Ludwig Boltzmann nel 1872 |
Wittgenstein lo inserì
in cima all'elenco (non lungo) di coloro che lo avevano influenzato.
Lenin ne elogiò la gnoseologia, che «in sostanza è materialistica
ed esprime l'opinione della maggioranza degli scienziati». Popper
confessava di sapere della sua filosofia molto meno di quanto avrebbe
dovuto e tuttavia dichiarava di condividerla «più da presso, forse,
di qualsiasi altra filosofia». Eppure mancava una traduzione
italiana delle conferenze (pubblicate originariamente nel 1905 con il
titolo di Populare Schriften)
nelle quali il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), noto
per i suoi contributi fondamentali allo sviluppo della teoria
cinetica dei gas e della termodinamica statistica, aveva esposto le
sue idee filosofiche sulla scienza e, in particolare, sulla fisica
teorica. Benvenuta, pertanto, l'iniziativa editoriale di pubblicarne
un'ampia selezione (Modelli matematici, fisica e filosofia.
Scrìtti divulgativi, a cura di C. Cercignani, Bollati
Borin-ghieri, 1999, pp. 210, £. 35.000), tanto più che la lettura
ne rivela una perdurante attualità.
In un certo senso,
infatti, l'epistemologia di Boltzmann contiene la prima
consapevolezza della «inevitabilità» del cambiamento di idee nella
scienza e, insieme, il tentativo di evitare gli esiti relativistici
che hanno segnato il dibattito sulla gnoseologia nel Novecento. «Se
consideriamo più da vicino il processo evolutivo della teoria -
scrive Boltzmann oltre mezzo secolo prima di Kuhn - salta agli occhi
per prima cosa che esso non ha luogo in modo così continuo come ci
si aspetterebbe, ma è anzi pieno di discontinuità». Proprio quando
si ritiene che i metodi utilizzati abbiano dato i migliori risultati
possibili, «all'improvviso questi metodi risultano esauriti e ci si
sforza di trovarne di completamente nuovi e disparati. Si sviluppa
allora una lotta fra i sostenitori dei vecchi metodi e gli
innovatori. Il punto di vista dei primi viene definito dagli
oppositori come antiquato e superato, mentre questi insultano gli
innovatori in quanto corruttori dell'autentica scienza classica». E
non è detto che dal confronto qualcuno sortisca «vincitore»: è
anzi concepibile «la possibilità di due teorie completamente
differenti che siano entrambe semplici e concordino ugualmente bene
con i fenomeni e che dunque, sebbene completamente diverse, siano
entrambe ugualmente giuste». Ma ciò ovviamente pone un problema:
che ne è della pretesa della scienza di giungere alla «verità
oggettiva»?
Sono noti gli esiti del
dibattito, sviluppatosi particolarmente nella seconda metà di questo
secolo: le teorie scientifiche sono state progressivamente declassate
al rango di semplici «convenzioni linguistiche» e gli «oggetti
fisici» (enti teorici o osservabili che fossero) sono stati ridotti
a meri «postulati culturali, paragonabili, da un punto di vista
epistemologia), agli dèi di Omero» (W.V.O. Quine). In mancanza di
un criterio oggettivo che consentisse di decidere quale, tra due
teorie rivali, fosse quella giusta e quella sbagliata, il postulato
della «referenzialità extralinguistica» degli oggetti fisici -
cioè l'idea che ad essi corrisponda una qualche «realtà oggettiva»
- è stato per lo più abbandonato. E le conseguenze cominciano a
manifestarsi pesantemente, se è vero - come ci ricorda Marco D'Eramo
(il manifesto, 20 agosto) - che più della metà degli statunitensi
crede che la terra sia stata creata da Dio poco più di 10.000 anni
fa e sulla stampa americana si arriva a leggere che il creazionismo è
un'ipotesi buona come l'evoluzionismo su come è cominciato
l'universo. Tuttavia lo scienziato Boltzmann rifiuta un approdo
solipsistico e continua a professarsi «materialista»: «l'idealismo
asserisce che esistono solo l'Io e le varie idee, cercando di
spiegare la materia a partire da queste. Il materialismo parte
dall'esistenza della materia e cerca di spiegare le sensazioni a
partire da questa» (chi ha letto Materialismo ed
empiriocriticismo di Lenin riconoscerà il nocciolo della tanto
vituperata «teoria del riflesso»).
Il problema è che
l'adesione al materialismo rischia di restare una «professione di
fede» se non si chiarisce teoricamente in che modo il venir meno di
certezze scientifiche «assolute» non debba metter capo al
riconoscimento dell'arbitrarietà di ogni teoria: e qui Boltzmann
manca l'obiettivo, giacché una volta ammesso che «può essere una
questione di gusti» lo stabilire «attraverso quale rappresentazione
dei fenomeni ci sentiamo più soddisfatti» , la strada per affermare
che «l'attuale separazione tra scienza e arte è del tutto
artificiale» (come dirà poi Feyerabend) è spianata. Si trova, è
vero, in lui la consapevolezza della inevitabile «limitatezza» di
ogni teoria e l'intuizione che lo scetticismo gnoseologico e la
tentazione solipsistica sono il frutto (marcio) dell'«eccessiva
fiducia nelle leggi del pensiero». Gli manca, tuttavia, la
comprensione del legame dialettico tra il materialismo filosofico e
il processo di sviluppo della conoscenza scientifica, di cui pure
coglie la dinamica. E il «guaio fondamentale» del materialismo
«metafisico» sta proprio, dirà poi Lenin, «nell'incapacità di
applicare la dialettica alla Bildertheorie [teoria del
riflesso, del rispecchiamento, ndr], al processo e allo sviluppo
della conoscenza».
Come ha scritto Giulio
Giorello, per conto sarà proprio Lenin a mostrare la razionalità
dell'atteggiamento di chi, come Boltzmann, manteneva una concezione
materialistica della conoscenza pur ammettendo che «le idee che ci
formiamo intorno agli oggetti non sono mai identiche alla natura di
questi ultimi» e a teorizzare la limitatezza storica di ogni
costruzione scientifica. «Il rispecchiamento della natura nel
pensiero dell'uomo», scriverà Lenin, non è «senza movimento e
senza contraddizioni»; proprio per ciò, il susseguirsi delle
teorie, il mutare dei «paradigmi» (o, lakatosianamente, dei
«programmi di ricerca»: espressione, questa, che ricorre proprio in
Boltzmann) non dimostra affatto che si tratta di «semplici
convenzioni», ma rivela, secondo Lenin, «il carattere transitorio,
relativo, approssimato di tutte queste tappe della conoscenza della
natura da parte della scienza umana che progredisce» e, soprattutto,
che esiste un movente che ci costringe via via a modificarle,
sintomaticamente rivelato dalle kuhniane «anomalie»: «l'infinita
approssimazione del pensiero all'oggetto [...], nell'eterno processo
del movimento, del porsi e del risolversi delle contraddizioni».
“il manifesto”, 2
settembre 1999
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