C'era una volta il '900.
Progressista e radioso, portatore di una attesa ingenua e messianica
circa l'inevitabile vittoria del socialismo nel segno della scienza e
della rivolta. Marx, Keplero e Spartaco: ecco un bel trio. In
prossimità del secolo morente, la locomotiva (Guccini fuochista)
sembrava inarrestabile, lanciata verso un mondo «giusto». Lo
sviluppo dell'industria, l'inizio della scolarizzazione, la forza dei
lavoratori organizzati, poi i primi tremolii degli imperi coloniali,
la fiducia quasi cieca nella scienza, lo svilupparsi via-via delle
rivolte facevano immaginare, ovunque, il rovesciamento di secolari
gerarchie sociali e ingiustizie, la fine dei rapporti di forza dati
per immutabili. Nel dopo-Darwin era andata in crisi l'idea che
l'evoluzione umana dipendesse da disegni divini, l'umanità tornava
padrona di se stessa. Logico che tutto ciò terrorizzasse teorici e
cantori dell'ordine costituito; e infatti proprio loro annunciarono
catastrofi, punizioni celesti, misero in guardia contro le folle
bestiali pronte a scatenarsi. Sul passaggio '800-900 quanto più
l'immaginario borghese annuncia la «fine della storia» tanto più
nascono teorie e utopie di progresso, giustizia, liberatoria cultura.
Persino all'anagrafe se ne trova conferma: all'inizio del secolo
chiamare i figli Libero, Avanti, Scintilla, Progresso, Libertà,
Ribelle, Turbina, Comunardo (così a Terni, come ricorda Sandro
Portelli nel suo bel Biografia di una città) esprimeva certezze più
che auspici. Tutto sarebbe cambiato e le macchine avrebbero avuto un
ruolo determinante, non appena il proletariato se ne fosse
impadronito, per usare - a favore dell'umanità anziché contro di
essa - «il molto che s'inventa» di cui recita. famoso Me-Ti di
Bertolt Brecht. Si dirà poi elettrificazione e soviet, Lenin e
Taylor. L'inevitabile uscita dalla «preistoria umana». Un altro bel
trio: macchine, masse, socialismo.
Aveva molte ragioni
(ebrea, polacca, zoppa, intelligente, sovversiva e donna) per essere
pessimista Rosa Luxemburg e infatti ci aveva messo in guardia: la
vittoria non è certa, la scelta sarà fra socialismo e barbarie. E
anche nell'immaginario si prospettava che il futuro potesse essere
nerissimo: Il tallone di ferro di London, tanto per citare un
incubo riuscito. A che siano servite le macchine, la scienza
(Auschwitz, Hiroshima, Vietnam) Rosa Luxemburg non ha potuto vederlo.
In compenso scoprì come i suoi ex-compagni fossero d'accordo dio i
proletari si unissero in tempi di |pace purché poi si scannassero in
guerra, sotto le rispettive bandiere. Barbarie, sì. Ma il peggio
doveva venire. Armi nucleari, ecocidio, sterminio per fame: orrendo
trio per un dominio che si vuole assoluto.
Di tutto questo anche la
letteratura fantastica è stato uno specchio, talora fedele e
talaltra ambiguo. C'erano, ovviamente, al suo interno c'erano destra
(super-uomini e imperi stellari), sinistra e palude centrista, oltre
che pazzi, ragionieri, architetti, operai (letterariamente parlando).
Si possono sognare merci masturbatone, squallidi poteri, mondi
soap-quiz oppure avere desideri che squassino proprio tutto, ivi
compresi macchine, masse, socialismi, miti della scienza, sbirri ben
celati dentro la testa e il letto di ognuno/a. La vittoria del
capitalismo è avvenuta anche (qualcuno oserebbe dire: soprattutto)
nell'immaginario, nel togliere desideri veri ai suoi antagonisti per
lasciar loro sogni di plastica. L'inconscio è stato
coca-colonizzato. Lo ha ben profetizzato Philip Dick (chi se non
lui?): «Possiamo immaginare tutto, non universi senza Coca-Cola».
Via-via che il futuro
diviene fosco, incerto o impossibile, via-via che le rivoluzioni
tornano impensabili (persino le riforme oggi sembrano robe da
bombaioli) il presente accelera per vincolarci e incatenarci su
sentieri obbligati. L'unico futuro è la continuazione del presente,
con altri mezzi: è questo ciò che si sente dire ovunque, con
insensatezza logica oltre che sintattica. Siamo prigionieri
dell'iper-presente, «reietti d'un altro pianeta» direbbe Ursula Le
Guin. Il secolo della democrazia s'è tradotto nella dittatura degli
850 leader che si riuniscono nel Forum internazionale di Davos (e
controllano il 95% o giù di lì dei massmedia). Mille reucci,
cinquantamila valvassori, qualche miliardo di consumatori (a Nord) e
di schiavi (a Sud). E lo chiamano nuovo ordine mondiale. Ecco
«sangue, carne, ossa, vite, speranze triturate, spremute, eliminate
per essere inglobate negli 'indici di crescita e incremento
economico': questo nascondono cifre e discorsi» spiega il
sub-comandante Marcos.
Eppure contro il presente
acchiappa-tutto, proprio nel cuore dell'Impero, da tempo s'annidava
un tarlo, una quinta colonna del nemico, una scappatoia. La migliore
fantascienza statunitense (non tutta, ma una grossa scheggia sì) è
stata sovversiva, spesso suo malgrado, proprio perché - quasi per
statuto — doveva dirci che ci sono altri mondi possibili e non solo
le mille clonazioni di Mike Bongiorno; oppure scegliere fra Clinton e
Bush, fra Khomeini e Wojtyla, fra eroina e merda, fra Coca e Pepsi. È
stata davvero una marxiana «futura umanità» quella che,
soprattutto fra gli anni '50 e '70, la fantascienza ha svelato,
mostrandone sogni e incubi, meccanismi e falle, ambiguità. È banale
e squallido sognare i super-uomini come portatori di armi
invincibili, avvisava Theodore Sturgeon: «Se invece un super-uomo
avesse una superfame, una super-solitudine», se avesse una morale
superiore, un amore più grande per tutte le creature viventi?”.
«Lo scopo della
fantascienza è svegliare il mondo sull'orlo dell'impossibile e
quindi nel bel mezzo della storia stessa, studiare e cercare di
scoprire qualcosa di nuovo con la passione dello scienziato che
esamina il suo esperimento o d'ima amante che vii,mi,! hi illuni.i
amala». Ancora Sturgeon: «La migliore science fiction è una
letteratura di forza e ampio respiro che offre un terreno di prova
per l'analisi di società vecchie e nuove, all'interno di una buona
narrativa, provocatoria, brillante e persino bella».
Questo per dire che le
pagine di Sturgeon, Pohl, Dick, Le Guin, del buon riformista Asimov e
di tanti altri/e sono state più importanti di scioperi o rivolte?
Certamente no. Ma «per conquistare un futuro bisogna prima
sognarlo»: prima di diventare la frase emblematica del centro
sociale Leoncavallo, la si leggeva non a caso in un romanzo di
fantascienza (Sul filo del tempo di Margot Piercy, Eluthèra),
e non per caso essa rappresenta una componente fondamentale d'ogni
vera rivolta; per quale motivo dovrei battermi e rischiare se non ho
un sogno «troppo grande» perché il mondo attuale possa contenerlo?
Ogni volta che le false
sinistre di questi tempi ne combinano una si dovrebbe citare un altro
grande scrittore di science fiction, Alfred Bester, che già
ci aveva avvertito: «la differenza fra uno Stato assistenziale e un
despota benevolo è minima».
Ogni tanto (capiterà
anche per i prossimi 2 o 3 dicembri) qualche idiota loda la
fantascienza - preferibilmente quella ammuffita di Verne o Wells; ma
i più avvertiti hanno letto anche 1984 e visto 1997, fuga
da New York - perché avrebbe/ha previsto qualcosa che poi è
successo «veramente». Sai che merito! In tutta la storia troverai
sempre ciò che cerchi. Il pregio della fantascienza è piuttosto un
altro e in questo senso davvero potrebbe aiutarci a rileggere il
secolo, a suggerire «un futuro per il Novecento». Il suo merito è
averci costretto/costringerci a pensare che possano esistere sentieri
diversi, ragionamenti a zig-zag, culture altre, alienità in noi e
negli altri, ricchezze perdute, insospettabili umanità (soprattutto
nel senso in cui Dick usa questa parola nel racconto Umano è),
magari metalli urlanti e umanoidi associati ma anche/soprattutto
visioni pericolose.
Può darsi («è più
difficile distruggere un pregiudizio che un atomo» sosteneva Albert
Einstein, che d'entrambi fu costretto a occuparsi) che fra i nostri
lettori siano ancora molti coloro che pensano alla fantascienza come
robetta; tanto più che «il 90 per cento della science fiction
è spazzatura, ma del resto il 90% d'ogni cosa è spazzatura» come
recita la ben nota, fra gli appassionati, «legge di Sturgeon».
Se però si cerca in quel
10% troveremo (parafrasando alcuni titoli famosi degli autori citati
oltreché di Varley e Spinrad) cristalli sognanti, penultime verità,
ambigue utopie, persistenze della visione, le rivolte di Jack Marron,
perfino possibili «leggi dell'umanica»: un patrimonio
dell'immaginario con il quale possiamo concimare nuovi sogni, per
s|pazzar via l'iper-presente in primo luogo dal nostro inconscio.
Nei suoi punti più alti,
la fantascienza ha individuato i paradossi di una scienza non
liberatoria, di una tecnologia senza più scienziati (con le
tecnofobie e i tecno-vudu che ne derivano), di corpi inquietanti,
dell'avanzante robotizzazione degli umani, della fino del lavoro come
lo conoscevamo, della confusione crescente fra vita e nonvita, del
dominio totale delle merci, di mondi paralleli e non comunicanti,
dell'obbedienza come male assoluto, della perenne lotta per
controllare il tempo, dell'agorafobia e dell'autismo di massa; magari
insinuando il dubbio se gli uomini - non i robot - sappiano che
«ribellarsi è possibile» come diceva un utopista cinese oggi in
disgrazia. Nei suoi punti più alti, la fantascienza (proprio perché
disprezzata) è stata il luogo senza censure, in cui si poteva dire
l'indicibile. Non a caso Leo Szilard, padre «pentito» della Bomba,
scelse la fantascienza per raggiungere un pubblico più vasto e dire
loro (La voce dei delfini) che «il quesito è: gli americani
sono liberi di dire tutto quello che pensano, visto che non pensano
quel che non sono liberi di dire?». Oggi la fantascienza, come altre
scritture/linguaggi un tempo alla gogna, da una parte è risucchiata
nella macchina del pensiero globale, dall'altra conosce una fase di
stanca. Eppure certe «visioni pericolose» stanno continuando a
offrici possibilità invece che previsioni, a costruire laboratori
onirici, a essere progettuali (e/o terrorizzate) partendo dall'idea
che in un mondo senza utopie non valga la pena vivere.
Non per caso alcuni testi
non trovano editori o, in Italia, escono spesso nell'underground dei
Centri sociali. La «guerra dei sogni» (così Mare Augé titola i
suoi «esercizi di etno-fiction» tradotti dalla libertaria
Elèuthera) è in corso. Si sa, stiamo perdendo. Dobbiamo comunque
resistere. All'interno di quella che lui definisce «la quarta guerra
mondiale» il sub-comandante Marcos c'invita a cercare le nostre
radici, perché «un popolo che dimentica il suo passato non può
avere futuro». E' altrettanto vero, anche se sulle prime sembrerà
paradossale, il contrario: un popolo che dimentichi «il suo futuro»
non avrà presente né speranze.
"il manifesto", 2 settembre 1999
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