Uno scritto “illuministico” contro
i fondamentalismi etici, cioè contro i tentativi, religiosi o
filosofici, di dare all'etica un fondamento fattuale, oggettivo. Nel
campo dei valori non si dà scienza, ma scelta. Siamo noi i signori
del bene e del male: il nostro dovere di uomini, come il nostro
destino, non sta scritto da nessuna parte. (S.L.L.)
Joseph Ratzinger, il papa emerito |
Se il New realism si limitasse a
rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci
sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di
una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero
debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi
e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo
Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto
di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità)
degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una
divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di
valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E
invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di
Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è
intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa
l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre
valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori
possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore
nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli
esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria
anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti (il bosone di Higgs,
per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici»
e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo
a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è
proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti
empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi
umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente
relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam
sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore
(p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi).
Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o
sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi
normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il
signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo
comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente
cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto
l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più
«impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa
seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in
modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai
valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia.
Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model
Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse
isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo
padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito
attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per
Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine» per due o
tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e
ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i
«malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti
accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco,
poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non
sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che
mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuori umani. Della
specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè)
tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà
di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori
della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o
falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è
esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra
responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro
cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori
«oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del
bene e del male» secondo scelte incompatibili (aut la democrazia aut
la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma
di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è
ineludibile.
“La Stampa”, 11 dicembre 2012
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