28.7.12

Giuseppe Verdi. Che una sola volontà domini tutto, la mia (Mario Lavagetto)

A distanza di vent’anni dalla prima edizione ritorna, in veste rinnovata e con un indice arricchito, il libro che Marcello Conati ha intitolato Verdi. Interviste e incontri. A favorire la ristampa ha senz'altro contribuito la ricorrenza del centenario che, come sempre accade, porta con sé di tutto: discorsi ufficiali, convegni, commemorazioni, retorica, mondanità, allestimenti frettolosi (prevedibilmente moltissimi) o di qualità (in alcuni casi), saggi e studi di diverso valore, nuove incisioni, ristampe discografiche o editoriali. In questo caso si tratta, ha scritto Julian Budden nella prefazione, di «un incalcolabile servizio alla cultura verdiana», predisposto dalla formidabile erudizione e dall'intelligenza critica di un musicista-musicologo che a quella cultura ha dedicato anni di ricerche e di riflessioni.
Davanti a noi sfilano cinquantasette immagini che forniscono un ritratto di Verdi realizzato con vario talento e varia attendibilità. Un biografo prudente (ma anche qualsiasi lettore) nell’ascoltarli e nell'interrogarli è bene si attenga, come dichiara di avere fatto Mosco Carner nella premessa al suo benissimo Puccini, a un principio enunciato migliaia di anni or sono da Erodoto: «E' mio dovere registrare quello che sento dagli altri, ma non mio dovere crederlo.» Perché la certezza dell'autenticità non è data, ma è il risultato di confronti, verifiche incrociate, minuziosi controlli che Marcello Conati insegue organizzando intorno ai suoi testi un libro parallelo, composto di note ricchissime e di prefazioni in cui viene ripetutamente utilizzato come pietra di paragone l'epistolario verdiano. A sedurre e a rendere intriganti le successive inquadrature, al di là o prima di ogni possibile accertamento, resta in ogni caso il privilegio (e il pregiudizio) che accompagna le testimonianze oculari. Recentemente Luciano Canfora ha ricordato come alle origini della storia greca ci sia la novella di Gige e Candaule che mette in scena «un argomento di carattere teorico»: «nel caso degli esseri umani [..] le orecchie sono meno fededegne degli occhi». Tra le cose che ha udito e le cose che ha visto, un testimone (o un cronista o uno storico) potrà dunque ragionevolmente impegnare il suo onore solo sulle seconde. In linea di principio non c'è che la testimonianza oculare a fornire garanzie e, molti secoli dopo Erodoto, Isidoro di Siviglia potrà affermare fiducioso: «ciò che si vede, viene riferito senza mentire».
Nessuno oggi sarebbe disposto a condividere una simile fiducia e tuttavia i ricordi, le interviste, le istantanee, lo sguardo dei contemporanei conservano il loro valore e il loro fascino. Diffidarne è opportuno e questo libro è un ripetuto e divertente invito alla cautela. Non c'è nulla di incontrovertibile e anche «quello che si vede» (non il carattere, ma l'aspetto fisico di Verdi) passa attraverso una serie di sorprendenti metamorfosi: così, a seconda degli interlocutori, la statura è alta o media o piccola e gli occhi trascolorano dall'azzurro al grigio al nero. Se così forte è l'oscillazione su particolari che a prima vista appaiono facilmente verificabili e sottratti all'arbitrio, è difficile non condividere il sospetto formulato una volta da Verdi: «si copia quello che hanno detto gli altri [...] e quello che non sanno inventano».

Molto spesso i testimoni appaiono impigliati - senza accorgersene - all'interno di una «leggenda dell'artista» che si va costituendo e che Ernst Kris e Otto Kurz hanno dimostrato essere il prodotto di una elaborazione collettiva e fondata su alcuni topoi di larga circolazione. Accade allora che i testimoni oculari sembrino paradossalmente non vedere attraverso i propri occhi, ma attraverso le lenti che una cultura e il suo orizzonte di attesa finiscono per imporre. Così, passando per l'enfatizzazione di elementi reali o immaginari, Verdi viene rappresentato attraverso gli stereotipi del genio che si erano consolidati a partire dai primi anni dell'Ottocento.
Quando, viceversa, Verdi viene fatto parlare, un lettore, che abbia un orecchio sufficientemente esercitato e che conosca il suo epistolario, non ha difficoltà ad accorgersi se il testimone è fedele o se riferisce solo in modo approssimativo e sovrapponendo la propria voce alla voce dell'intervistato. Nelle sue lettere Verdi ha uno stile fortemente idiomatico, un timbro inconfondibile. A caratterizzare il quale ci sono sempre, in ogni circostanza, lucidità e implacabile concretezza. Egli può servirsi di parole di largo consumo e il cui significato appare a distanza di anni consunto, ma restituisce loro una funzionalità originaria: se, ad esempio, parla di «ispirazione», lo fa in contesti dove quella parola si sottrae alle generiche indeterminatezze dell'uso e riacquista valore nel quadro di un'estetica sbrigativa e nondimeno saldamente ancorata a un'idea precisa ed essenziale del fare. Dietro ogni giudizio, ogni frase, ogni richiesta ai librettisti o ai cantanti o agli impresari, si intravedono le linee essenziali di una poetica del melodramma disseminata di lettera in lettera e tuttavia salda e organica, flessibile nel tempo, ma basata su alcuni capisaldi non modificabili.

«Era un genio della musica e del teatro» diceva Boito e non c'è un solo particolare dello spettacolo che si sottragga al suo occhio, che non venga avocato da una consapevolezza inattaccabile e sorretta da uno spavaldo empirismo: «conviene [...] che gli artisti cantino non a loro modo, ma al mio [...] che tutto dipenda da me, che una volontà sola domini tutto, la mia. Ciò parrà un po' tirannico!... è forse vero. Ma se l'opera è di getto, l'Idea è Una, e tutto deve concorrere a formare quest'uno».
Solo così, Verdi ne è convinto, «l'opera potrà fare effetto», conquistare il pubblico, farlo entrare nel dramma, ottenere gli applausi e, ancora prima, una resa emotiva incondizionata. Per questo i cantanti devono tenere sempre a mente l'effetto drammatico e, alla Barbieri Nini, che gli chiede indicazioni per Il Corsaro, Verdi raccomanda: «quando abbandonate la scena fatelo precipitosamente, e quando ritornate pavida sconvolta fate ogni passo quasi come lo indica la musica, fino al momento in ex non potete più reggervi in piedi: mi direte per terra le parole seguenti: «già… l'opra è finita, per destarsi egli stava». Ditele senza andare a tempo, senza badare alle note, ma colla voce soffocata che appena si senta. »
Quanto forte fosse l'elemento teatrale al momento della concezione e della scrittura, lo dimostra il fatto che, in ogni occasione, al momento di scegliere un archetipo e di valutarne la «musicabilità», Verdi parte da un fantasma (o da una serie di fantasmi) che - proprio come voleva Freud - «da un lato mostrano un alto grado di organizzazione e di coerenza» e dall'altro sembrano affondare le proprie radici nell'inconscio. I personaggi diventano per lui presenze ossessive; hanno una fisionomia e un'identità che, una volta definite, lasciano un'impronta riconoscibile sul lavoro di composizione e la conservano sulla scena. A Domenico Morelli a cui aveva richiesto di disegnare i bozzetti per l’Otello, scriveva: «Per il tipo di figura di Jago la cosa è più seria. Tu vorresti una figura piccola, di membra (tu dici) poco sviluppate - e, se ho ben inteso, una di quelle figure furbe, maligne, dirò così, a punta. Se tu lo senti così, fallo così. Ma se io fossi attore ed stessi a rappresentare Jago, io vorrei avere una figura piuttosto magra e lunga, labbra sottili occhi piccoli vicini al naso come le scimmie, la fronte alta che scappa indietro, e la testa sviluppata di dietro; il fare distratto, nonchalant, indifferente a tutto, incredulo, frizzante dicendo il bene e il male con leggerezza come avendo l'aria di pensare a tutt'altro di quel che dice; così che, se qualcuno avesse a rimproverarlo: 'Tu, dici, tu proponi un'infamia' egli potesse rispondere: 'Davvero?... non credevo..., non ne parliamo più!...'  Una figura come questa può ingannar tutti, e fino ad un certo punto anche sua moglie. Una figura piccola, maligna, mette tutti in sospetto e non inganna nissuno! - Amen.»
Una volta ascoltata questa voce, sarà inevitabile percepire l'accento della falsificazione - non importa quanto intenzionale - se qualcuno gli fa dire: «Quando i miei pensieri mi tormentano troppo [..] sento sempre la necessità di rifugiarmi qui in questo parco e di pormi in armonia con gli spiriti invisibili, che misteriosi qui aleggiano intorno e che qui operano.» Ma in ogni caso, nonostante contraffazioni, incertezze o sfrontato uso della leggenda, dall'insieme dei documenti qui raccolti emerge una fisionomia riconoscibile: quella di un uomo guardingo, premeditatamente scostante sulle prime, o anche - superati i preliminari imbarazzi - affabile, perfino cordiale una volta raggiunta la certezza che l'interlocutore non gli parlerà di musica e, soprattutto, della sua musica. E' anche questa cortesia improvvisa, una forma di difesa, l'osta¬colo delle superfici che Verdi sembra frapporre tra sé e gli altri. «Scrivete poco, parlate poco di me, scrivete poco» raccomandava a Paul Fresnay nel 1886.

Tra tutti i raccontini presenti in questo volume, voglio riprenderne uno che mi appare per più versi significativo. Lo riferisce Luisa Mancinelli Cora: «Una sera, dopo aver pranzato al buffet della stazione Principe, si alzava per andarsene quando gli corre incontro un entusiasta esclamando: «Vedo finalmente Giuseppe Verdi!». Il Maestro si punta l'indice della destra sul petto: 'Io, Verdi?' e se ne va indisturbato lasciando l'altro in asso». Senza accantonare le cautele, credo che l'episodio sia plausibile; in ogni caso conferma che, come voleva Novalis, Verdi era in grado di inventare perfettamente i propri aneddoti. Vi si può leggere una prova di modestia e di discrezione o scorgervi, con ragioni altrettanto buone, l'ombra di un orgoglio luciferino. A colpire sono l'abilità e la prontezza con cui lì, alla stazione Principe di Genova, mentre sta per uscire dal buffet, Verdi riesce a sgusciare tra le mani del suo persecutore, a lasciargli niente altro che un nome e a sfilarsi da se stesso. Leggere l'episodio solo come una riconferma psicologica è senz'altro possibile, ma riduttivo. In quel gesto c'è - mi sembra - anche il riflesso di qualcosa di più profondo e radicato: della intenzione di sottrarsi alla propria opera o, forse meglio, di non interferire con essa, di consegnarla intatta al proprio destino. A Italo Pizzi che, basandosi su notizie giornalistiche, gli chiedeva di un suo libro di Memorie, Verdi replicava seccamente: «...io non approvo questo scrivere delle proprie cose!». Cosa possono mai sapere i biografi - osserva un testimone - della «sua vita intima, dal momento che secondo la regola del saggio egli la nasconde?»

In questa diffidenza nei confronti dell'io (che include Verdi in una grande famiglia composta di uomini e individualità diversissime, dove Stendhal e Proust si ritrovano accanto a Freud) possiamo riconoscere tanto le tracce di una convinzione estetica, quanto i riflessi di una idiosincrasia individuale, in cui si mescolano diffidenza conta¬dina e riservatezza borghese. Se consideriamo i codici di comportamento adottati e rigidamente difesi da Verdi, il suo modo di suddividere la giornata secondo una precisa scala di impegni, il rispetto per l'ordine, l'attenzione ai dettagli, lo scrupolo con cui assolve alle sue incombenze di proprietario terriero, ci troviamo davanti a un'identità sociale non molto diversa da quella di Goethe, perfetto rappresentante dell'«età borghese», che, diceva Thomas Mann, «nelle sue funzioni di uomo d'affari e capo dell'azienda della sua casa» appariva agli ospiti singolarmente «vigile, circospetto e tenace».
Una simile puntualità, il tenere scrupolosamente distinti i piani e gli spazi e i tempi della propria esistenza, «una certa civetteria - diceva De Lauzières - del tutto veniale nel guadagnare il più possibile con la sua penna di compositore» sono senza dubbio un modo di esorcizzare i demoni, ma anche di tenersi attaccato alle proprie radici, di non tradire le iscrizioni della sua genetica culturale. Quando, nel 1879, agli inizi di giugno, una disastrosa alluvione si abbatte sulle campagne della bassa parmense, Verdi ne scrive a Piroli: «i raccolti tutti sono quasi perduti. Gelsi perduti. Fieni quasi perduti: Frumento una semente o due al più. Melica nasce male e marcisce. Uva quasi niente. Quest'inverno sarà carestia e morte di fame. [...] Ed intanto il governo pensa ad aumentare le imposte, a far spese di guerre, a Strade Ferrate non di prima necessità col pretesto di dar lavoro alla gente? E' veramente uno scherno! Ma per Dio se avete milioni spendeteli a fare tutti i lavori ai fiumi prima che ci allaghino tutti!». Non una parola, non una concessione all'estetica ottocentesca della natura. Ogni dettaglio è letto in funzione delle sue conseguenze economiche: raccolti, gelsi, fieni, frumento, melica, uva sono segni, la loro distruzione ha un significato univoco e drammatico, la fame. Dietro le parole che Verdi scrive in questa occasione si intravedono in controluce le parole di decine e decine di cronisti che, da un secolo all'altro, continuano a leggere il paesaggio in relazione alle proprie necessità e che, se vedono una nuvola nel cielo, vedono pioggia, se sentono soffiare il vento pensano ai rami che si spezzano, ai frutti che vanno in malora o all'erba che «si corica».
E quando poi Verdi torna al suo mestiere (pensato come un mestiere, voluto e difeso come un mestiere) di musicista, sono ancora quello sguardo e quella parola a riaffiorare se, in uno scatto di umore, liquida la Musica dell'avvenire: «io presentemente - dichiara spavaldo ad Arrivabene - penso e penserò così anche l'anno venturo, che per fare una scarpa ci vuole del corame e delle pelli!. Che ti pare di questo stupido paragone che vuol dire che per fare un'opera bisogna avere in corpo primieramente della musica?!»

“il manifesto” 3 marzo 2001.

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