Dal sito della casa editrice minimum fax recupero una intervista di Giulia Bussotti a Stefano Liberti, giornalista del “manifesto” e autore del reportage Land grabbing, sulle appropriazioni di terra in molti paesi del Sud del mondo, una forma particolarmente insidiosa di nuovo colonialismo. (S.L.L.)
Stefano Liberti |
Nell’introduzione che apre il tuo libro racconti di quella volta in cui, seduto in un bar in riva al mare nell’isola di Zanzibar, hai intercettato la conversazione di quattro uomini bianchi coinvolti nel fenomeno del land grabbing, o che comunque discutevano sul prezzo delle terre in Africa. Riesci intanto a spiegarci che cosa significa land grabbing e perché nel sottotitolo parli di nuovo colonialismo? Poi, nel vero, come sei arrivato a questo tema? E a volerlo raccontare?
Il land grabbing, che letteralmente significa “accaparramento delle terre”, è un fenomeno che è andato sviluppandosi negli ultimi due o tre anni in tutto il Sud del mondo. Concretamente, si tratta dell’acquisizione o dell’affitto di vaste porzioni di terre arabili da parte di investitori stranieri. Dal 2008 in poi, decine di milioni di ettari sono passati di mano in vari paesi africani, asiatici o sudamericani. Una stima precisa è impossibile, dal momento che non esiste un data base di questi accordi e che molti di essi sono negoziati in segreto, tra l’investitore e il governo del paese interessato. Questi contratti non prevedono alcuna clausola: spesso concedono la terra senza nemmeno richiedere a quale scopo essa sarà usata, se per coltivare alimenti o colture da destinare ai cosiddetti agro-carburanti. E in molti casi si tratta di porzioni di migliaia di ettari, sconfinate, in cui per lo più si pratica la monocultura. Io parlo di nuovo colonialismo perché si tratta di uno sfruttamento indiretto di risorse appartenenti ad altri paesi, per lo più a ex colonie. Anche se credo sia importante sottolineare un punto: una buona parte di responsabilità di quanto sta accedendo ricade sui governi dei paesi coinvolti, che accettano di svendere le proprie terre in cambio di una vaga promessa di sviluppo – o, nel peggiore dei casi, di qualche bustarella. Come sono arrivato a questo tema? Ci sono arrivato a partire dall’osservazione sul terreno, da alcuni viaggi fatti soprattutto in paesi africani, in particolare in Etiopia e in Tanzania, dove ho visto come la terra era ceduta a gruppi stranieri, a sauditi e indiani nel primo caso e a europei nel secondo. Ho voluto così ricostruire tutta la filiera, per non descrivere solo le storie di coloro che si trovavano privati della terra, ma anche di coloro che erano dall’altra parte: gli investitori. Ho così incontrato i funzionari del Golfo preoccupati per la sovranità alimentare dei propri paesi, i responsabili di hedge fund o di private equity fund che promettono ritorni a due cifre ai loro investitori ma al contempo si credono gli alfieri di una nuova “rivoluzione verde” in Africa, cioè di un aumento della produttività di terreni che in effetti sono poco produttivi e soffrono di un assoluta mancanza di investimenti. Ho cercato di dare un quadro completo, andando ad ascoltare tutti, senza pregiudizi. Il che si è rivelato non solo molto interessante, ma anche decisamente istruttivo.
Nel capitolo in cui parli delle urgenze e delle politiche di outsourcing messe in atto dai Paesi del Golfo in accordo con i governi degli stati africani coinvolti nel land grabbing, apri una parentesi sull’assenza della Cina (ne parli in un paragrafo dal titolo parecchio evocativo: Il silenzio del dragone). La Cina, tu scrivi, conta il 20% della popolazione mondiale e solo il 7% della terra coltivabile. Perché, contro ogni previsione occidentale, il governo di Pechino non ha ancora messo in atto una politica di esternalizzazione della produzione agricola? Credi che lo farà presto? Come pensi si muoverà in questo assetto già in parte definito?
Nel corso delle ricerche per il mio libro, mi son reso conto che la questione era dominata da un falso mito. Ogni volta che parlavo dell’argomento, mi si diceva: sono i cinesi a prendere le terre. In realtà, i cinesi – che sono molto presenti in Africa, soprattutto nello sfruttamento delle materie prime e nella costruzione di infrastrutture – hanno una posizione molto defilata sulla questione delle terre. A differenza dei paesi del Golfo Persico, come Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi Uniti, Pechino non ha inaugurato una politica pubblica e ufficiale di esternalizzazione della produzione agricola. Non lo ha fatto per una serie di ragioni, la prima delle quali riguarda sicuramente la sua immagine nel mondo, e in particolare nel sud del mondo. Nello stringere accordi commerciali con i paesi africani, i dirigenti di Pechino hanno sempre fatto valere il loro status di paese emergente che è riuscito a imporsi come potenza mondiale. Hanno sempre sottolineato le loro differenze con le ex potenze colonizzatrici. Ora sanno benissimo che affittare terre per produrre alimenti per l’importazione da paesi che dipendono dagli aiuti internazionali per sfamare la propria popolazione (come è il caso dell’Etiopia) sarebbe una mossa che attirerebbe loro profonde critiche e guasterebbe la loro immagine. Poi, certo, la Cina ha un problema: la sua industrializzazione forsennata ha portato all’erosione delle terre arabili all’interno e l’ha fatto avvicinare pericolosamente al livello di guardia stabilito a suo tempo dal Partito, ossia 120 milioni di ettari di terra coltivabile. I dirigenti di Pechino si pongono il problema, ma non sono animati dalla stessa urgenza dei sauditi – o dei qatarioti – che la terra non ce l’hanno proprio.
Puoi spiegarci brevemente perché una politica come quella degli Stati Uniti di supporto ai biocarburanti (a quell’etanolo prodotto dalle coltivazioni a mais e da altre colture) rischia di far impennare il fenomeno del land grabbing e di portare alla fame buona parte del pianeta?
La politica di supporto ai biocarburanti sia degli Stati Uniti che dell’Unione Europea sta facendo aumentare le superfici destinate a colture per produrre carburante a scapito degli alimenti. I target fissati, come quello dell’Ue che prevede che dal 2020 il 10 per cento del trasporto su gomma dovrà essere alimentato da carburanti rinnovabili, hanno spinto molti a investire in questo settore. Io ho visto enormi piantagioni di jatropha, che è un seme da cui si può estrarre un olio che può alimentare i motori, in Tanzania: sorgono su terre in cui prima si coltivavano patate, ortaggi, cibo. Senza contare che con questi obiettivi vincolanti, l’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno alimentando la speculazione sui mercati finanziari, facendo ulteriormente aumentare i prezzi degli alimenti. In effetti, lo sviluppo dei biocarburanti è stato uno delle cause alla base della crisi alimentare del 2007-2008, quando i prezzi degli alimenti sono schizzati alle stelle, provocando rivolte in mezzo mondo. All’epoca, la conversione di molti campi nel Midwest statunitense (soprattutto nello Iowa e in Illinois) a mais per etanolo aveva fatto diminuire la disponibilità di altri prodotti, come il grano, facendone aumentare il valore alla Borsa di Chicago. Insieme ad altre cause congiunturali, come un pessimo raccolto in Europa Orientale e una carestia in Australia, si era venuta a creare la “tempesta perfetta”: i prezzi dei generi alimentari di base hanno subito un impennata, e in mezzo mondo ci sono state manifestazioni. Lo stesso sta avvenendo oggi: basti guardare alle rivolte in Nordafrica, soprattutto in Tunisia ed Egitto. Sono scoppiate inizialmente contro il carovita. In Tunisia, i primi manifestanti chiedevano la partenza di Ben Ali brandendo baguette e lamentandosi per l’aumento del prezzo del pane. Ecco, la crisi alimentare è un po’ il punto di partenza del land grabbing: perché all’epoca investitori del settore finanziario hanno capito che il cibo era la nuova gallina dalle uova d’oro. Hanno così cominciato a investire nei future sui prodotti alimentari di base, riso, mais, grano soia. Poi, come mi ha detto un trader alla Borsa di Chicago, hanno semplicemente fatto un calcolo banale: “se il valore dei prodotti alimentari cresce, tanto vale risalire alla fonte e comprarsi la terra”. Il che è puntualmente avvenuto dal 2008 in poi.
Il tuo è sì un reportage ma è anche, in certi punti molto precisi, un racconto. Quando finisci di leggere Land grabbing sembra di aver viaggiato intorno al globo con te e di aver visto i volti degli intervistati, dai caffè invasi da trader di fronte alla Borsa di Chicago alla calma piatta della valle scavata dall’Omo River. È nei tuoi intenti farci girare, credo. Quindi entrerei nella stanza di lavoro e ti chiederei in che modo il reportage diventa qualcosa in più dell’informazione nuda e cruda. Perché è importante per te scrivere dell’odore di un campo di barbabietole e del taglio di occhi di una persona che hai incontrato?
Io credo sia importante restituire le sensazioni che si vivono, i pensieri e anche i dubbi che attraversano il reporter nel corso della sua ricerca e del suo lavoro. Spesso quando si scrive un articolo di giornale si mettono solo le informazioni più essenziali, si deve fare un lavoro di sintesi molto serrato. La dimensione del reportage lungo, del libro, ti permette di recuperare tutto questo vissuto, di raccontare particolari, di cercare di trasportare il lettore con te. Con un paradosso: chi come me, è cresciuto all’interno di un giornale quotidiano, è spinto per forma mentis a una descrizione asciutta. Non è immediato capire che lo spazio è diverso, che il tempo della narrazione e della lettura è più dilatato. Bisogna cambiare completamente metodo di lavoro, sia sul campo che in fase di scrittura. Questo l’ho imparato già con il mio libro precedente, A Sud di Lampedusa: spesso volevo descrivere nel dettaglio delle persone, ma non le ricordavo bene. Non mi ricordavo come erano vestite, che faccia avevano. Perché sul mio taccuino avevo segnato solo i loro nomi e le frasi importanti che avevano detto. Nel corso delle ricerche per questo altro libro, ho lavorato in modo totalmente diverso. I miei appunti sono un susseguirsi di particolari visivi: i vestiti, il modo di ridere, lo sguardo dei miei interlocutori. E questo in fase di scrittura mi ha aiutato molto.
Il fenomeno del land grabbing si è spinto dal settore dell’agricoltura a quello finanziario, coinvolgendo fondi di investimento di vario tipo. Tra questi, anche alcuni fondi pensionistici, che investono in società di intermediazione create ad hoc per questo scopo, e che comprano direttamente la terra. Il che, in parole povere, significa che chiunque di noi stipuli una polizza pensionistica, finanzia, non del tutto consapevolmente, o quantomeno viene implicato nella corsa all’accaparramento delle terre nel Sud del mondo. Quindi ti chiedo, come può il singolo bloccare questo coinvolgimento involontario?
Il fenomeno è diffuso e coinvolge effettivamente anche fondi pensionistici dei paesi europei o del Nord America. È corretto quindi dire che il piccolo risparmiatore può inconsapevolmente partecipare alla corsa alle terre. L’unica cosa che il singolo può fare è chiedere conto al gestore del proprio fondo pensione dove investe il tale fondo, anche se non sempre è facile risalire a questi investimenti, perché spesso il fondo pensione acquista partecipazioni in altre società che poi investono direttamente nella terra.
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