17.7.12

Operai, contadini e cuochi. Una cooperativa (di Alessandro Monchiero)

Bombe nell’Adriatico e galline padovane, missili e polenta di mais biancoperla: con Galdino Zara, chef de La Ragnatela di Mirano (una ventina di chilometri a nord di Venezia) le chiacchierate non sono mai banali. Così come la sua osteria, che proprio “sua” non è, essendo espressione di una cooperativa di ex operai nata nel 1984.
“Allora eravamo in quindici, tutti stanchi della vita di fabbrica e con il sogno di costruire un tipo di lavoro diverso, più democratico, senza padroni e lasciandoci il tempo necessario per dedicarci alla nostra vita. Visto che la maggioranza dei soci era femminile decidemmo di chiamarci La Ragnatela per solidarietà all’omonima associazione di donne che si batteva, a Comiso, contro l’istallazione dei missili Cruise”.
Partì così, con “Il manifesto” come unico giornale ammesso nel bar e perfino qualche copia della Pravda sui tavolini, quella che è oggi una delle migliori osterie italiane: “La professionalità venne dopo, con viaggi, corsi, stage, frequentando Slow Food fin dalla prima ora. All’inizio cucinavamo per una combriccola di amici e di giovani con pochi soldi in tasca i piatti tradizionali veneziani che si mangiavano nelle nostre case, con un occhio particolare per il biologico”. Di allora è rimasto lo spirito, l’equità dei ruoli e dello stipendio fra tutti i soci della cooperativa, le foto di Che Guevara e di Lenin in cucina, anche se la clientela si è ampliata, diventando la più eterogenea possibile, per età, censo ed esigenze: “L’abbiamo sempre considerata una nostra ricchezza. A mezzogiorno è il turno degli operai, che mangiano con dieci euro. All’una arrivano gli impiegati e alla sera abbiamo i
clienti à la carte, quelli delle moeche e del piccione farcito di foie gras. Che magari salutano con la battuta: complimenti! Peccato che siete comunisti”.
La Ragnatela, oggi, è una vetrina dei migliori prodotti tradizionali veneti, dai Presìdi come l’oca in onto o l’agnello di Alpago alle piccole produzioni degli amici del contado. Cibi che si gustano nel piatto, che spesso si possono acquistare per cucinare a casa (quelli confezionati, come farine e risi, ma talvolta anche qualche pennuto), sempre superando le più disparate difficoltà di approvvigionamento, di burocrazia e non solo: “Credo molto al ruolo di noi ristoratori per sostenere l’agricoltura di qualità, anche se i problemi non mancano mai. Dalle norme iper-igieniste favorevoli all’industria, come l’Haccp, che m’impedisce di acquistare un sacchetto di uova dal contadino amico (lui però continua a portarmele, come faccio a dirgli di no? Finisce che prendo il sacchetto e me lo porto a casa) allo schizofrenico caso dell’ottima cipolla di Chioggia, che dal mio fruttivendolo non trovo; finiscono altrove, a centinaia di chilometri e mai sui mercati locali. Mi tocca andare fino a Chioggia per acquistarle, oppure a Verona, a Milano”.
Poi ci sono casi ancora più particolari, come quello delle sarde. “La laguna di Venezia e l’alto Adriatico mi forniscono buoni prodotti ma qualche anno fa mi furono interdetti. Già, perché i bombardieri americani di ritorno dalla Serbia scaricavano le loro bombette nel nostro mare. Non che avessimo bisogno di ulteriori ragioni per non farci piacere la guerra, ma insomma fra i danni collaterali mettiamoci pure questo”.
Altre volte, invece, il ruolo dell’osteria “gemellata” all’agricoltura dà risultati immediati e sorprendenti. “La gallina padovana è uno dei presìdi al quale sono più affezionato”, confessa Galdino. “Abbiamo scelto una comunicazione ‘sul campo’ per farla conoscere. Non siamo andati in tv, non abbiamo fatto spot pubblicitari. L’abbiamo portata in giro, l’abbiamo cucinata in ogni angolo di Veneto e d’Italia. E oggi, a dimostrazione della valenza di queste micro-economie, anche il Sole 24 Ore attesta l’incremento numerico, economico ed occupazionale di questo segmento produttivo. Era a rischio di estinzione e oggi è un prodotto conosciuto e in espansione”.
Infine Terra Madre, la manifestazione torinese dello scorso anno che si ripeterà nel 2006, con l’aggiunta – ai 5000 produttori di cibo – di mille cuochi che adotteranno idealmente le comunità del cibo.“Ho sempre pensato che un mondo diverso fosse possibile ma per la prima volta, durante Terra Madre, ho respirato un’aria di autentico cambiamento. Vedere produttori di diverse lingue che riuscivano a comunicare fra di loro, che si scambiavano esperienze e soluzioni su problemi analoghi, che si gratificavano a vicenda sull’importanza del loro lavoro. Ecco, io non so esattamente cosa potrò fare per loro come cuoco, se potrò aiutarli, se potrò inserire qualche loro prodotto nella mia carta… ma so cos’hanno dato loro a me. Mi hanno convinto che quel che facciamo, difendendo le piccole produzioni locali, in qualche modo si riverbera sul pianeta in termini di equità sociale; che altri cuochi e contadini stanno facendo lo stesso nostro percorso; e che finalmente queste persone hanno intessuto una rete di comunicazione che funziona, che crescerà, che crea una concreta alternativa al circuito sciacallo delle multinazionali”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Quanti ricordi.
Grazie della citazione, ciao.
Alessandro Monchiero

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