Ritratto di Giacomo Leopardi |
Opportunamente le
edizioni del Ponte iniziano la pubblicazione delle Opere complete
di Walter Binni con tre volumi di Scritti leopardiani. Giacomo
Leopardi, infatti, non è solo il poeta cui l'italianista perugino ha
dedicato più passione e impegno, quello con cui ha iniziato e
concluso la sua attività di critico, ma è stato per lui un maestro
di verità e di moralità, di quelli che non finiscono mai di dire le
cose che hanno da dire.
Non aveva torto. Per
esempio che gli uomini (come proclama l'epigrafe della Ginestra
leopardiana, estratta dal Vangelo di Giovanni)
preferiscano le tenebre alla luce e sovente si rifugino in miti e
autoinganni consolatori, è massima pertinente ai giorni nostri.
Viviamo in tempi bui. Dopo la sconfitta dell'esperimento comunista
del Novecento, le promesse di una generale e universale felicità
fondata sui consumi, che la diffusione del modello capitalistico
occidentale avrebbe gradualmente realizzato, si sono rivelate fragili
fino all'inconsistenza, mentre disuguaglianze, sperperi e distruzione
ambientale accompagnano una nuova sottomissione e disgregazione
politica del lavoro. Alla questione sociale, che si ripropone persino
nei punti più alti della crescita, si accompagna una generale
domanda di senso, che non trova risposte neanche parziali.
Viviamo in tempi bui e
tra noi emerge un nuovo affidamento alla religione istituzionale. I
tentativi di Restaurazione che la Chiesa cattolica ha promosso con
gli ultimi tre papi (l'ultimo, il più subdolo, è tuttora in atto)
non hanno fermato i processi di secolarizzazione, ma hanno favorito
una sorta di affidamento, affermato una superiorità. Non c'è stata
l'ondata di conversioni illustri del primo Ottocento, ma, soprattutto
tra intellettuali e politici di mestiere, una abdicazione dei
credenti nella ragione rispetto ai creduloni della trinità e
dell'ostia santa. A costoro, e più ancora ai loro preti, si è
demandato il monopolio dei “valori” di fratellanza e solidarietà,
riconoscendone “il primato morale e civile”, affermando che la
fede darebbe “una marcia in più”.
Leopardi e Binni hanno
molto a che vedere con questo groviglio di contraddizioni.
Nell'edizione del Ponte accanto ai saggi più noti e agli ultimi,
densi, scritti sulla Ginestra, si ritrovano le meno note
Lezioni leopardiane tenute a Roma negli anni Sessanta, che
scavano nel farsi della poesia. Ne emerge una critica potente
dell'alienazione religiosa, dei miti che la sostengono, degli effetti
che determina. Recuperati dallo Zibaldone vi si trovano giudizi come
questo: “il Cristianesimo surrogando un altro mondo al presente; ed
ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo ente, cioè Dio, viene
nella sua perfezione, cioè nel suo vero spirito a distruggere il
mondo, la vita stessa individuale [...] e soprattutto la società, di
cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante. Che
vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se
l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non
peccare? impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto
varrebbe il non vivere”. Dirà il Binni di quelle lezioni:
“immettevo i fermenti ribelli, protestatari di Leopardi nelle
tensioni delle giovani generazioni che avrebbero avuto la loro
maggiore esplosione nel ’68”.
Oggi a una umanità
disorientata e ai ceti popolari, spesso acculturati, ma privati di
coscienza di classe e sfiduciati nell'agire collettivo, si torna a
offrire la certezza del dogma, la speranza del miracolo, la fiducia
nel risarcimento ultramondano, la caritatevole tutela della chiesa
istituzionale, che condiscono la sostanziale rinunzia a vedere e a
estirpare le radici dell'oppressione. A tutto ciò Leopardi e Binni
oppongono la convinta affermazione dell'inconciliabilità con il
dogma religioso di ogni ipotesi di liberazione politica e sociale
(“Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il
pensiero”). Una vita umana più degna può darsi soltanto “nulla
al ver detraendo”, cioè accettando una condizione naturale esposta
alla sofferenza, all'invecchiamento, alla malattia e ponendo il
“verace sapere” a fondamento della società e della politica:
“Non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha
stabilita, dei mali della nostra specie. Sí bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e
dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo
questa fatica della vita”(Dialogo di Plotino e di Porfirio).
Il Leopardi, dunque, valorizzato l'“amor proprio” contro l'etica
del “sacrificio”, ragionatamente lo distoglie dal “pestifero
egoismo”, dal gretto utilitarismo privato, dai consumi che
consumano e non salvano, per orientarlo al “ben comune”, ai
“pubblici fati”. In questo senso si può affermare, con Binni,
che il poeta “prepolitico” appresti “un potente intervento ...
nel processo intero e complesso della costruzione della società
socialista”, giacché sottolineando “i limiti della condizione
umana, che escludono facili paradisi”, conduce a “lottare con
l’arma della verità, dovuta a tutti, per una società di liberi ed
eguali, estremamente ardua e interamente diversa da quella in cui
tuttora, drammaticamente, viviamo”. Il gran perugino soleva dire:
“E' essenziale che Marx legga Leopardi”. Anche noi pensiamo che
il socialismo del XXI secolo ne abbia una necessità assoluta.
micropolis, aprile 2014
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