Trovo splendido il finale
di "Pinocchio"; la conclusione drammatica del bambino per
bene che irride a se stesso fantoccio è un' intuizione geniale, che
dà l'ultima stretta crudele a tutta la storia. Pinocchio nasce a
puntate (sul "Giornale per i bambini", cento anni fa), ed a
sbalzi; vi sono salti di molte settimane fra l'una puntata e l'altra;
e questo ritmo saltellante, di marionetta, dà stile al romanzo.
L'autore, discolo e svogliato come la sua creatura, scrive soltanto
quando è pressato dai debiti di giucco; inventa personaggi che poi
abbandona o riprende modificandoli, a cominciare da Geppetto.
Guardiamo come questi entra in scena: è «un vecchietto tutto
arzillo», dall'irreale parruccone giallo, che ha "pensato"
di fabbricarsi «un burattino meraviglioso che sappia ballare,
tirare di scherma e fare i salti mortali». Così andrà in giro
per il mondo, per buscarsi «un tozzo di pane e un bicchier di vino».
A parte il pane e il
vino, di sapore mediterraneo, qui siamo in pieno Hoffmann; questo
Geppetto mattoide è un artigiano-mago, un ciarlatano gotico creatore
di pupazzi viventi, dalla vocazione spettacolare e randagia. Ma già
nella puntata seguente il distratto Collodi ci conduce in un tipico
interno di miseria toscana, dove il mago Geppetto si degrada
in padre di famiglia piangente per le impertinenze del "figliolo"
(ma non doveva essere un burattino da esibire nelle fiere?),
che ha «penato tanto a farlo un burattino per bene». L'altro
personaggio-pendant di Geppetto: la Fata: nasce non come fata, ma
come una spettrale bambina morta, simbolo di quella foresta di orrori
dove Pinocchio verrà impiccato alla quercia e vi morirà; dopo di
che la storia si conclude, al termine della puntata c'è scritto ben
chiaro FINE.
Passano i mesi.
Evidentemente Collodi non ha bisogno di quattrini, Pinocchio è
finito. Poi, attizzato dalle proteste dei lettori e del direttore dei
"Giornale", forse anche spinto da nuovi bisogni, Collodi
rida vita al morticino, ma in che modo? occorre un intervento
sovrumano: una Fata, e con disinvoltura l'autore traveste la bambina
morta in una «bonissima Fata che da più di mill'anni abitava nelle
vicinanze di quel bosco». C'è un che di sbrigativo e di teatrale,
una sostituzione d'attrici, ed ecco nascere quel personaggio ambiguo
e travestito, che è la Fata dai capelli turchini, dolce e funebre,
imprendibile come ogni vera donna, che contribuisce al clima di
continua metamorfosi di questo libro indefinibile. Del che è primo
simbolo lo stesso Pinocchio.
Quello che rende effìmeri
e noiosi tanti protagonisti di storie per ragazzi è la loro
definizione precisa, la loro finitezza di ometti, mentre i grandi
personaggi come Pinocchio, come Peter Pan, come Alice, sono imprecisi
e mutevoli proprio come i bambini, che crescono, cambiano, si
trasformano, fino alla tragica metamorfosi finale dell'acquiescenza
al mondo adulto. C'è nell'animo infantile un qualcosa di più, o di
meno, o di diverso, che è stato appunto espresso dalla ligneità di
Pinocchio, dalle ali di Peter Pan, dall'allungarsi e accorciarsi di
Alice. E' pensabile che se Collodi non avesse dovuto sottostare alle
regole del "feuilleton" non avrebbe creato questa storia
stupefacente, compressa in tanti capitoletti separati, ciascuno
nutrito d'umori concentrati, dove riversava l'amaro della sua vita
quotidiana: perché negli altri romanzi, da Giannettino al
penoso Scimmiottino color di rosa si nota un che di asmatico e
bolso; d'ispirazione breve. Ma così scisso e intervallato, forse
anche talvolta, odiato, Pinocchio è magicamente riuscito
capolavoro. A cinquantacinque anni Collodi compì la trasformazione
opposta di Pinocchio, e da uomo pratico, benché nevrotico, si fece
burattino, rovesciando tutto se stesso in quelle agre, pungenti,
stizzite avventure. L'identificazione fu tale che Collodi morì come
Pinocchio: bussando a una porta che non si aprì, come quella della
casina bianca da cui si affacciò la Bambina morta.
Da “L'Espresso”,
ritaglio senza data (anni Ottanta?)
Nessun commento:
Posta un commento