28.7.12

Tra Pietro Micca e Alberto Sordi. L'idea di nazione e il carattere degl’Italiani (Gianpasquale Santomassimo)

Un articolo splendido. Si commentano libri di storia e ragiona dell’oggi alla flebile luce della storia: del passato e del possibile avvenire dello Stato-Nazione, dei primati positivi o negativi degli Italiani. Soprattutto un ottimo antidoto alla banalizzazione e alla semplificazione. (S.L.L.)
Mettiamola così: un quarto di secolo fa era scontato dare per incipiente la fine dello Stato-nazione, superato virtuosamente dalla costruzione armonica di comunità sovranazionali o dallo sviluppo irrefrenabile degli scambi economici.
Le cose non sono andate in questo modo. Dopo il 1989 sono spuntate e spuntano nazioni sempre nuove, altre si annunciano o si auto-proclamano. Non si tratta solo di velleità, di costruzioni fantastiche come la Padania, di cui si ignorano perfino i confini, ma a volte di nazioni storiche «negate», che reclamano forte autonomia e talvolta indipendenza. La Spagna è un laboratorio delicatissimo di questi possibili nuovi equilibri; non sappiamo se il Belgio continuerà ad esistere, ma non possiamo neppure dirci sicuri che il Regno Unito resterà tale, di fronte alla grandeur di un parlamento di Edimburgo che appare costruito e pensato per molto più che un'autonomia.

Ripensamenti e recuperi
Di fronte a un internazionalismo che vede in azione ormai solo fondamentalismi religiosi o finanziari, è inevitabile la ricerca di una dimensione di «protezione e rassicurazione esistenziale», di «affinità, consonanze, parentele ideali e morali», parte di una «autorappresentazione senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di vivere e sopravvivere» (rinvio con queste citazioni a Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa di Silvio Lanaro, uscito quindici anni fa presso Marsilio, tra le poche cose sensate prodotte dal lungo dibattito italiano attorno a questi temi).
Abbiamo parlato non a caso di Stato-nazione: ma bisogna rilevare che tutta l'attenzione è stata spostata sul secondo termine della formula, dimenticando completamente il primo. Così è nata una letteratura enfatica sull'8 settembre come «morte della patria», ignorando che il fenomeno consisteva in realtà nella dissoluzione catastrofica dello Stato italiano. Così la crisi e poi l'implosione dello Stato del welfare (annunciata già in un libro profetico di James O'Connor del 1977) ha prodotto tensioni e scollamenti che in Italia hanno assunto la forma di una rinnovata interrogazione, talvolta angosciosa, sui nostri fondamenti nazionali. Tutto questo ricade in una celebrazione dei 150 anni dello Stato unitario che assumerà caratteristiche molto particolari e impensabili fino a pochi anni fa. E che, sorvolando su tutto il resto, sembra vedere impegnata solo la cultura di sinistra in un'opera di ripensamento e di recupero di una forma di patriottismo non retorica e adeguata alla forma costituzionale della Repubblica.
L'errore di fondo è stato probabilmente, fin dall'impostazione di questo appuntamento, quello di avere privilegiato pressoché esclusivamente il momento delle origini, come se i 150 anni si risolvessero nel ripensare l'anno zero di una storia, e non tutto lo svolgimento di essa. Di qui la centralità che al Risorgimento si è tornata ad attribuire già nel settennato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, promotore di una forma generosa di riattualizzazione del Risorgimento come occasione di pedagogia patriottica e repubblicana, che ha trovato molti consensi e qualche dissenso.


Una ininterrotta continuità
Tra le poche voci critiche vi è stata quella di Alberto Mario Banti, storico ben noto ai lettori di questo giornale, che ha reagito al «ciampismo storiografico» da cui sono stati contagiati molti opinionisti, ossia al tentativo di riproporre il Risorgimento tal quale, condito perfino dall'evocazione della prima guerra mondiale in chiave di quarta guerra d'indipendenza, come leggevamo nei nostri manuali di storia degli anni Cinquanta.
Il più grande merito di Banti è stato quello di averci ricordato la grande distanza dal Risorgimento, di avere dimostrato che il Risorgimento non è nostro contemporaneo, anche se molti fingono di crederlo tale nell'enfasi celebrativa. Il limite di Banti è stato, a mio avviso, di non aver sempre tenuto fede al suo assunto, rileggendo talvolta il Risorgimento con gli occhi di un contemporaneo, e per giunta di un contemporaneo molto sensibile al politicamente corretto.
«La nazione non è un dato di natura» ricorda Banti nell'incipit del suo ultimo libro (Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza 2011, pp. 208, euro 18). È infatti creazione relativamente recente; che però, dal momento in cui prende vita, diviene un fattore fondamentale nella vita degli uomini e nella loro storia. Ovunque la nazione si afferma attraverso un rapporto predatorio e selettivo del passato, costruendo e più spesso inventando tradizioni, elaborando un apparato emozionale evocativo di una storia e di un destino comune.
Il libro di Banti è costruito attorno all'individuazione di «figure profonde» della narrazione italiana: la nazione come parentela/famiglia; la nazione come comunità sacrificale; la nazione come comunità sessuata. Vuole condurre, attraverso citazioni di un ampio materiale di cultura alta, media e «bassa», una «analisi morfologica del discorso nazionale italiano dal Risorgimento al fascismo». La tesi «forte» del libro è proprio in questa continuità ininterrotta attraverso le epoche della storia per cui, fissate in epoca risorgimentale alcune strutture discorsive, esse procedono immutate nel tempo, e colonialismo, imperialismo, razzismo non saranno tali «da modificare o scalzare la matrice morfologica originaria del discorso nazionale».
Le obiezioni che vengono in mente di fronte a questo assunto sono moltissime, e provo ad elencare le principali. Intanto, il procedimento non è solo italiano, ma è comune a tutto il sentimento nazionale che prende forma in epoca romantica. Il più grande storico italiano dell'idea di nazione, Federico Chabod, aveva dimostrato nei suoi corsi degli anni della seconda guerra mondiale, pensati in evidente opposizione allo spirito del suo tempo, come l'idea di nazione nascesse in ambito settecentesco e in territorio per definizione alieno da spirito guerresco, in Svizzera, tra cittadini con lingue diverse, e in stretto collegamento con le idee di libertà e indipendenza.
C'è una evidente forzatura nell'impostazione di Banti, nel saltare la distinzione elementare tra principio di nazionalità e nazionalismo, tra clima culturale del primo Ottocento e quello del secondo. Si citano Mazzini e Garibaldi, ovviamente, ma si dimentica che furono tra i fondatori della Prima Internazionale Operaia, assieme a Marx e Bakunin, che Mazzini fondò anche la Giovine Europa, che Garibaldi combatté per la libertà di molte nazioni. E non è casuale che a Garibaldi venissero intitolate le Brigate di combattenti comunisti, in Spagna e poi in Italia.
Nella strofa più goffa e impacciata del nostro inno nazionale, quella che nessuno canta, si accenna al sangue polacco fatto versare dagli austriaci. C'era solidarietà tra uomini e popoli che si sentivano oppressi, e l'idea di liberazione nazionale si associava anche a quella di un profondo rivolgimento sociale.
Di Goffredo Mameli, patriota generoso e poeta discutibile, vorrei che non ci si limitasse a dire, come ha fatto Benigni in televisione, che è morto giovanissimo "per l'Italia", cosa di per sé vera ma semplificata. Vorrei che qualcuno ricordasse che era morto per una Repubblica democratica, quella romana, dalla costituzione modernissima e in tema di cittadinanza molto più moderna delle legislazioni successive. Era morto cioè per una Italia molto diversa da quella che poi si è realizzata. Col che non si vuole riaprire l'ennesimo processo agli esiti del Risorgimento: ce ne sono stati fin troppi, conosciamo origine, sviluppi e implicazioni di quei dibattiti, e li assumiamo come un dato della storia. Si vuole semplicemente ricordare che parliamo di una storia molto complicata, impossibile da racchiudere in formule semplificatorie.


Intorno al «Cuore»
Nella parte successiva, Banti dedica molta attenzione e citazioni al libro Cuore, uno dei libri di formazione dell'italiano più efficaci e duraturi, che ha aduggiato l'infanzia nostra come delle generazioni precedenti. Eppure, anche qui, risulta difficile accettare l'idea che Edmondo De Amicis fosse un nazionalista sanguinario: era un mite socialista umanitario, che voleva forgiare patriottismo e rettitudine con un libro a ben vedere molto strano, che parla di una Italia singolare, dove non c'è nemmeno un prete e non si parla mai di Chiesa.
Può darsi che le «strutture discorsive» siamo similari, e talvolta identiche, a quelle che più tardi verranno adottate da D'Annunzio, dai nazionalisti e dai fascisti. Le parole sono importanti, ma vanno lette e tradotte nel loro tempo. Altrimenti si rischia di riproporre, con segno rovesciato, la visione fascista, che poneva il fascismo stesso come realizzazione, «inveramento» del Risorgimento.
«La nazione fascista - scrive Banti - irrigidisce ed estremizza i tropi elementari della matrice discorsiva originaria», il che non è poco, ma si può dire di più: ne stravolge il significato. Scrivere che «le leggi razziali in fondo non sono che la gemmazione coerente del fatto che la nazione è sangue e suolo per i fascisti, come lo era stata per i liberali», mi sembra francamente uno sproposito. Forse tra cielo e terra della storia c'è molto più che le strutture discorsive: c'è la storia stessa.
Ma davvero corriamo oggi il rischio di un neo-nazionalismo aggressivo, che si manifesta con Roberto Benigni al Festival di Sanremo e con Romano Prodi e Giovanna Melandri che cantano l'inno nazionale assieme ai calciatori italiani nel 2006, con «risultato desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica»? I giovani americani ascoltano Bob Dylan cantare Blowin' in the wind come Bruce Springsteen che canta Born in the Usa, e quanto alle figure retoriche del patriottismo ottocentesco, credo che Fabrizio De André le avesse interpretate bene traducendo la canzone di Brassens Morire per delle idee («va bè, ma di morte lenta...»).


L'antieroe Alberto Sordi
Un libro recente di una storica italo-americana (Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza 2010 pp. XXVIII-320), dedicato non alla «identità», concetto sdrucciolevole e impalpabile, bensì al «carattere» che viene forgiato e costruito, partiva non a caso da Alberto Sordi, e dagli articoli celebrativi del personaggio apparsi nel 2003 sulla stampa italiana in occasione della sua morte: «icona nazionale», «tipicamente italiano», «eroe dei nostri difetti». Per rilevare come questa fosse la conclusione paradossale e imprevedibile di un discorso sul carattere italiano partito in epoca pre-risorgimentale e che aveva accompagnato gran parte della nostra storia, teso a costruire un italiano fiero, virile, guerresco, e sfociato nella esaltazione dell'italiano mammone, indolente, opportunista impersonato tante volte dall'attore romano.
Ecco, tra gli estremi di Pietro Micca e di Alberto Sordi sarebbe possibile trovare un quid medium di mite patriottismo sostanziato di senso civico e anche di senso della storia, proprio di cittadini italiani che vogliono restare tali, in una Repubblica libera, retta da leggi da rispettare e da una Costituzione che non è solo da difendere, ma soprattutto da attuare?

“il manifesto” 10 marzo 2011

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