Museo del Louvre. Atalanta |
La rivoluzione femminile
degli ultimi anni ha stimolato negli studiosi un vivo interesse per
le donne del passato. Si pubblicano atti di processi, analisi
particolareggiate sulla posizione giuridica, le condizioni di vita, i
costumi femminili nei secoli; storici, antropologi, sociologi portano
il loro contributo ad analisi sottili e rigorose. Per quel che
riguarda il mondo antico, mentre Ida Magli ed Eva Cantarella negano
che il matriarcato sia mai esistito, Claude Calame nell' 83, nella
raccolta di varii autori intitolata L'amore in Grecia
(Laterza), come Robert Flacelière nel quadro della Vita
quotidiana in Grecia al tempo di Pericle (Rizzoli), naturalmente
si sofferma sull'esistenza chiusa e segregata della donna; e
recentemente, Einaudi ha pubblicato la traduzione di un libro di
Kenneth J. Dover, L'omosessualità in Grecia (pagg. 248, lire
35.000: su queste pagine ne parlò Stefano Malatesta in occasione
della pubblicazione in lingua inglese), nel quale, più brevemente
che di quella maschile, apertamente praticata, si parla
dell'omosessualità femminile, divenuta famosa - forse a torto e per
un'interpretazione tardiva - a proposito di Saffo.
Attraverso questi scritti
ci eravamo fatti l'idea, confortata da quel che s'era letto al liceo,
che nel paese dal quale il mondo ha ricevuto gli elementi
fondamentali del pensiero, la donna, reclusa nel gineceo, adibita
solo al lavoro domestico e alla procreazione, fosse tenuta al rango
dello schiavo; gli uomini, cittadini di pieno diritto, gli inventori
della democrazia, s'erano creati un'immagine deteriore della donna,
per giustificare la stridente disparità; si esponeva la neonata, si
vendeva la fanciulla ai lenoni, si uccideva impunemente il suo
complice, in caso di adulterio. E' superfluo citare la battuta
notissima di Demostene: "Abbiamo la prostituta per il piacere,
la concubina per le cure quotidiane, la moglie per la cura della casa
e per la procreazione". Il concetto è identico nel mondo
romano, dove della sposa defunta le iscrizioni sepolcrali elogiano la
castità, ma soprattutto le doti di accorta amministratrice del
patrimonio (conservatrix); la formula stereotipa dipinge lo
scorrere dei giorni e degli anni della matrona onorata: domi
mansit, lanam fecit, rimase in casa, filò la lana.
Al marito greco, che
confinava nell'ala appartata della casa la sposa quattordicenne (che
non usciva neppure per le spese, non prendeva i pasti con il marito,
non partecipava a nessuna festività pubblica) restava tutto il tempo
per dedicarsi alla politica, frequentare le assemblee, i tribunali,
il teatro, le cerimonie religiose, i banchetti, in compagnia d'una
etèra, donna di facili costumi, colta ed elegante - tale era
Aspasia, la compagna di Pericle - una che si poteva portare in
società senza sfigurare. Gli era anche lecito frequentare un
adolescente - pratica corrente - a giudicare dalle immagini
frequentissime sulla ceramica e, tanto per citare un esempio a noi
vicino, dal soggetto degli affreschi di Paestum contenuti all'
interno della Tomba del Tuffatore. Tale rapporto era ammesso purché
non mercenario e giustificato dal fine educativo, così come presso
le donne - ad esempio le fanciulle spartane - era visto come utile
iniziazione sessuale.
La segregazione della
donna è logica conseguenza del giudizio negativo che la colpisce fin
dalle origini: come Eva indusse Adamo al peccato, così Pandora aprì
il vaso colmo di tutte le sventure e le lasciò sfuggire.
L'immaginario dei greci è popolato da figure femminili orrende: le
Gorgoni, le Erinni, le Arpìe, le Sirene, Scilla e Cariddi, la
Medusa, la Moira. Sono femminili, come ha osservato Jean-Paul
Vernant, le Chere di morte, che portano via il cadavere con mani
adunche, mentre è maschile la bella morte dell' eroe, il Tànatos,
che lo raccoglie sul campo e lo trasporta sulle sue ali. Se ci
chiediamo a quali modelli si siano ispirati i tragici per creare
figure di abnegazione mirabile come Alcesti, di intensa passionalità
come Medea, di altissima coscienza morale come Antigone, bisogna
tener conto che esse apparivano sulla scena altissime, con maschera e
coturni, fuori della dimensione umana. Appartenevano al mito, e la
loro condotta era ispirata all'eccesso - la deprecata ibris -
che la società greca, dominata da un'istanza di ordine e di
razionalità, respingeva.
Ma ecco che le nostre
convinzioni vacillano. Una nuova raccolta di autori illustri, a cura
di Giampiera Arrigoni (Le donne in Grecia, Laterza, pagg. 447,
lire 36.000) presenta figure femminili viste nelle varie fasi della
loro esistenza e appartenenti a diverse categorie, presenti a fianco
degli uomini o addirittura in competizione con essi. "Anche per
le città greche, definite club d'hommes, la coppia donna/uomo è più
complementare di quanto certe analisi a vocazione vittimistica
abbiano voluto farci credere": questo è l' assunto della
studiosa. Come per dire: le femministe non vengano a citare la donna
greca come caso esemplare dell'oppressione maschile e testimone
d'accusa. Per la verità, le donne prese in esame rappresentano, fin
dai tempi più antichi, dei casi eccezionali: le madri degli eroi per
Esiodo, quelle capaci di atti eroici per Plutarco. Nel volume
dell'Arrigoni, la documentazione ha esplorato epica, tragedia,
commedia, iconografia, epigrafia, oratoria; ma le donne sono viste in
momenti particolari dell'esistenza - le nozze o le esequie - o quando
sono investite di mansioni speciali: prostitute, etère,
sacerdotesse, atlete e infine, ormai libere dalla stretta
sorveglianza, le anziane.
Le prime sono libere per
definizione: la prostituzione era un mestiere squalificato ma non un
reato; anzi si attribuisce addirittura a Solone l'istituzione dei
bordelli. Possedevano e praticavano le arti del mestiere, la "technè"
della sfrontatezza: movenze provocanti, trucco vistoso, vesti
trasparenti, riso sguaiato, frizzi osceni; allietavano i banchetti
suonando il flauto e le nacchere, danzavano seminude e si adattavano
a prestazioni d'ogni genere. Le sacerdotesse erano una categoria di
grande prestigio. Abitavano nel tempio di una dea, Artemide a
Magnesia, Demetra ad Eleusi, Atena Poliade ad Atene, Hera ad Argo; ma
servivano anche divinità maschili (Dioniso ad Atene, Eracle in
Beozia). Erano vergini, tranne le jerodule di Afrodite, che si
prostituivano a profitto del santuario o della città. A Delfi,
l'autorità massima era la sacerdotessa di Apollo, la Pizia, emotiva
- forse drogata - che, invasata dal dio, emetteva i suoi ambigui
oracoli. Ve n'erano preposte al culto delle dèe protettrici della
fecondità; e infine le seguaci di Dioniso - Menadi, Baccanti - si
sottraevano alla monotonia della vita domestica a intervalli biennali
per fuggire sui monti e abbandonarsi a danze frenetiche e convulse,
che si concludevano con un pasto di brani sanguinolenti d' un animale
- o d'un uomo - dilaniato. Isteria collettiva, trance, estasi
mistica, evasione scatenata, follia, libero sfogo di aggressività
repressa e di frustrazioni accumulate? Ad onta delle varie
interpretazioni, sussiste il mistero sul significato di quel rituale
selvaggio; ma è certo che, come le mistiche del Medioevo, quelle
donne esaltate erano in numero limitato. Più consistente la presenza
delle fanciulle nelle gare sportive. Le vediamo prendere parte a
corride negli affreschi di Creta, in corsa con minigonne aperte ai
lati in varie sculture; forse erano dedite anche all'equitazione o
alla caccia, come sembrerebbero indicare i miti di Atalanta, di
Artemide o delle Amazzoni. Restano infine, non più esposte a
tentazioni né a seduzione, le vecchie. Certo, in casa erano addette
alla cura dei bambini, dei malati, del guardaroba; ma la commedia le
presenta generalmente come avide megère, mezzane, ubriacone. Una
versione amaramente derisoria: concluse le sue funzioni nella società
- il piacere e la procreazione - la donna-oggetto non serve più.
Come dice un proverbio romano: "la donna de quarant'anni -
buttala a fiume co' tutti li panni".
la Repubblica, 29
dicembre 1985
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