31.5.14

Montalbano. Un detective tormentato (Antonio Di Grado)

All'inizio del 1998 il quotidiano catanese “La Sicilia” annunciava l'acquisizione da parte della RAI dei diritti di 4 romanzi di Andrea Camilleri, che avevano come protagonista il commissario Montalbano. Si parlava di Giancarlo Giannini nel ruolo che sarebbe poi stato di Zingaretti e Camilleri, intervistato, faceva il falso profeta, forse a fini scaramantici: “Sono convinto che non piacerà a nessuno”. Il tutto era corredato da un box in cui Antonio Di Grado sinteticamente tracciava fisionomia e ascendenze letterarie del detective di Camilleri, a mio avviso molto acutamente. E' il brano qui “postato”. (S.L.L.)

Il commissario Salvo Moltalbano è sì il duro e smagato detective dell'hard boiled d'Oltreoceano e del noir d'Oltralpe, ma è anche un siciliano (anzi, catanese) di quelli laconici e melanconici, caparbi e sornioni, votati a spietate inquisizioni ma anche ai tormenti del dubbio, e a convivere con il loro metafisico spleen insulare come con un compagno segreto: com'era Leonardo Sciascia, com'era Giovanni Falcone. E il giallo, anzi il «nero siciliano» di Camilleri, è pur esso diverso: la soluzione non è mai interna al meccanismo poliziesco né all'apparato indiziario messo in moto dal delitto su cui si apre il romanzo. Essa si trova in un oggetto (il cane di terracotta, o il violino dell'ultimo romanzo) o in un'immagine (la forma dell'acqua, il ladro di merendine) evocati nel titolo, esterni al contesto affaristico-mafìoso che alimenta ma non motiva il crimine, allusivi a ben altri scenari, a più profondi e inconfessabili segreti.
Perché il paradigma indiziano del commissario Montalbano è quello stesso di Edipo, del resto citato nella Voce del violino: ogni indagine è un'autoindagìne, mette in causa in primo luogo l'io che indaga, lo coinvolge in una rete di corresponsabilità morali e lo fa vibrare di compassione, ovvero di scontrosa pietà per le vittime inermi, per gli spettatori sgomenti e come lui impotenti, dell'universo orrendo che li circonda e li opprime. Perciò Montalbano non somiglia ai suoi illustri predecessori, né ai raziocinanti e tormentati inquirenti sciasciani, ma nemmeno al Pepe Carvalho evocato dall'assonanza Montalbano-Montalbàn, semmai al commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda, lui sì implicato nella configurazione di quel carattere, di quegli ambienti intrisi di quotidiano orrore e maleodoranti omertà,-, e soprattutto nella lingua, quell'originale «koinè» semivernacolare che non è il siciliano letterario di Verga o di Consolo, ma un'invenzione decisamente gaddiana tanto nelle alchimie lessicali quanto negli esiti espressionistici.


“La Sicilia”, 3 gennaio 1998

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