16.7.12

Verdi virtù. Comunità indigene e imperialismo agro-alimentare(Franco Carlini)

Franco Carlini, lo scienziato che scriveva sul “manifesto” e che affrontava ogni articolo come un esperimento, scrisse anche di cibo, su “Scritto e mangiato”, il supplemento dedicato ai temi dell’alimentazione, che esce un paio di volte l’anno con il quotidiano. Questo pezzo uscì nel dicembre 2004 e smontava i luoghi comuni filo imperialistici che anche una bella penna come Miriam Mafai contribuiva di quando in quando a diffondere. Una lezione di giornalismo e di metodo. (S.L.L.)
Secondo Miriam Mafai, “nello Zambia centinaia di migliaia di persone rischiano di morire di fame, mentre i depositi locali del Pam (Programma alimentare mondiale) sono pieni di migliaia di tonnellate di mais che non può essere distribuito per l’opposizione dello stesso presidente dello Zambia, che lo ha definito ‘poisoned food’, perché geneticamente modificato”. Per la giornalista casi come questo “testimoniano della difficoltà di affrontare in modo razionale il problema della fame nel mondo e della dissennatezza di molti dei gruppi dirigenti di quegli infelici paesi”.
La cosa curiosa è che queste righe vengano scritte a recensione di un libro (Jean Ziegler, Dalla parte dei deboli, Marco Tropea editore) che evidentemente non è stato capito o forse letto troppo di
fretta. L’autore infatti, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, spiega con chiarezza fin da pagina 23 perché fosse giusta la decisione dello Zambia: “Dietro l’operazione umanitaria condotta attraverso la fornitura di mais geneticamente modificato vi era la volontà della multinazionale Monsanto di penetrare nel mercato dello Zambia. Di fatto i contadini dello Zambia prelevano dagli aiuti umanitari la parte di mais che sarà utilizzata per la semina successiva … Ma le sementi geneticamente modificate sono protette da un brevetto mondiale detenuto dal trust Monsanto. I contadini dello Zambia, poveri come Giobbe, sarebbero stati strangolati dalle tasse che la multinazionale avrebbe avuto il diritto di esigere ogni anno … Il rifiuto opposto dal presidente dello Zambia ha quindi evitato una catastrofe finanziaria per i contadini”. Oltre a tutto, dato che nelle buone annate lo Zambia esporta in Europa e il mercato europeo non è particolarmente recettivo verso i cibi Ogm, ci sarebbe stato un danno ulteriore.
A questo si aggiunge un altro difetto - che gli Ogm accentuano ma che è vero anche per le altre forme di intervento umanitario in questi paesi: la spinta verso le monoculture agricole, il cui effetto prevalente è di solito di impoverire le popolazioni locali, di arricchire solo le grandi imprese e comunque di mettere a rischio l’economia di interi paesi: avere spinto Costa d’Avorio e Ghana verso il tutto cacao o il Vietnam verso il troppo caffé, ha esposto questi paesi a micidiali oscillazioni
di prezzi e a totale dipendenza da mercati che non controllano.
Per capirlo meglio ci si sposti nel Kalimantan (un tempo chiamato Borneo). Qui i Kantu’ continuano ostinatamente a stare lontani dal “nostro” progresso: si sono opposti, anche con un certo risultato, alle concessioni dei loro territori alle aziende del legno, decise dal governo indonesiano, e non hanno mai dato credito alla rivoluzione verde che proponeva loro di adottare il riso ad alta resa.
Usano invece varietà locali, adatte a terreni secchi: ne hanno ben 44 varietà, “parenti” ma diverse. Ogni famiglia delle grandi e lunghe case villaggio ne usa in media 17, in due o tre differenti appezzamenti e la regola della comunità dice che i campi di una stessa famiglia non devono essere visibili l’uno dall’altro. Perché mai questa stranezza?
Per un motivo molto semplice, ora codificato in regole: perché in tal modo ognuno dei campi si trova in un microambiente un po’ diverso e questo,insieme alla varietà delle pianticelle, assicura che mai, in nessuna stagione, tutto il raccolto vada perso per avverse condizioni climatiche. Detta in altri termini: la cultura di questa popolazione ha fatto della diversità una virtù e anzi una sorta di assicurazione sulla vita. Esattamente l’opposto delle monoculture.
Ma non è finita: i Kantu’ attorno alle case ci sono anche delle piccole piantagioni di caucciù, a suo tempo arrivate dal Brasile e lasciate libere, così che in queste si sviluppano anche altre piante non coltivate, come un tipo di bambù edibile; la ricca miscela di queste piante attrae animali selvatici tra cui un tipo di maiale particolarmente apprezzato come fonte di proteine. Il tutto all’interno di una cultura animistica, dove sette specie di uccelli della foresta sono gli intermediari con le divinità e perciò la loro caccia è proibita.
Di fronte a una tale ricchezza di natura e cultura (e quello dei Kantu’ è solo uno dei molti casi citabili), mostra tutta la sua debolezza l’idea tipicamente occidentale, di aiuto e di risarcimento, anche quando volonterosa e politicamente corretta. Dalla Conferenza di Rio in poi il nord del mondo ha preso coscienza che la maggiore ricchezza naturale (la biodiversità) si addensa nei paesi più poveri e dunque ci si è posti il problema di avere con loro un rapporto equo, per esempio stipulando degli accordi monetari con i loro governi: investimenti o prestiti in cambio di libertà di ricerca e di incursione nel loro patrimonio vegetale. Quando poi ci si è resi conto che i governi spesso erano corrotti e che i risarcimenti non arrivavano a coloro che avevano custodito i semi per millenni, si è cercato di stabilire degli accordi e nei casi migliori dei partenariati con le singole comunità locali.
Ma basta assicurare a una tribù la distribuzione dei profitti che eventualmente deriveranno dalla trasformazione in farmaci? Forse no, pensano gli studiosi più avvertiti: no perché non sono soltanto i semi e i geni che fanno la ricchezza, ma l’insieme della cultura e dei saperi, e dei riti, che quei popoli hanno creato nel tempo. Non ci sono dunque soltanto delle pianticelle da salvare per gli orti botanici o da conservare nelle banche del germoplasma; la ricchezza è insieme naturale e culturale.
In questo le comunità nord americane, specialmente del Canada, hanno ottenuto risultati e riconoscimenti sostanziosi, anche con operazioni “di chiusura”. Per esempio sono riuscite in alcuni casi a impedire che un disegno o un motivo ornamentale finisse sulle tazze da caffè, o che loro personaggi e suoni e nomi diventassero dei brand o delle mascotte per le industrie. Come ha scritto Thomas Graeaves, antropologo della Bucknell university in Pennsylvania, è finito il tempo degli etnografi che arrivano nelle comunità non invitati, come entomologi: “Coloro che conducono dei lavori sul campo nelle comunità indigene dovranno lavorare per le comunità e non sulle comunità”.

Da "scritto e mngiato - il manifesto", dicembre 2004 

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