Il sorriso sottilmente
ironico dell'Ignoto di Antonello da Messina, in cui «la
ragione s'è fatta lama d'acciaio» lucido e tagliente; un sorriso
che ne richiama un altro, quello «vivo, acuto, singolare d'un
marinaio sconosciuto, d'uno scaltro mercatante », che è poi in
realtà un «rivoluzionario acceso», Giovanni Interdonato, avvocato
messinese fuoruscito nel 1848 e tornato di nascosto in Sicilia più
volte, per organizzare la cospirazione contro i Borboni. E ancora, in
generale, il sorriso come segno di una presa di coscienza, che
affiora lieve e discreto, o che agisce in profondo come lievito
critico, o che si tende nella parodia e nel sarcasmo: il sorriso
insomma dello stesso scrittore che racconta.
Da questo motivo, che si
emblematizza anche nel titolo, può partire un discorso sul romanzo
(Il sorriso dell'ignoto marinaio, Einaudi) con cui Vincenzo
Consolo si ripropone con forza all'attenzione dei lettori e dei
critici, a tredici anni dalla sua opera prima. Siciliano di
Sant'Agata di Militello, intellettuale fine e ricco di interessi
politici e sociali, puntiglioso ricercatore di documenti antichi,
Consolo ha scritto un romanzo di rara novità ed efficacia.
Le fila della vicenda,
tra il 1852 e l'impresa dei Mille, passando per il «moto politico di
Cefalù nel 1856», si svolgono e si avvolgono intorno alla figura di
Enrico Pirajno barone di Mandralisca, liberale illuminato,
collezionista d'arte e affascinato possessore della tavoletta di
Antonello, oltre che naturalista studioso di malacologia. Il barone
ha rapporti clandestini con l'Interdonato, vive il dramma delle
congiure fallite contro i Borboni, resta sempre più turbato dalle
manifestazioni di violenta ingiustizia sociale con cui viene a
contatto. Ma sarà la rivolta contadina di Alcàra Li Fusi a fargli
capire fino in fondo i limiti dello stesso «Ideale» risorgimentale
e i problemi delle masse oppresse.
Questa trama, che può
far pensare a un sostanziale recupero del romanzo storico, si
realizza peraltro in un contesto problematico e linguistico e
stilistico estremamente articolato e pregnante. Certo, Consolo si
rifa anche alla tradizione ottocentesca: intervenendo direttamente
come regolatore della vicenda (a proposito di un foglio: «lo
riportiamo qui di sotto, avendo del lettore gran rispetto»),
ricorrendo ad alcune classiche situazioni romanzesche (come
l'agnizione), perfino facendo uso spregiudicato di un certe
formulario retorico («la fiamma della rivoluzione che incendierà
tutta l'Italia», «il vile Borbone è finalmente scacciato da questa
terra santa»). Ma tali apporti vengono inseriti o rifusi, insieme ad
altri diversissimi (il documento, il canto dialettale, la citazione
da testi latini o dalle Noterelle di Abba), in una struttura
narrativa di autentica modernità e in una stratificazione
plurilinguistica, popolare e colta, di eccezionale vivezza. Si
direbbe che qui il sorriso, come segno dell'intelligenza, si
manifesti nel lucido controllo ironico e parodistico di ribollenti
materiali linguistici e dialettali, mutuati e ricreati dalle più
diverse fonti. Sì che anche le descrizioni naturali e le divagazioni
erudite risultano funzionali al discorso. Sono già stati fatti, a
proposito di tutta questa operazione, due nomi: quello di Gadda e
quello di Sciascia. E si tratta di ascendenze quasi dichiarate ad
apertura di libro dallo stesso Consolo; anche se per il precedente
diretto del Consiglio d'Egitto in particolare (richiamato da
alcuni) bisogna forse andare un po' più cauti, perché Consolo viene
scavando negli archivi siciliani e costruendo il suo romanzo
politico-sociale già da parecchi anni. Non c'è dubbio comunque che
Consolo riviva la lezione di Gadda e la tradizione letteraria
isolana, con una originalità che è al tempo stesso di
partecipazione e di distacco critico.
E' questo anche il caso
di un motivo fondamentale dei romanzo, riconducibile per certi tratti
a una linea di De Roberto-Pirandello-Brancati: il rapporto-conflitto
tra intelligenza e pazzia, ragione e natura, cultura e animalità,
eccetera. Un rapporto-conflitto che per buona parte del romanzo di
Consolo sembra risolversi pienamente nel microcosmo intellettuale del
barone di Mandralisca, percorso sì da disagi e insofferenze, ma
sostanzialmente unitario e conciliato con il macrocosmo isolano:
l'uno, insomma, come nucleo consapevolmente critico dell'altro, come
estrema manifestazione di una civiltà nonostante tutto compatta e
sopravvivente dentro un mondo arretrato e in profonda crisi. Una
civiltà aristocratico-borghese «avanzata», che può continuare a
specchiarsi nel sorrìso ironico e saggio dell'Ignoto di
Antonello, che può trovare nuova lucidità in quello acuto e vivo
dell'Interdonato, che può armonizzare l'amore possessivo per l'arte
e gli studi scientifici più «disinteressati» con gli ideali di
libertà e di indipendenza, che può leggere nel linguaggio degli
animali e delle piante preziosi suggerimenti per lo «spirito»:
senza peraltro tagliare alle radici le sue oggettive compromissioni o
contiguità con il mondo oscurantista e repressivo che la circonda.
Nel barone di Mandralisca, appunto, le idee liberali e il
razionalismo anticlericale, possono ancora convivere con quel poco o
tanto di «imbecillità» e di «pazzia» che egli di fatto condivide
con gli strati più ottusi e immobili o più inquieti e illustri
della sua classe e della sua tradizione. Il nobiluomo di Cefalù,
porta così nei suoi costumi quotidiani certi rituali usurati e
vuoti, e nei suoi interessi per l'arte o per la scienza una voracità
da «pirata» o una «mania antica». E la sublimazione di quella
razionalità unita a follia, forse si realizza proprio nei suoi
accaniti studi sulle lumache, al tempo stesso rigorosa ricerca e
catalogazione e «idea strologa, dannata», scienza obiettiva e
«passione inveterata».
Tutto questo non è più
possibile dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, «disciolta con
l'inganno» e repressa dagli stessi garibaldini in nome
dell'«ordine». Nella testimonianza in difesa di «villani e
pastori» imputati, inviata all'Interdonato quale procuratore
generale nel relativo processo, il Mandralisca dichiara la crisi
irreversibile del suo ruolo di intellettuale organico alla (nuova)
classe dominante: la consapevolezza di una «Storia» come «scrittura
continua di privilegiati», di una impossibilità delle classi
subalterne a far sentire la loro voce e il loro giudizio, si salda
alla consapevolezza dei «vizi» e «storture» che gravano sui
pensieri e sulle parole degli stessi aristocratici e borghesi
«cosiddetti illuminati», della oggettiva incapacità dei loro
«codici» a «interpretare» i problemi delle masse oppresse.
«Rivoluzione, Libertà, Egualità, Democrazia», dice il
Mandralisca, resteranno per quelle masse altrettante formule vuote,
finché non «saranno intiera-mente riempite dalle cose», dalle
concrete risposte ai loro bisogni: «la terra» in primo luogo. Di
qui la sua rinuncia alle «chine» e alle «penne d'oca», allo
«scrivere» e al «parlare », ma anche la sua dichiarazione di
impotenza ad «agire»; fino alla decisione di devolvere ogni suo
bene a «scuola, insegnamento pei figli dei popolani» della sua
città. Altro egli non saprà fare, se non raccogliere e far
conoscere le scritte di denuncia e di collera che alcuni imputati
semianalfabeti hanno vergato sui muri del carcere: “chista è 'a
storia vera scritta cu lu carbuni supra 'a petra”, e questa storia
bisogna capire per cominciare un discorso veramente nuovo. [...]
Consolo non vuole
proporre qui un modello o programma di comportamento intellettuale.
La presa dì coscienza autocritica del Mandralisca, in realtà,
manifesta la sua interna fecondità e incidenza a un livello diverso
e anche più profondo, con l'incrinatura appunto di quel microcosmo
armonioso, di quella civiltà compatta (e dei suoi compromessi più o
meno dissimulati), fino ad investire lo stesso livello specifico
della cultura e della letteratura.
A questo punto del
romanzo, insomma, il sorriso « pungente, ironico, fiore
d'intelligenza e sapienza» dell'Ignoto di Antonello, gli
si rivela anche « fiore di distacco, lontananza, aristocrazia» e
privilegio; esso anzi gli appare «greve, sardonico, maligno» e
somigliante addirittura a quello di certi vescovi e ministri
borbonici e poliziotti dell'isola.
E' il risvolto, insomma,
del motivo della «lumaca», nel senso che quell'intelligenza
autosufficiente diventa il risvolto di una scienza tanto
«disinteressata» da configurarsi ormai soltanto come una inutile
«pazzia»; quel superiore sorriso sembra perfino incapace di
giudicare l'«imbecillità» delle forze sociali e politiche più
retrive della sua classe, mentre deve prendere coscienza del profondo
distacco che lo separa da una classe e realtà nuova, antagonista e
protagonista futura (l'Interdonato stesso, che di quell'intelligenza
è una delle punte più acuminate, non può fare molto di più che
assolvere i rappresentanti del mondo subalterno, restando pur sempre
dall'altra parte).
A questo livello, in
sostanza, il rapporto intelligenza-follia, ragione-bestialità, più
ancora che far esplodere la sua conflittualità (un momento
emblematico, questo, della letteratura borghese di crisi), rivela un
suo carattere intrinsecamente precario e in qualche modo illusorio,
apparente. Il discorso si sposta cioè da un soggetto tradizionale di
storia ad un soggetto nuovo, dalla ragione individualistico-borghese
ad una ragione collettiva nascente sul terreno di problemi e bisogni
reali. E' questo il momento di consapevolezza critica più acuta che
Consolo porta all'interno di quella eredità culturale.
Ecco perciò che
l'emblematico sorriso dell'Ignoto smuore alla fine del romanzo, e
smuore anche il sorriso dello scrittore sulla stessa pagina, su
quelle povere scritte sgrammaticate e dialettali, cui l'«alletterato»
Consolo-Mandralisca ricorre come a una scelta autocritica interna
alla propria stessa scrittura privilegiata.
Il vero simbolo
conclusivo è quello della «chiocciola»: immagine di «geometrica»
perfezione e di «capricciosa fantasia», ma anche forma concreta di
un carcere spietato, «chiara la bocca e scuro il fondo chiuso»,
«enigma soluto» per costruttori e carcerieri, «bujo e putridume»
per i carcerati (i contadini ribelli che vi sono rinchiusi): un buio
tuttavia in cui il Consolo-Mandralisca si avventura ansioso e deciso,
per «conoscere com'è la storia che vorticando dal profondo viene;
immaginare anche quella che si farà nell'avvenire».
“Rinascita”, 23
luglio 1976
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