Vasco Pratolini non
appariva più da gran tempo, nello stolido festino dei simulacri che
è tanta parte della nostra cronaca letteraria attuale. Era malato, e
lo si sapeva: ma la sua era soprattutto, credo, una malattia del
rifiuto. Perché lo scrittore fiorentino conservava tenacemente, da
sempre, quel gusto di preservarsi dalla volgarità trionfante per
virtù di dignità ed intelligenza, che aveva espresso per la prima
volta con subitanea freschezza nel racconto più bello del suo libro
di esordio: «...imparavo a guardare più a fondo gli uomini e le
cose, almeno fino al fondo di me stesso, se non al fondo di esse cose
e di essi uomini».
Pratolini aveva avuto in sorte una felicissima
vena di affabulatore lirico e un occhio puntuale e veloce di cronista
del quotidiano municipale, e magari rionale. Si era già all'altezza
di Cronache di poveri amanti, che è del '47: e il narratore
si era ormai conquistato una fama e un'etichetta, che finì per
fortuna con lo stargli progressivamente sempre più stretta. Sia
detto, tutto ciò, senza nulla togliere alla verità e al nitore
bozzettistico-elegiaco di quest'ultimo libro o di Via de'
Magazzini, e con tutto il doveroso rispetto per il taglio
intimistico-memoriale assolutamente «giusto» di un testo come
Cronaca familiare (1947). La forza e il senso della parabola
attiva del narratore stanno nel sempre più consapevole opporsi al
suo delicato dèmone ulteriore di nativa immediatezza sentimentale
risolta in bella prosa cantabile, per imboccare decisamente una
strada ben più irta di rischi e di contraddizioni, ma anche assai
più ricca di risultati moderni.
Progressivamente entra in ombra il
sapido favolista, il felicissimo aedo popolare capace di feline
occhiate plebee, e si forma lo scrittore meditativo che ambisce a
farsi storico della società fiorentina tra fine Ottocento e
fascismo. È chiaro che il passaggio e il relativo mutamento di
pelle, quindi di struttura e di scrittura narrativa, non deve essere
stato indolore. Basta a dimostrarlo un libro come MeteJJo (1955), che
sta ancora in mezzo al guado tra remore naturalistiche e ambizioni
straniate e anti-mimetiche. Ma ormai Pratolino lavora sull'azzardo,
saggiando con imperterrita determinazione autocritica le possibilità
di un grande affresco la cui trilogia prende nome di Una storia
italiana le cui fasi sono appunto Metello, Lo scialo
(1960), Allegoria e derisione (1966). Pratolini è maturo per
il suo grande libro. E il libro, che ne fa un narratore di statura
europea, è Lo scialo. Oltre le polemiche che all'interno
della critica di sinistra aveva suscitato Metello, oltre l'uso
pervicacemente ideologico di categorie come «realismo» e
«decadentismo», lo scenario che Lo scialo apre reclama fin
dal suo apparire altre ragioni analitiche e altre ottiche
interpretative. Chi a sinistra lo accoglie con diffidenza
moralistica, mostra in realtà di temerne non la mancata fedeltà
alla rassicurante vena idillica propria del Pratolini doc, quanto la
disgregazione di un universo della pacificazione storicistica in
favore di una scelta a suo modo «sperimentale», che nella storia
vede una serie di oscure fratture e di salti senza rete. L'affresco
crono-storico non interessa più Pratolini: lo intrigano ormai,
disperatamente, i labirinti del comportamento in relazione a un guado
sociale dissestato e livido. Il fascismo, anche ne Lo scialo,
non ha nulla di ideologico: è piuttosto, si direbbe, un morbo della
coscienza, un portato della corruzione collettiva. Con la sconfìtta
storica quale quella del movimento operaio dopo la prima guerra
mondiale, cresciuta anche sulla debolezza e l'insipienza strategica
di forze di progresso e di democrazia, oltre che sul furore di
revanche della reazione di classe, poteva facilmente tradursi
in un nobile arazzo narrativo, moderato sia sul piano della visione
che su quello delle opzioni linguistiche.
Pratolini sceglie
l'eccedo e il caos. Tutto questo verminoso materiale di macerie e di
frettolosì restauri non lo illustra, come gli era capitato di fare
in precedenti occasioni: lo porta alla luce, al contrario, per
frammenti all'improvviso illuminati da una luce sinistra: per
gestualità significanti;per allusioni losche: per la scelta di
bassezza e di ferocia. Senza un filo di immoralismo, Lo scialo
è il grande quadro di un'epoca laida e disperata dipinto da uno
scrittore dotato di straordinaria coscienza etica. I suoi dinamismi
interni, i suoi scorci secchi, i suoi dialoghi trasognati o nevrotici
sono la disposizione stilistica di questa coscienza, il suo spessore
anche sanguinoso. E non è un caso che, in un libro attraversato dal
sangue anonimo, il sipario si chiuda con un flash degno del
Pasticciaccio gaddiano. Sulla morte violenta di una donna che
è emblematicamente la Signora, davvero come allegoria e come
derisione.
La Storia è un sorriso
pietrificato su un viso che è già un teschio, come diceva Benjamin:
«La Signora non era né sulla sua poltrona davanti allo specchio, né
dietro il suo secrétaire dove alcuni fogli erano sparsi, né
sul suo letto ancora con i materassi arrotolati. Ma nel suo bagno,
nell'acqua della vasca tutta rossa del suo sangue, e con la testa
reclina sulla spalla, il corpo nudo immerso all'altezza della gola,
trattenuto dal braccio che faceva resistenza sul bordo della vasca,
bianchissima dentro quel rosso su cui batteva il sole. Gli occhi
chiusi; e nel suo volto, una quiete, come un sorriso che non le era
mai appartenuto».
il manifesto, 13 gennaio
1991
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