Buenos Aires, Calle Beruti, Foto di
Matt Harrington (Flickr)
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a María Fabiola Álvarez
Vivevamo in una casa del
Barrio Norte, a calle Beruti, distante due isolati dall’avenida
Santa Fe. Oltre a noi cileni, e a una coppia di uruguaiani, ci
abitavano uno zoppo e un’ex-puttana. Erano fidanzati. E si amavano.
Come capita spesso, lui l’aveva tirata fuori dalla prostituzione e
cose di questo tipo. La loro relazione mi ricordava un romanzo di
Onetti. Quella casa l’amministrava León, un uruguaiano discendente
da armeni, anarchico come i suoi genitori e, forse, come i nonni.
L’idea di una Comune lo affascinava; chiaramente, solo per esserne
lui l’amministratore. Per questo, due anni prima, aveva preso la
casa in cui stavamo. Senza dubbio la conquista di quel posto era uno
dei pochi atti eroici dei suoi ventidue anni e lui parlava
continuamente del giorno in cui era riuscito a farcela. Era facile
intuire dove andasse a parare la corrente delle sue conversazioni,
non faceva che parlare di un socialismo non autoritario e di tutta
una serie di fatti consimili che venivano trattati con termini
solenni, definitivi. Arrivai in quella casa tramite un amico cileno
che, come me, cercava di proteggersi dal maledetto inverno di Buenos
Aires. Una volta insediato, feci in modo che la notizia si
diffondesse rapidamente tra i miei connazionali più vicini. In
qualche settimana, poco a poco, il luogo si affollò. Beruti si
riempì di noi, con le nostre lamentazioni sulla dittatura e tutte
queste stronzate. Senza poterlo più evitare, León ormai si trovava
tra i piedi sette cileni che parlavano un idioletto incomprensibile
per lui e per la sua compagna dal naso storto. Le nostre intenzioni
erano molto lontane dai propositi della sua sedicente Comune. Quando
si rese conto dell’invasione, era già troppo tardi per cacciarci
via. A Buenos Aires tutti avevano compassione di noi, per quello che
succedeva all’altro lato della Cordigliera. Ci facevamo trattare
come esiliati, o qualcosa del genere, e sfruttavamo la situazione. Me
ne andavo, per esempio, al centro culturale San Martín dove
rappresentavano dei film di alcuni registi che mi interessavano, e mi
mettevo accanto al botteghino a chiedere soldi per il biglietto.
Dicevo sempre: guarda, amico, sono cileno e piacerebbe anche a me
vedere questo film come farai tu tra un po’, non vorresti essere
solidale con me; nessuno si negava, eravamo di moda, eppure, bisogna
dirlo, disprezzavo quella piccola borghesia di Buenos Aires, pur
essendo più o meno uguale a loro.
La relazione tra la Flaca
e lo Zoppo cominciò a intrigarmi e diventai un loro mezzo amico. Lo
Zoppo sicuramente era furbo, o per lo meno aveva un senso del
cinismo, che appresi mio malgrado, devo dirlo, in seguito e non
grazie a lui. Si preparava giorni prima consultando i giornali in
cerca dell’evento. Quando c’era qualche prima al Colón indossava
il suo abito migliore, che mandava ogni tanto in tintoria, compito
che ho assolto anch’io qualche volta; non gli piaceva uscire in
strada, muoversi gli costava fatica, ma la verità è che aveva molta
vergogna; nonostante il suo cinismo, la timidezza e i suoi complessi
a volte lo facevano sentire senza difese. Si fermava all’uscita del
teatro appoggiandosi sulle stampelle luccicanti, tendeva la mano
facendo uno sforzo incredibile per raccogliere le monete che gli
offrivano. Metteva su un bel gruzzoletto con quelle incursioni,
tuttavia non era tanto avido; usciva solo una o due volte al mese. A
me non importava quello che facessero gli altri delle loro vite, per
questo neanche mi impegnavo a capire le loro idee sulle cose, me ne
stavo da solo come sarei potuto stare in qualunque altro posto
aspettando che tutto crollasse da un momento all’altro; da quando
ero andato via da Santiago tutto mi sembrava senza importanza, come
se in qualche modo qualcosa si fosse irrimediabilmente rotto. Lo
Zoppo era di idee fasciste; aveva alle spalle una militanza nel
peronismo di estrema destra, ai tempi in cui, mi diceva, ancora aveva
a disposizione due gambe, quando si bruciavano chiese ed era tutta
una confusione. Ma proprio come ora, gli dicevo io. Non era possibile
convincerlo del fatto che il presente era più pesante, o simile;
come sempre. Viveva nel passato, nel tempo delle sue due gambe. Mi
sembrava strano che un mendicante fosse fascista, non avevo mai
conosciuto nessun povero che credesse in Mussolini, come se il Duce
fosse vivo e stesse ancora a lanciare moniti alle masse offese.
In quei giorni la squadra
di calcio argentina aveva buone possibilità ai Mondiali. La
selezione doveva vedersela con l’Inghilterra; dopo la Guerra delle
Malvinas, le aspettative si mantenevano attaccate sulla pelle come
una crosta dolorosa e quello sicuramente era un conto da saldare. Gli
ex-combattenti facevano buoni affari mettendo in mostra i segni della
catastrofe dalle parti dell’Obelisco. Devo dire che a me tutto
questo sembrava ripugnante, ma sapevo come erano andate le cose,
gente poco più grande di me era restata mutilata, bastava pensare ai
Gurka per essere presi da compassione e paura. I pazzi durante la
Guerra se l’erano vista brutta e lo Zoppo non faceva che parlare di
questa specie di patriottismo. Prima della partita mi invitarono più
di una volta nella loro stanza maleodorante. Sul muro condividevano
lo stesso spazio nientemeno che Mussolini, Perón e Maradona in
tenuta biancoceleste. Uno di quei giorni mi fece vedere il denaro e
mi spiegò come se lo procurava. Al principio non ci volevo credere,
ma tra le mani aveva questo mazzo di banconote tale da poter far
aprire gli occhi anche al più ingenuo. Le contai, perché lui me lo
chiese. Prenditene dieci, disse, in questa casa tu sei l’unico a
cui io non faccia schifo. Mi piaci, cileno, diceva. La Flaca si
avvicinò baciandomi sulla guancia. Prendili, via, non essere
imbecille, comprati un poco di marijuana, lo so che vi piace, vi ho
visto fumarla, e comprati qualcosa da mangiare, mi sembri molto
sciupato.
Il giorno della partita
stetti con loro. Mi mandarono a comprare due polli fritti e varie
bottiglie di vino. Ci ubriacammo subito e lo Zoppo voleva raccontarmi
la sua storia; alla Flaca non dovette andar giù e fece per
andarsene. Lei aveva già sentito quella storia troppe volte, e
gridò, mentre usciva dalla stanza, che lo Zoppo raccontava sempre la
stessa porcheria e che si approfittava della mia gentilezza. Rientrò
per darmi un bacio, cercò di mettere le sue labbra sulla mia bocca,
cosa che schivai, ma non tanto. Ci mise la lingua, mi diede uno
spintone che ci fece cadere sul tappeto, insistette lanciandosi
addosso. Le lasciai fare fino a quando lo Zoppo tornò a mettere
ordine. Le gridò di lasciarmi tranquillo, disse che io ero solo un
ragazzino, che avrei potuto essere suo figlio. Lei mi passò di nuovo
la lingua per la bocca, si fermò e se ne andò. Lo Zoppo cominciò a
raccontare: figlio di italiani, siciliani di Palermo, di cognome
facevano Scotado, o qualcosa di simile. Il padre dello Zoppo, Anselmo
Scotado, era sindaco di un paesino. La sua famiglia si era messa
dalla parte del Duce. La Seconda Guerra quasi non li aveva toccati
fino al giorno in cui non catturarono dei presunti comunisti e lui
aspettava che venissero a prendersi i traditori della grande utopia
fascista. Ma l’esercito non appariva e a quanto sembrava non
sarebbe arrivato mai. Scotado si vide in un dilemma. Per la prima
volta aveva il potere in mano, attendeva solo ordini per giustiziare
quei comunisti. Andò a parlare con padre Antonio, parroco del paese,
che gli disse di avere pazienza, di parlare con i presunti comunisti,
di trovare prove, per assicurarsi che lo erano realmente. Scotado non
fece caso al consiglio e fece di testa propria. E fu così che un
fascista tranquillo diventò un assassino. Perfino nel plotone c’era
lui a sparare, un tipo tranquillo, che si era infervorato: può
capitare a tutti qualche volta nella vita, si giustificava lo Zoppo.
Quando arrivarono gli alleati linciarono il sindaco come un cane,
come Mussolini, via. La madre arrivò in Argentina con i suoi figli,
perché aveva già dei parenti che vi si erano stabiliti. Da bambino
lo Zoppo si arrangiò facendo mille mestieri, venne su cercando una
vendetta imprecisa per la morte di suo padre. Si addestrò con i
paramilitari di non so che e senza volerlo si trovò ad accoltellare
gente che solo aveva conosciuto attraverso foto sbiadite e che
rivedeva qualche giorno dopo sui giornali. Loro volevano farla finita
col paese, mi diceva. Ma la vendetta era in agguato. Lo acciuffarono
all’uscita di casa e gliele diedero di santa ragione; colpi che
ancora ricordava nei suoi sogni. Alla fine gli spararono alla gamba
destra e da allora era lo Zoppo.
Gli argentini avevano
preso quella partita di calcio come un regolamento di conti; lo
stesso presidente Alfonsín, diceva nel notiziario di mezzogiorno, ma
senza troppa enfasi, che si trattava solo di una contesa sportiva,
che non la si doveva prendere come qualcosa di più importante. Non
c’era verso, i muri erano zeppi di scritte contro gli inglesi e, da
buon popolo vinto, dopo la sconfitta qualunque impresa era
considerata un indiscutibile trionfo. In quei giorni morì Borges,
lessi in uno dei titoli del giornale che era morto il Maradona delle
lettere; così stavano le cose.
La Flaca tornò ubriaca a
calcare la scena, con delle bottiglie di vino sotto il braccio in una
borsa di plastica e altre cose da mangiare. Continuammo a bere il
Termidor da tavola e a ingozzarci come maiali. Venne l’ora della
famosa partita. L’inno argentino e quello inglese. Io, in realtà,
non ero molto interessato a quello che stava succedendo, però la
coppia non la smetteva di gridare ad ogni azione di attacco dei
compatrioti. Me ne andai dalla stanza dello Zoppo e percorsi il
corridoio. Nel resto della casa non c’era nessuno. Trascorsi una
ventina di minuti in bagno, da lì mi arrivavano le grida dagli
edifici vicini. Al rientro seguivo anch’io la partita in tv.
L’Argentina aveva segnato un gol agli inglesi con la mano di dio e
con Maradona, diceva il telecronista, che sembrava parlare per tutto
il paese. Lo Zoppo e la Flaca erano a letto contenti e accoccolati.
Mi offrirono un altro po’ di vino che accettai. E fu la prima volta
che vidi la gamba tagliata dello Zoppo, un pezzo di carne rinsecchita
si muoveva da uno dei lati delle mutande. Lo Zoppo si rese conto che
lo guardavo, mosse varie volte il moncone. Nel centro c’erano delle
fenditure carnose che dovevano essere le cicatrici che terminavano in
rughe, le quali andavano verso il centro di una specie di tronco. Mi
sentì per la prima volta amico suo, o qualcosa di simile che viene
dai fumi dell’alcol. Cominciarono a gemere dietro di me, senza
fregarsene del fatto che io stessi lì e che l’Argentina avesse
definitivamente sconfitto gli inglesi. Spensi il televisore, presi
una bottiglia di vino non ancora aperta e chiusi la porta con
attenzione, come se stessero dormendo. Quando finì il Termidor, me
ne andai in strada verso il rio de La Plata schivando la celebrazione
del trionfo.
Nel sito “Buràn” con traduzione di
Gaetano Vergara,
dal sito “Ficcion breve venezolana”
(postato il 13-2-2013)
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