Un autore dalla
personalità polimorfa, complessa e contraddittoria. Le fonti lo
tramandano mago, alchimista, avvocato, scienziato. E ancora filosofo
platonico, sacerdote del dio Asclepio e di culti misterici,
appassionato di occulto, esoterismo e riti iniziatici come quelli di
Eleusi, Mitra, Iside. Nato verso il 125 d.C. a Madauro, nell’odierna
Algeria, da famiglia benestante, Apuleio studiò a Cartagine e ad
Atene. Si vantava di conoscere a fondo ogni artificio retorico e di
padroneggiare con virtuosismo il greco e il latino. Per il resto
poche e incerte sono le notizie sulla vita di uno scrittore che fu il
personaggio più poliedrico dell’età degli Antonini. Di lui più
nulla sappiamo dopo il 170.
Apuleio esercitò un
naturale fascino sull’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale.
La sua opera maggiore, le Metamorfosi, divisa in undici libri,
è l’unica testimonianza pervenuta intera di un romanzo antico in
lingua latina, la cui diffusione si deve a Boccaccio, che ritrovò il
codice e ne fece una trascrizione. Il titolo nei manoscritti è
Metamorphoseon libri XI, ma l’opera è conosciuta anche come
Asinus aureus, così indicata da sant’Agostino nel De
civitate Dei (XVIII 18). La storia delle eccezionali avventure di
un uomo trasformatosi in asino non è un’invenzione di Apuleio. La
trama deriva da un modello greco di Lucio di Patre, opera che non ci
è giunta, ripresa in modo sintetico da Luciano di Samòsata,
poligrafo coevo di Apuleio, che scrisse in greco Lucio o l’asino.
L’originalità
dell’autore latino consiste nel fatto di essere riuscito a
rielaborare materiali preesistenti, assegnando significati mistici,
metafisici e simbolici autoctoni, che cambiano radicalmente la
struttura e gli intenti della narrazione. Non solo puro
intrattenimento. Vi è sottesa una progettualità geniale, che riesce
a unificare una folla di racconti popolareschi, passionali, erotici,
iniziatici. Sullo sfondo dell’odissea di un uomo-asino, Apuleio
crea il libro nel libro, mettendo al centro dell’opera la celebre
Favola di Amore e Psiche, una narrazione interna in forma di
apologo, che occupa i libri IV, V e VI e rispecchia fedelmente
l’andamento del romanzo.
Il mito, che unisce
l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una
caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite,
rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che
la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è
così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio
Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più
brutto della terra.
Ma Amore s’innamora di
Psiche. La trasporta nel suo palazzo, dove ogni notte il dio,
invisibile al buio, a lei si unisce. Vedere il viso del misterioso
amante, però, romperebbe l’incantesimo. Spinta dalla curiositas,
la stessa che nella trama generale delle Metamorfosi
«costringe» Lucio a provare l’unguento magico che invece lo
trasforma in asino, Psiche decide di conoscere Amore, illuminandolo
con una lucerna. Si punge con una saetta presa dalla faretra del dio
e, perciò, s’innamora perdutamente. Tuttavia, una stilla d’olio
cade sul corpo di Amore, svegliandolo. L’incantesimo è finito, il
dio fugge e Psiche, disperata, si mette alla sua ricerca. Seguono
peripezie e terribili prove da superare, congegnate dalla gelosissima
Venere. Alla fine Amore sposa Psiche, ottenendo per lei da Giove
l’immortalità. Dalla loro unione nasce la figlia Voluttà.
La storia
dell’interpretazione allegorica è plurisecolare. Il racconto ha un
iter travagliato: una sequela di cadute, riscatti, dolori, piaceri
spirituali dell’Anima umana. Giace sotto ogni evento il pensiero
platonico, nella favola come nell’intero romanzo. La vicenda di
Amore e Psiche, così ben colta nel capolavoro scultoreo neoclassico
di Canova, è incentrata sul destino dell’Anima, che, per aver
commesso il peccato di hybris, vale a dire «tracotanza»,
tentando di penetrare un mistero che non le era consentito svelare, è
costretta a scontare la propria colpa con umiliazioni e affanni di
ogni genere, prima di essere degna di ricongiungersi al dio. Lo stile
di Apuleio è denso di frequenti neologismi, rarità lessicali,
giochi di parole, arcaismi, di toni ironici, patetici, delicati, di
estrema tenerezza come nell’episodio della deflorazione di Psiche.
Corriere della Sera,
14.06.2012
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