia, ma a dispetto di quanto recita il risvolto di copertina di quest’edizione – la seconda dopo quella apparsa nel 1993 per Leonardo a cura di Bruno Osimo – il «mosaico di descrizioni acutissime e piene d’ironia» di Steinbeck non pare racconti «sotto una nuova luce» la Liberazione dell’Italia. Toni e colori sono gli stessi dei reportage dalla Gran Bretagna; a restare è piuttosto la prova, talora davvero contagiosa tanto è appassionata, della contraddizione tra quello sguardo critico e quella fede irriducibile di cui parlava Wilson e che, nel dopoguerra, avrà ancora modo di esprimersi, come fossero gli ultimi sprazzi di un campione sul viale del tramonto, in alcune preziose e dolentissime pagine di Vicolo Cannery.

"Alias" 9 aprile 2011

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