Sulla funzione
formativa
della cultura umanistica
Gela 1972. La II C del Liceo Classico "Eschilo" con insegnanti, bidelli e preside nella vecchia sede del Palazzo Pignatelli-Aragona |
Mentre in Italia le mura
della vera Pompei si sbriciolano, il British Museum organizza a
Londra una mostra virtuale sulla città vesuviana, e richiama là
visitatori di tutto il mondo.
Riluce la grande
sala
Marmàirei de mega
domos, riluce la grande sala… I versi di Alceo risuonano
nell’aria, i ragazzi in straordinario ascolto, per un attimo il
fiato pare sospeso. Suggestiona quella sequenza sillabica, pare quasi
un’onomatopea; sposta la mente fuori dall’aula, lontano, verso lo
scintillio del mare di Lesbo…: un viaggio nel tempo, nello spazio.
Ora di letteratura greca,
in un liceo classico. Qui il percorso di studi comporta, tra le altre
materie, la conoscenza del latino e del greco antico: non sono lingue
che servono a comunicare con i vicini; la strada che esse aprono è
un dialogo diverso, con se stessi, e con gli antichi; qui ci si
sofferma a ragionare sul modo con cui gli avi degli avi hanno dato
forma all’attività del pensiero e della parola. E’ una
formazione, quella umanistico-classica, che all’estero ammirano e
invidiano.
Eppure, negli ultimi due
anni, in coincidenza con la crisi economica mondiale di cui soffre
anche l’Italia, le iscrizioni di alunni al liceo classico hanno
subito un drastico ridimensionamento: in numerosi istituti scolastici
questo indirizzo di studi è stato chiuso e il numero totale degli
iscritti al classico è tornato alle percentuali di un tempo, circa
il 4%, dopo una parentesi di espansione determinata da altre riforme
scolastiche che in passato avevano fatto paventare la dequalifica
dell’istruzione superiore.
In realtà, l’attuale
sfiducia nella formazione umanistica è stata avallata da una
campagna mediatica che, sostenuta da dichiarazioni ministeriali, ha
puntato sulla inutilità di un percorso scolastico che dedica diverse
ore a studiare “lingue che non servono“, e che coltiva interessi
elitari; ad esso si è contrapposta la facile spendibilità di una
formazione scolastica che orienti soprattutto verso “il fare“,
con la diffusione dell’elogio dei percorsi formativi
tecnico-scientifici e dello studio delle lingue straniere
contemporanee.
Lo smantellamento
del liceo classico
All’origine di questo
sbilanciamento in favore della formazione tecnico-scientifica ci sono
state motivazioni economiche (tagli agli investimenti “non
produttivi“) e i richiami da Bruxelles perché si correggessero le
apparenti storture di un sistema scolastico che non consente di
sfornare in tempi rapidi un numero di diplomati adeguato al mercato
del lavoro.
In effetti, la necessità
di adeguarsi agli standard europei venne assunta sin dal 2000 dal
ministro Berlinguer, ripresa poi con abrogazioni e modifiche dal
ministro Moratti nel 2003, quindi si è definitivamente realizzata
nel 2009 con la riforma Gelmini: ma si è operato, in quest’ultimo
caso, con un intervento di facciata, volto soprattutto ad operare
tagli alla spesa pubblica.
L’ordinamento liceale
ne ha pagato vistose conseguenze.
Nel 2010 la
riorganizzazione scolastica superiore venne accompagnata dalle
“Indicazioni Nazionali per costruire i Nuovi Licei“: ma, per
quanto fosse operazione attesa e necessaria, al motto di “più
scienza e meno letteratura“, nei licei viene fatta una
redistribuzione del totale di ore destinate agli insegnamenti di area
scientifica e allo studio delle lingue straniere, associata ad una
riduzione aritmetica – priva cioè di una motivazione sensata e di
attenzione verso il reale impatto educativo e culturale
dell’iniziativa – del numero di ore destinate allo studio della
lingua italiana, della storia e geografia, del latino.
Anche l’orario di
servizio degli insegnanti di scuola superiore è stato modificato e
portato a 18 ore di lavoro in classe per tutti, ma questa operazione
ha fatto saltare, sul piano amministrativo, l’esiguo margine di ore
a disposizione per gestire le supplenze brevi, mentre sul piano
didattico ha creato un impossibile equilibrio nel sistema che in
precedenza regolava l’insegnamento di materie affini e per tale
ragione affidate ad un unico docente su unica classe: ne hanno fatto
le spese, nel liceo classico, le cattedre di materie umanistiche,
spezzettate fra più docenti per un’unica classe di alunni, e nel
liceo scientifico gli insegnamenti di matematica e fisica, assegnati
a docenti diversi su unica classe. E a causa delle ore di docenza
così disposte diventa difficile anche garantire la progettazione del
consiglio di classe e la continuità didattica.
A proposito della
problematica gestione dell’orario di lavoro e dell’assegnazione
dei docenti alle classi e agli insegnamenti, si è fatto promotore di
un’iniziativa di protesta un gruppo di docenti del liceo Classico
Berchet di Milano, con l’appoggio anche di colleghi di altre
scuole, con un appello al ministro della passata legislatura Maria
Grazia Carrozza. In esso si chiedeva l’avvio di una valutazione
degli effetti didattici della riforma del 2009, anche alla luce dei
guasti pedagogici derivati da un’insensata distribuzione degli
orari interni agli insegnamenti. Ovviamente, dal Ministro non ci fu
alcuna risposta.
E’ però interessante
la notizia che il Tar del Lazio, con la sentenza 3527/2013, ha
annullato i provvedimenti presi nel 2010 dagli ex ministri
dell’Istruzione e dell’Economia circa l’organizzazione oraria
degli istituti tecnici, il cui monte ore era stato decurtato del 20%:
nella sentenza il giudice sottolinea il “danno degli alunni traditi
nel loro diritto alla continuità educativa e costretti a patire la
provvisorietà e la precarietà di provvedimenti che appaiono
estranei alla funzione istituzionale della scuola ed alle attese
della società civile e del mercato del lavoro“.
Di recente, il furor dei
tagli e dell’adeguamento dei nostri standard al resto d’Europa ha
introdotto nella discussione anche l’idea di una possibile
riduzione della durata degli studi liceali, da cinque anni a quattro;
e non si può non ascrivere al medesimo pensiero (“tagliare ciò
che non rende subito“) l’idea della settimana scolastica ridotta
per tutti a cinque giorni (si risparmierebbe sui costi del
riscaldamento, si favorirebbero i weekend di svago, ne trarrebbe
giovamento l’economia nazionale, etc etc).
Insomma, l’idea che si
può cogliere da questa somma di operazioni, è che la scuola
italiana venga considerata un peso dai nostri governanti, e non una
risorsa, quale invece essa è.
Il liceo classico, in
particolare, sta facendo le spese di una dissennata confusione
attorno all’idea di “utile“: ma utile per che cosa?
La funzione
formativa dell’istruzione classica
Studiare il mondo antico
vuol dire affrontare il tema della comunicazione sin dai suoi albori:
il racconto delle storie e dei miti; l’invenzione della
comunicazione poetica e di quella persuasiva; il modo in cui si
organizza la memoria di un popolo e di come questa si modella nelle
generazioni a seguire.
Il latino e il greco
antico non sono lingue che servono a comunicare, bensì offrono dei
saperi tecnici per poter “abitare” le culture di cui sono
espressione: è uno studio linguistico che offre la possibilità di
interrogare interlocutori silenziosi che continuano a dialogare con
noi attraverso i testi, i monumenti, i modelli culturali che ci hanno
lasciato.
E’ un esercizio di
investigazione sulle possibilità comunicative che un determinato
testo, collocato in una determinata situazione, rapportato a
determinati parametri di contesto, poteva significare; lo studio
delle lingue classiche abitua ad uno studio “riflessivo“, fondato
cioè sull’attitudine al pensare prima di agire e sulla valutazione
preventiva delle cause e degli effetti.
Questo tipo di studi, che
abitua a comprendere il funzionamento delle cose attraverso la
riflessione sul funzionamento della lingua e dei suoi prodotti – le
letterature e i pensieri – predispone a diventare esploratori del
pensiero e dell’espressione umana.
Accontentarsi di far
leggere i testi in traduzione italiana, ignorando la lingua
originale, vuol dire rinunciare all’esercizio di ascolto, analisi,
decodifica, risemantizzazione di un documento; vuol dire ridurre la
possibilità di educare al confronto con il diverso e con il lontano
da sé; che è poi educare alla coscienza critica.
Diversamente dal metodo
di studio usato per le lingue contemporanee, quello usato per le
lingue antiche consente di osservare da vicino il meccanismo di
formazione e funzionamento del sistema linguistico e del pensiero di
cui esso è espressione e, poiché nel passaggio dai significanti ai
significati si combinano tra loro dati certi, dati ipotetici e dati
ignoti, l’attività di studio delle lingue antiche richiede e
sviluppa procedure di tipo scientifico e di tipo strategico (analizzo
i dati e li organizzo in virtù di una meta da raggiungere, ovvero la
traduzione e la comprensione del testo, alla luce di un contesto di
riferimento).
In altre parole, la meta
di studio di queste lingue non consiste in scopi pratici e immediati,
ma nell’acquisizione di strumenti che consentono di fare
“esperienza” del vissuto delle parole e dei loro referenti, è
un’esperienza dentro al laboratorio delle connessioni tra segni e
significanti; è un’esperienza del lavoro che può compiere, nel
tempo, la nostra – umana – capacità creativa. Quindi, lingue
moderne e lingue antiche assolvono a compiti formativi diversi e il
porle in antagonismo non risponde a una corretta ratio educativa.
Il latino e il greco,
poiché richiedono un metodo di studio scientifico e lavorano su
contenuti letterari, offrono una formazione ricca, complessa e
versatile. Per questa ragione la formazione data dalle humanae
litterae può offrire la miglior cassetta degli attrezzi a un
futuro dalle professioni incerte e… ancora da inventare, ma
soprattutto per quelle professioni che abbiano come interlocutori gli
esseri umani nella loro interezza e nella loro condizione di essere
abitanti del mondo, il quale è un sistema complesso; per quelle
professioni che, occupandosi di individui che stanno nel mondo,
debbano muoversi lungo il labile confine che separa tra loro la
conoscenza della macchina dalla conoscenza di chi ne sarà il
fruitore.
Argomenti che
premono al cuore adolescente
Vi è poi, nella
formazione classica, un aspetto squisitamente pedagogico: la
possibilità di comprendere i testi della tradizione letteraria
antica sin nel loro codice espressivo, consente di affrontarne con
singolare consapevolezza i contenuti e le grandi questioni
esistenziali che essi pongono; e sono proprio questi gli argomenti
che premono al cuore adolescente.
Mito, Verità, Giustizia,
Amore…: sono grandi temi che chiedono, prima ancora di risposte, la
possibilità di essere scandagliati ed esplorati nella ricchezza
delle loro sfumature. Nei nostri ragazzi, invece, ciò che sempre è
più debole e fragile, è la conoscenza delle parole, del loro
significato e della loro ricchezza semantica; dobbiamo invece
consentire loro il possesso delle parole (conoscerle, percepirne il
peso), perché con esso si fornisce l’accesso ai meandri della vita
e al loro racconto…
Poter dare un nome alle
emozioni, alle “cose” che si conoscono, è anche una medicina per
tempi difficili, in cui l’incapacità di descrivere e di spiegare –
figlia della povertà del sapere – si traduce in gesti irruenti e
aggressivi: senza la conoscenza delle parole (per numero, per
spessore di significato) si comunica solo con la forza dell’urlo e
del gesto prevaricante.
Voglio soffermarmi su un
altro aspetto della formazione liceale, la durata e la qualità del
“tempo scuola“: il tempo della formazione e della crescita non
possono coincidere con quello del tempo lavoro: mentre quest’ultimo
è calibrato sulla necessità di produrre un qualcosa di finito,
riproducibile, usabile, spendibile, il tempo destinato alla
formazione serve a creare e coltivare cultura.
Nella formazione liceale,
il “laboratorio” è costituito dal tempo che si dedica alla
comprensione degli oggetti di studio: ovvero, si fa laboratorio sì,
ma non per realizzare un prodotto finito, bensì per addestrare la
mente a compiere ragionamenti astratti e per farli assumere come
filtro per interpretare il mondo: ovvero, per modificare in modo
“colto” il proprio stare al mondo. E la cultura, proprio come
avviene nell’operazione di semina e crescita di una pianta,
richiede cura, nutrimento, tempo, attenzione.
Dovrebbero essere questi
i cardini su cui innestare i principi della formazione scolastica di
qualità. Diversamente, si fa in-formazione, o meglio, formattazione:
si addestra al come fare e non al capire e a ragionare in autonomia
di giudizio, come pur richiesto dalle ministeriali “competenze di
cittadinanza“.
Quindi l’idea di
ridurre il tempo scuola a tempi che sono di pura sintonia con
interessi produttivi e non educativi è antipedagogica e favorisce
solo la conservazione del potere di quei pochi che già lo detengono.
Un patrimonio
culturale per il riscatto civile e sociale
Merita di essere
segnalata l’interessante esperienza narrata da Augustin d’Humières
in I figli dell’ultimo banco (PiemmeVoci, 2011).
L’autore, in qualità
di insegnante di greco antico in una scuola della banlieu parigina,
si adopera, con alterne vicende, per motivare classi di studenti
immigrati allo studio di una lingua che potrà riscattarli dalla loro
condizione di subalterni ed emarginati. La scuola, che sorge in un
contesto urbano e sociale di grande deprivazione, per far fronte
all’alto tasso di abbandono scolastico e alla diffusa
demotivazione, ricorre a strategie compiacenti: prima con
l’alleggerimento dei criteri per la promozione, poi con il
riorientare gli studenti verso indirizzi di studio più facili, i
cosiddetti corsi tecnologici, attivati all’interno dello stesso
istituto.
Nel fare i conti con un
sistema di istruzione che misura i risultati dal numero degli
iscritti – si aumentano le iscrizioni con l’attivazione di corsi
più facili – e in base al numero di promossi – basta non far
svolgere compiti difficili – il giovane professore francese si
ingegna e si spende personalmente nella difesa di un patrimonio
culturale unico e che offre potenzialità di riscatto civile e
sociale. Il racconto autobiografico si conclude con una bella
intervista a Jaqueline de Romilly, prima donna ad ottenere la
cattedra di letteratura greca nel Collège de France.
Sia ben chiaro: se
sostengo con forza il valore della formazione umanistica, non nego la
necessità di affinarne la componente scientifica. Anzi, ben venga
più matematica, ma non meno italiano!
Credo che ragazze e
ragazzi dotati di sensibilità intellettiva, di curiosità, di
propensione al ragionamento vadano premiati e meritino ancora di
essere indirizzati a una formazione classico-umanistica.
Spesso invece i genitori,
nella scelta di studi per i propri figli, sono spaventati dall’idea
della sofferenza che possa derivare ai propri figli da studi
difficili. Credo che siano paure nate dal timore di dover far fronte
al fatto che un figlio possa non capire, possa faticare
“inutilmente“.
Ma la difficoltà dello
studio del latino e greco consiste nel confrontarsi con modalità di
lavoro non banali, non scontate; se qualche insegnante ha provocato
disamore, il problema non è della “trama“, ma del “cattivo
attore“.
Al Governo c’è da
chiedere diversa attenzione alla scuola e alla formazione degli
insegnanti: non c’è argomento troppo difficile da non poter essere
trasmesso, se un insegnante è sostenuto, formato, riconosciuto e
motivato.
Dal sito “La poesia e
lo spirito”, aprile 2014
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