All'inizio del 1998 il
quotidiano catanese “La Sicilia” annunciava l'acquisizione da
parte della RAI dei diritti di 4 romanzi di Andrea Camilleri, che
avevano come protagonista il commissario Montalbano. Si parlava di
Giancarlo Giannini nel ruolo che sarebbe poi stato di Zingaretti e
Camilleri, intervistato, faceva il falso profeta, forse a fini
scaramantici: “Sono convinto che non piacerà a nessuno”. Il
tutto era corredato da un box in cui Antonio Di Grado sinteticamente
tracciava fisionomia e ascendenze letterarie del detective di
Camilleri, a mio avviso molto acutamente. E' il brano qui “postato”.
(S.L.L.)
Il commissario Salvo
Moltalbano è sì il duro e smagato detective dell'hard boiled
d'Oltreoceano e del noir d'Oltralpe, ma è anche un siciliano (anzi,
catanese) di quelli laconici e melanconici, caparbi e sornioni,
votati a spietate inquisizioni ma anche ai tormenti del dubbio, e a
convivere con il loro metafisico spleen insulare come con un
compagno segreto: com'era Leonardo Sciascia, com'era Giovanni
Falcone. E il giallo, anzi il «nero siciliano» di Camilleri, è pur
esso diverso: la soluzione non è mai interna al meccanismo
poliziesco né all'apparato indiziario messo in moto dal delitto su
cui si apre il romanzo. Essa si trova in un oggetto (il cane di
terracotta, o il violino dell'ultimo romanzo) o in un'immagine (la
forma dell'acqua, il ladro di merendine) evocati nel titolo, esterni
al contesto affaristico-mafìoso che alimenta ma non motiva il
crimine, allusivi a ben altri scenari, a più profondi e
inconfessabili segreti.
Perché il paradigma
indiziano del commissario Montalbano è quello stesso di Edipo, del
resto citato nella Voce del violino: ogni indagine è
un'autoindagìne, mette in causa in primo luogo l'io che indaga, lo
coinvolge in una rete di corresponsabilità morali e lo fa vibrare di
compassione, ovvero di scontrosa pietà per le vittime inermi, per
gli spettatori sgomenti e come lui impotenti, dell'universo orrendo
che li circonda e li opprime. Perciò Montalbano non somiglia ai suoi
illustri predecessori, né ai raziocinanti e tormentati inquirenti
sciasciani, ma nemmeno al Pepe Carvalho evocato dall'assonanza
Montalbano-Montalbàn, semmai al commissario Ingravallo del
Pasticciaccio di Gadda, lui sì implicato nella configurazione
di quel carattere, di quegli ambienti intrisi di quotidiano orrore e
maleodoranti omertà,-, e soprattutto nella lingua, quell'originale
«koinè» semivernacolare che non è il siciliano letterario di
Verga o di Consolo, ma un'invenzione decisamente gaddiana tanto nelle
alchimie lessicali quanto negli esiti espressionistici.
“La Sicilia”, 3
gennaio 1998
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