10.7.12

Menù e ipocrisie religiose. Il pescatore di pecore (di Loris Campetti)

Pecore dell'Adriatico. Isole Kornati (Croazia)
La vigilia di Natale si mangia pesce. Per devozione, è la cosiddetta cena “di magro”. Forse all’origine della vigilia, che fosse un qualunque venerdì o il giorno che precede particolari festività religiose, c’erano motivazioni serie, profonde. Forse. Di sicuro si può dire che nel corso del tempo, il fatto di far penitenza mangiando di tutto e in abbondanza, eccezion fatta per la carne, si è trasformato in un imbroglio clamoroso. Un’ipocrisia, tipica della cultura cattolica - ma non solo cattolica: anche gli ebrei non scherzano e lo scopriremo più avanti.
Basti pensare al menù tipico per esempio nella mia regione, le Marche, la sera del 24 dicembre. Antipastini di mare, a seconda dei redditi: si va dai semplici crostini con burro e acciughe o aringa affumicata (questo era alle origini) a quanto di meglio oggi si possa chiedere a crostacei, frutti di mare e pesce azzurro. Come primo piatto, pasta con sugo di tonno e pomodoro ma, anche in questo caso, l’evoluzione del gusto, del “benessere” e del concetto di penitenza hanno portato all’introduzione dell’ormai classico spaghetto allo scoglio con dentro ogni bel di Dio (per sostenere l’attesa trepidante della di Lui nascita). Ed eccoci al secondo: frittura mista “di magro” che prevede obbligatoriamente una gran quantità di verdure, dai carciofi ai cardi, dagli zucchini alle melanzane e una altrettanto copiosa qualità di pesci, per la tradizione obbligatori i filetti di baccalà, a cui via via si sono aggiunte nuove specie, gamberi e calamari, spatola, acqua delle e quant’altro. In che consiste la penitenza? Nel fatto che per friggere si usa solo farina, oppure una pastella di farina e acqua (o latte). Niente uovo, oltre che niente carne. Vi par poco?
Se non altro, la prescrizione cattolica che proibisce (anzi proibiva, oggi il rispetto del precetto introdotto il 4 dicembre del 1563 in un documento approvato l’ultimo giorno del Concilio di Trento, è facoltativo) di mangiar carne il venerdì ha favorito l’irruzione del pesce nelle tavole anche di famiglie non benestanti, quando fino a non molti decenni fa si faceva poco uso dei prodotti del mare, persino tra le popolazioni rivierasche.
I primi a rispettare e a diffondere con impegno questa tradizione della vigilia, o devozione, o penitenza che dir si voglia, sono i pescatori marchigiani. Con un’eccezione, di cui si narrava tempo fa nelle trattorie dei porti della regione, da Ancona a San Benedetto del Tronto, da Fano a Porto Recanati. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, la pesca stava già diventando poco remunerativa per la semplice ragione che veniva fatta in maniera troppo intensiva, con reti troppo fini, con il sistema dello strascico. Cosicché, non pochi pescatori avevano preso la pessima abitudine di sconfinare e andare a buttare le reti nelle generose acque jugoslave, in particolare nella dirimpettaia Dalmazia. Va detto che a quel tempo, dalle parti di Ancona c’era un certo feeling con la Jugoslavia di Tito: c’era un buon rapporto tra le due popolazioni, addirittura più di dieci scuole di lingua serbocroata; subito dopo la seconda guerra mondiale, il 1º Maggio veniva organizzata una nave che portava un bel po’ di marchigiani a festeggiare il giorno dei lavoratori a Zara, con Tito e le compagne cuoche titine, nonostante i “Magnacucchi” fossero già sull’orlo dell’espulsione dal Pci. Comunque, qualsiasi cosa si pensasse di Tito, di una cosa almeno nessuno dubitava: sapeva proteggere il patrimonio ittico del mare jugoslavo che aveva suddiviso come in una scacchiera immaginaria e ogni anno in alcuni quadrati veniva imposto il fermo pesca. Si capisce, dunque, come mai i corsari marchigiani sconfinassero con le loro barche e le loro reti. Qualcuno ogni tanto veniva preso dai guardacoste di Tito e pagava per tutti ma, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro e quell’abitudine non è sopravvissuta a Tito e alla Jugoslavia.
Ora, pare che uno di questi corsari fosse così spregiudicato da essere chiamato “il pescatore di pecore”. Arrivava così vicino alla costa jugoslava da riuscire, tra una triglia e un’orata prese nelle maglie della rete, a sparare alle pecore che pascolavano in riva al mare e a portarsele a casa. Leggende marinare? Pare di no, al punto che per convincere gli scettici quel bandito invitò a cena - era la vigilia di Natale - un bel po’ di amici e servì in tavola non i piatti tipici della sera del 24 dicembre di cui sopra, bensì la pecora in tutte le salse. Che l’animale fosse veramente jugoslavo era testimoniato dal fatto che parlava soltanto serbo-croato. Così, per una volta fu violata la prescrizione deliberata al Concilio di Trento.
Chi si diverte a smontare le leggende marinare, naturalmente nega tutto. Magari adducendo motivazioni pretestuose: si sa che la gente di mare racconta fanfaluche e in più si sa che l’anarchia e l’anticlericalismo hanno lasciato segni profondi tra le Marche e la Romagna. Forse quel pescatore ha offerto pecora a tutti proprio per infrangere le leggi sacre della vigilia, e per rendersi credibile, precedentemente aveva insegnato alla povera bestia il serbo-croato.

"il manifesto" - speciale alimentazione - april 2004

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