Nel novembre del 1989, in occasione della morte di George Simenon, “Linea d’Ombra” affidò a Bruno Falcetto il compito di tracciare un bilancio dell’opera sua e di tentarne una collocazione storico-letteraria. L’articolo, pregevole, di cui riprendo un ampio stralcio, sottolinea l’importanza del grande romanziere francese, con Maigret e senza Maigret, e individua nella “densità” la caratteristica fondamentale della sua costruzione narrativa e nell’inquietudine dell’uomo-non-intellettuale all’interno della civiltà di massa il tema centrale del suo lavoro artistico. (S.L.L.)
La morte di Georges Simenon, lo scorso 4 settembre, ha lasciato a chi resta, oltre che un vuoto, anche qualcosa da fare.
Non tanto riconoscere la sua importanza di scrittore. Il riconoscimento è stato travagliato, e ancora nei discorsi su di lui è facile avvertire qualche imbarazzo nel collegare l'immagine dell'autore di qualità a quella del prolifico romanziere 'popolare', ma in fondo era già iniziato parecchi anni fa in modo per lui stesso "inatteso e in un certo senso terribile" per opera dello stesso Gide al quale scriveva queste parole (primo di una serie di illustri estimatori: da Mauriac, a Caillois, a Miller).
Quel che sembra mancare è piuttosto la capacità di collocare precisamente la sua opera nella geografia letteraria di questo secolo, non limitandosi a inserirla nella tradizione del 'noir' e del poliziesco, ma cercando di situarla meglio sullo sfondo complessivo della produzione letteraria novecentesca.
D'altronde, la sua opera non è certo un oggetto d'analisi facile da maneggiare né per le sue dimensioni, né per la sua varietà: nel labirinto di titoli e pseudonimi che si fa incontro a chi intenda esplorarla si riflette una personalità che sovente offre di sé immagini mal conciliabili, almeno a prima vista, contrastanti.
Il Simenon che racconta storie altrui, che — attraverso romanzi polizieschi, psicologici, di costume — costruisce una popolosissima galleria di protagonisti riuscendo ogni volta a immergersi in nuovi punti di vista e a dare loro una tesa materializzazione narrativa, non ha il medesimo profilo del Simenon narratore di se stesso, che invece mostra una certa difficoltà a trovare per il proprio io un'altrettanto essenziale realizzazione letteraria (nella pioggia di scritti dettati al magnetofono durante gli anni Settanta, all'intensità della Lettera a mia madre si affiancano tante pagine spesso superflue).
E i cento e più romanzi di Maigret, organizzati attorno a un "direttore di gioco" tranquillo nel giudizio e capace di una continua attenzione umana, propongono un'immagine del mondo complementare ma non sovrapponibile a quella dei romanzi 'senza Maigret', dove le atmosfere sono più cupe e l'orientamento nella vita più difficile (come dice Kees Popinga proprio nell'ultima battuta di L'uomo che guardava passare i treni: "Non c'è una verità, ne conviene?"). Mostra due facce anche l'autoritratto che Simenon dava di sé come scrittore: umile "artigiano vasaio" che cerca per tentativi di apprendere una tecnica e, insieme, autore ispirato che scrive in "stato di grazia", lasciandosi "cadere in trance", entrando in uno stato di temporanea cancellazione del proprio io.
Per lui saper scrivere vuol dire imparare un mestiere "impastando il gesso", ma anche imparare a vivere "tutte le vite possibili". Alla base della sua narrativa c'è infatti un interesse predominante: quello per il personaggio.
L'energia vitale e la curiosità tipiche del suo temperamento sono il motore di un prolungato sforzo di esplorazione del mondo degli uomini attraverso l’immedesimazione in figure sempre differenti. Ma l'interesse per il personaggio non si traduce nel gusto di un suo approfondimento isolato, piuttosto in un suo rafforzamento drammatico e contestuale: l'efficacia dei personaggi è fondata su quella dell'intelaiatura narrativa che li fa vivere.
L'atmosfera e la tensione sono appunto le qualità che più si riconoscono alla scrittura di Simenon, e in entrambe si esprime la medesima ricerca di densità e concentrazione, rispettivamente nello spazio e nel tempo (non a caso la misura narrativa preferita è quella del romanzo breve).
La sua è una pagina piena, dove spazi e persone interagiscono arricchendo reciprocamente il proprio profilo, dove i personaggi sono sempre inseriti in una rete di fitte determinazioni sociali e ambientali. Ed è anche grazie a questa 'densità' che la sua scrittura riesce a tracciare la mappa di un mondo di moderna quotidianità borghese e provinciale nel cui grigiore Simenon riesce a farci distinguere ipocrisie, umanità e orrori.
Simenon insisteva nel volere per sé la definizione di romanziere (non letterato, scrittore o altro): era il segno esplicito della consapevolezza di lavorare a un preciso modello di scrittura, attento assai più ai problemi del personaggio e dell'architettura narrativa, che a quelli dello stile. È un modello che si muove in una di¬rezione divergente rispetto a quella seguita in prevalenza dalla letteratura novecentesca di ri¬cerca (impegnata da altre preoccupazioni, di carattere stilistico, conoscitivo, metanarrativo) e affine invece a quella percorsa dalla letteratu¬ra di genere.
Capire davvero Simenon (e come lui altri grandi scrittori 'pQpolari') allora vuol dire an¬che saperlo situare in un contesto letterario complessivo e non mutilato, significa cioè im¬parare a pensare scrittura d'arte e di consumo come forme originali e legittime della lettera¬rietà novecentesca, sforzandosi di delineare la rete di collegamenti che le stringono, o almeno le affiancano e le intrecciano.
Si tratta, dunque, di non pensare al proget¬to della scrittura di genere unicamente come ri¬sultato di una semplificazione degli schemi della letteratura colta o di un recupero di modi ottocenteschi, trovando criteri e categorie più duttili per analizzarla. E si tratta di chiedersi in quale misura e con quali differenti modalità alta e bassa letteratura abbiano contribuito a raffigurare la realtà in cui viviamo.
Un discorso difficile, da continuare altrove. Ma si può ancora ricordare come il progetto inseguito con più tenacia da Simenon sia stato quello di "scrivere il romanzo di quelli che vivono e non pensano — non, almeno, secondo quel che noi chiamiamo pensare!", di dare parola a chi meno la sa padroneggiare, a un "uomo qualunque".
E forse, se la letteratura d'arte di questo secolo ha messo in scena le inquietudini e la perdita di certezze dell’uomo-intellettuale in maniera impareggiabile, bisogna riconoscere alla letteratura di consumo di aver saputo dare diverse immagini difficili da scordare del destino di disorientamento e anonimato dell'uomo comune, dell'appiattimento e dello straniamento dell'esperienza quotidiana nella civiltà di massa. E non poche volte proprio nella narrativa di Simenon.
“Linea d’Ombra”. novembre 1989
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