In un graffito dello Steri la disperazione di una vittima. "Sento freddo e caldo, mi ha preso la febbre terzana, mi tremano le budella, il cuore e l’anima mi diventano piccoli piccoli…’‘. |
Un fazzoletto annodato e ben nascosto sotto l'intonaco di una delle stanze che ospitarono i pianti, le sofferenze, le «urla senza suono» per dirla con Leonardo Sciascia, la disperazione dei «dannati» dell'Inquisizione torturati nelle celle di Palazzo Steri. Un fazzoletto annodato, come quelli posseduti dalle streghe che, nei duecento anni di vita del Tribunale religioso, sfilarono davanti ai giudici del carcere delle Penitenza invocando una clemenza che difficilmente sarebbe arrivata. Streghe, megere, guaritrici e preti guaritori, sottoposti al «giro di corda», capace di far confessare anche il male mai commesso. Un fazzoletto bianco che ha contenuto gli elementi più suggestivi della stregoneria: il sangue, i peli, strani aromi ormai sbiaditi dal tempo. A trovarlo sono stati i tecnici che per quattro anni si sono dedicati alla ricostruzione degli ambienti di questo palazzo dalla fama tristissima. Era nascosto dall'intonaco che, strato dopo strato, ha già restituito l'orrido quadro di quasi duecento anni di dolore e della crudeltà di un potere assoluto ben nascosto sotto la coltre della pietà religiosa.
Al prezioso reperto (l'unico oggetto trovato in quelle stanze cariche solo di disegni, graffiti e suggestioni) si è arrivati grazie alla irregolarità di un muro. Stava sotto lo strato di intonaco, prigioniero del tempo. Forse ha tenuto avvolti e celati, insieme con le reliquie delle streghe, i denti della donna (o dell'uomo) sopraffatti dagli stenti e dalle torture. E' facile, perciò, che, di fronte alla prima vera testimonianza di quel luogo stregato, possa aver fatto capolino la diffidenza irrazionale per l'occulto. E dunque la superstiziosa avversione per quel pezzo di stoffa, evitata dai più (persino dai restauratori), raccolta con tanta cautela fino ad impedire il contatto diretto ed ora depositata, come fonte di contagio, presso un laboratorio che nessuno vuol indicare. Le paure della mente, le ombre di un malocchio che prendono forma nei graffiti scolpiti con le mani difficilmente tengono conto del passar dei secoli, e così può accadere - come è accaduto spesso a chi è andato a rovistare nei luoghi magici del passato - di farsi prendere dalla suggestione. Così è nato il mistero del fazzoletto stregato.
Certo, il luogo alimenta le fantasie. Basta dare uno sguardo a tutto quello che è venuto fuori in quattro anni di ricerche. Quelle pareti spoglie sembravano contenere poche testimonianze, già scoperte e salvate da Giuseppe Pitré nel 1906. E invece c'era un universo incredibile, che una tecnica più moderna e raffinata del «piccone» di Pitré ha portato alla luce. Merito degli studiosi (Policarpo e Catalano) e del rettore, Giuseppe Silvestri, che ha voluto trasformare lo Steri da semplice sede di rappresentanza dell'Università a patrimonio storico da restituire alla città. Il carcere dell'Inquisizione, infatti, diventerà museo delle vittime dell'oppressione, dopo l'inaugurazione ufficiale, oggi, nell'ambito della terza edizione della manifestazione «Le vie dei tesori». Poesie, invocazioni, preghiere e imprecazioni, ritratti, carte geografiche, rappresentazioni di avvenimenti storici, come la battaglia di Lepanto, icona dello scontro fra la fede cristiana e l'islamismo. Tutto questo si può guardare sui muri dello Steri.
E oggi è stata trovata anche la scala che collegava le celle col palazzo vero e proprio, dove avvenivano gli interrogatori. Proprio sul ballatoio di quella scala si svolse l'omicidio descritto da Sciascia nella Morte dell'Inquisitore. Lì Fra' Diego La Matina colpì ferocemente, a colpi di spranga, il giudice Supremo Juan Lopez de Cisneros che gli estorceva l'abiura. Dal 1605 al 1782 uomini fedelissimi a Torquemada furono inviati in Sicilia per giudicare «In nome di Dio»: eretici, bestemmiatori, fattucchiere e più generalmente «amici del demonio»; ma spesso le vittime preferite erano studiosi, politici e intellettuali che non osservavano il pensiero della Chiesa cattolica.
Furono quasi seimila e cinquecento le sentenze emesse dal Tribunale per centinaia di autodafè: macabra scenografia riservata ai «rilasciati» (condannati) che, indossando il «sambenito» giallo (l'abito della colpevolezza), si avviavano ad ascoltare una sentenza che poteva anche portarli sul rogo, alla piana della Marina. Furono maghe e guaritrici, cosiddette «donne di fora», le più colpite, malgrado i moniti della «Suprema e generale Inquisizione» di Madrid che invitavano le autorità siciliane alla moderazione nei processi per stregoneria, spesso riservati anche a esorcisti, astrologi e chiromanti. E' forse per questo che si sono trovate tracce di donne messe sott'accusa e assolte per mancanza di prove, come Caterina Calandrino, Bitta La Russa e Vincenzia la Esquarchia, liberate dopo alcuni anni di detenzione. Le prime due incolpate perché curatrici di bambini, la terza perché si adoperava «nella ricerca dei tesori».
Ovviamente non venivano risparmiati neppure i cattolici, diciamo, «non organici» . E' il caso di Agueda Azzolini, adolescente siracusana ed appartenente a famiglia nobile, poi monaca (suor Gertrude di Gesu' e Maria), finita nelle carceri del Sant'Uffizio. La sua colpa consisteva nell'aver aderito al gruppo religioso che si riuniva nel cosiddetto «Fondaco dell'Abate», un giardino che ospitava il cenacolo di frati mistici (agostiniani) del convento di San Nicolò da Tolentino di via Maqueda, a Palermo. Il cenacolo non piaceva alla dottrina ufficiale che accusò la suora di prendere troppo spesso la comunione e di aver abbracciato e baciato i frati e le suore che si riunivano: comportamento sessualmente illecito. Non fu giudicato allo stesso modo il comportamento dell'amministratore del carcere, fra' Pedro Cicio, che la molestava e tentava di violentarla. La suora si salvò dalla violenza carnale perché difesa da una compagna di cella, la popolana Rosa la Jannusa. Ma non potrà sfuggire alla morte per stenti, come si intuisce dalle note spese del carcere che perdono i due tarì al giorno pagati dalla famiglia di Agueda per il mantenimento in cella.
Già, perché gli «incolpati» dovevano mantenersi in carcere e venivano spogliati di ogni bene. Sta forse qui la chiave per capire meglio il segreto di tanto successo dell'Inquisizione, che poteva condannare anche con una sola testimonianza e disponeva di un esercito di delatori. Ovviamente pagati.
“La Stampa” 09-10-2008
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