16.5.14

Cinema e antifascismo. L'“Ossessione” di Luchino Visconti (Pietro Ingrao)

Non riesco a compiere una riflessione su Ossessione, senza andare al momento politico in cui quella prima opera di Visconti fu concepita e realizzata. Può darsi che pesino in questo giudizio vicende personali, forzature soggettive (ciò che pensavamo allora di fare, nel gruppo degli intellettuali comunisti romani che collaborò in quegli anni con Visconti), ma sono portato a sottolineare il collegamento tra l'opera e l'impegno politico degli autori. Confesso che qualche volta ho l'impressione che si sia impallidita la nozione della totalità ed esclusività che, ad un certo momento, ebbe lo scontro con il fascismo. E' probabile che oggi — a cose risolte — non sia facile rivivere l'interrogativo pauroso che si aprì sulle sorti del mondo, allora, in quegli anni in cui la macchina politica e militare di Hitler sembrò travolgere l'uno dopo l'altro ogni confine, bruciando istituti, forze, potenze secolari e sembrando toccare ormai una dimensione planetaria. I massacri, i roghi, l'annientamento delle città, i Lager, la cancellazione di Stati furono la materializzazione di un mutamento che aggrediva principi di vita, scale di valori, e quindi il posto e il ruolo stesso della cultura. Tutto ciò spostò tragicamente la nostra esistenza. Direi che fumino costretti a rivedere la nostra collocazione, a tal punto essendo arrivata la portata della politica, giunta ormai a quella forma assoluta di regime reazionario di massa, di Stato totalitario.
Perciò diventava difficile, forse impossibile restare solo intellettuali (e cioè un certo tipo di intellettuali); e fummo via via trascinati dall'incalzare degli eventi a ripensare (sul terreno pratico e teorico) il rapporto tra cultura e società, tra cultura e politica.
Ossessione, secondo me, è la prima opera del cinema italiano che fa i conti con il fascismo, nel suo senso più profondo. In essa non c'è (perché non ci poteva essere) la parola antifascista esplicita: ma c'è — per la prima volta — una lettura colpiti la nozione di famiglia, l'immagine tradizionale dell'operaio, la rappresentazione dei rapporti sociali, lo stesso ambiente materiale, fisico della vita italiana. Oggi le approssimazioni, le sommarietà, persine le ingenuità, che erano in quell'opera, sono visibili a occhio nudo. Ma la pagina che si cominciava a scrivere era nuova, e rispondeva ad un altro modo di intendere il nesso tra la rappresentazione artistica e il farsi della società.
L'operazione era consapevole. Bisogna ricordare che Alleata e De Santis, quando nel 1941 domandavano su Cinema «un'arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e che spera», non intendevano parlale di una «rivoluzione» generica; erano dirigenti e militanti di una organizzazione clandestina comunista. Parlavano della rivoluzione socialista. E' da vedere quanto fosse esatta allora la loro concezione della rivoluzione. Ma quello era il tema. La via che veniva tentata con Ossessione tra quella di una cultura che riqualificasse se stessa in rapporto ad un nuovo soggetto della storia, che era stato riconosciuto attraverso un lungo travaglio, politico ed intellettuale, cominciato nella seconda metà degli anni trenta. L'«umanità che soffre e che spera » era il nome cifrato che alludeva alla classe operaia. Quegli scritti su “Cinema” erano un aspetto di una lotta, che trovava il suo sbocco culminante nella cospirazione politica.
Anche l'interesse per il cinema era assai meno casuale e — come dire? — « soggettivo » di quanto si possa pensare. Forse sarebbero da studiare di più i canali curiosi, attraverso cui maturarono certi processi di rinnovamento nella gioventù italiana della seconda metà degli anni trenta. Si potrebbero intendere meglio non solo i giri tortuosi che si dovettero fare dinnanzi ad un regime totalitario senza precedenti, ma anche la singolarità delle strade mediante le quali si arriva a certe svolte politiche, di cultura, di costume.
Se si guarda il cinema italiano degli anni trenta, si trovano — è stato detto — i « telefoni bianchi ». Ma sotto quella crosta, e proprio attraverso le suggestioni che il nuovo mezzo di espressione esercitava su una nuova generazione di giovani (anche per come esso penetrò nei « Guf »), si sviluppò una ricerca critica, che trovò i suoi testi principali negli scritti di Pudovkhin e di Bela Balàsz. Non credo di esagerare sostenendo che per quella via si stabilì un fragile, ma preciso canale di collegamento con correnti fondamentali dell'Europa progressista: con la grande stagione dell'espressionismo tedesco, con il surrealismo di Clair e di Bunuel, con il potente cinema sovietico degli Eisenstein, dei Dovgenko, dei Pudovkhin. Così — e avvenne anche per le arti figurative — suggestioni che inizialmente erano solo di linguaggio, di forme espressive, e perciò rimandavano ancora ad un'idea « separata » dell'arte, di fronte all'esplodere della crisi della società in forme politiche così totali, emersero in tutta la loro pregnan-za generale, come da una scrittura in inchiostro simpatico. Cosi la Corazzata Potemkin non fu più solo un dirompente canone stilistico, ma apparve come una proposta politico-culturale; e tutta la poetica pudovlchiana, che puntava sui montaggio come svelamento oggettivo dei rapporti oggettivi fra le cose e tra gli uomini, venne assorbita e usata per cercare una rappresentazione artistica, la quale portasse fuori non solo dalla retorica fascista, ma anche dal rifugio nella «prosa d'arte», nella «letteratura della memoria», e consentisse una riscoperta della società a livello di una comunicazione di massa. E d'altra parte il fascismo stesso, per la dimensione inedita che aveva dato al controllo autoritario delle masse, finiva per segnalarci il limite degli strumenti culturali attorco a cui si era organizzata in Italia la resistenza di una certa « società delle lettere » ai regime: ci suggeriva un mutamento nella collocazione degli intellettuali, ci sospingeva verso altre forme e dimensioni di comunicazione con il nostro prossimo.
Nel gruppo degli intellettuali comunisti romani che lavorarono con Visconti, questa ragione dell'approccio ai cinema si incontrò (e Alicata ne rappresenta un e-sempio esplicito) con l'amore per il grande romanzo europeo, inteso come lo strumento in cui si era espressa una forte coscienza di sé della civiltà borghese e al tempo stesso il primo precipitare della sua crisi. Non c'era arrivato nulla dei famosi scritti di Lukas sul realismo critico; ma in qualche modo il senso c'era giunto attraverso il modo con cui i padri della grande narrativa democratica europea si erano schierati sul fronte dell'antifascismo e dinanzi alla rivoluzione spagnola, e attraverso l'esaltazione emblematica che di questi filoni — a partire soprattutto dal VII Congresso — aveva fatto il movimento comunista internazionale. Forse non si è sottolineato abbastanza come la rivoluzione spagnola fu un tornante non solo nella storia politica ma nella vicenda culturale delle nuove generazioni degli anni trenta, e come anche sotto quest'aspetto essa fu davvero la prima, irrimediabile sconfitta del fascismo. E' certo che attraverso quella saldatura passò, in una parte delle nuove generazioni intellettuali italiane, un recupero dei romanzo come ideologia, come lettura in trasparenza della, ossatura di una società, che trovava un terreno di attecchimento nella formazione «umanistica», e cioè nelle forme di coscienza tipiche di determinati ceti intellettuali italiani. Il cinema sembrava allora a noi lo strumento più adatto a dare una paradigmaticità a questa narrazione «ideologica», e al tempo stesso a fornirle una modernità di linguaggio che — scavalcando l'estetica lukacsiana — recuperava un contatto anche con le avanguardie (non fu forse il cinema l'unico canale attraverso cui ci giunse in quegli anni, in qualche modo, il nome di Brecht?).
E il cinema come, romanzo «ideologico» fu la base dell'incontro con Visconti. Anche qui il rapporto di Visconti con l'esperienza di Renoir parla chiaro: sia nel senso delle forme di conoscenza a cui rimanda (il nesso col naturalismo sociale francese, il senso dell'affresco ricavato dalla pittura impressionista, il gusto dei caratteri come emblemi dei grandi conflitti umani), sia per il collegamento con la grande stagione del Fronte popolare.
Visconti ha fatto dichiarazioni assai precise sull'orientamento comunista che egli respirò nel «clan» di Renoir, al momento della sua esperienza parigina e del suo primo avvicinamento al cinema. Non è una forzatura retrodatata. Anzi, per intendere bene che cosa fu per intellettuali come Visconti l'adesione al comunismo, — e anche i caratteri che essa ebbe — bisogna mettere una data precisa. Adesione al comunismo significò prima di tutto una chiave di lettura del fascismo, come imbarbarimento della società su una motivazione di classe; e ricerca di una risposta adeguata alla violenza inaudita e al potere di classe che il fascismo esprimeva. Allora, probabilmente, quella adesione non fu altro di più; ma era una collocazione che già spostava profondamente il carattere dell'impegno intellettuale e l'atteggiamento nei riguardi della sinistra operaia, cominciando — certo: solo cominciando! — a colmare una frattura, che era stata una delle ragioni della terribile sconfitta del '21-'22.
Non per caso la gran parte dei progetti di film su cui discutemmo prima di Ossessione ruotarono tutti attorno a due tematiche: il romanzo americano e Verga. Il romanzo americano degli anni trenta ci forniva l'immagine di una società dove esplodevano apertamente le contraddizioni sociali, in termini che, per una parte ci consentiva quella ricerca di «tipicità» a cui ci spingeva il nostro inconsapevole lukacsismo, e per un altro verso ci forniva un'immagine di quel conflitto tra avanzata dell'industrialismo e disgregazione del mondo contadino, che per tante ragioni si raccordava a una nostra idea della società italiana. Qui incontravamo Verga, di cui giustamente non ci importava gran che la soggettiva ideologia conservatrice, quanto lo spaccato che egli dava di una società di classe e la rappresentazione di un blocco agrario, che consideravamo elemento decisivo di una storia nazionale reazionaria.
Dentro questi « paesaggi » ideali, naturalmente agivano umori personali assai vari: il populismo poetizzante con cui alcuni di noi tendevano a riscattare la mediocrità della provincia contadina in cui eravamo cresciuti; le forzature tipologiche con cui uno come Alicata cercava di dare forma rappresentativa ad uno storicismo materialista; la spinta ricorrente di Visconti a ripiegare verso l'analisi del mondo da cui veniva (ci propose di fare un film sulla Signora delle camelie, e noi non capimmo). E tuttavia Ossessione, nonostante tutte le aporie interne, rappresentò la prima opera del cinema con cui, dalla tragedia del fascismo, si derivava un tentativo di arte militante, che si rendesse partecipe e complice di un riscatto delle classi subalterne. Era la prima materializzazione di uno spostamento, e forse ciò era significativo proprio perché esprimeva una dislocazione di nuove generazioni cresciute dentro il regime fascista.
Lo spostamento non si arrestò. Io non condivido le valutazioni che mettono una cesura perentoria tra Ossessione e il cinema neorealistico italiano della seconda metà degli anni quaranta; e con ciò non mi sogno di dimenticare la forte diversità di approcci alla realtà e di forme espressive che corrono tra le varie opere raccolte sotto la sigla sommaria del neorealismo e — per esempio — tra il « documentarismo » di un Zavattini e la disposizione al romanzo, persino al melodramma, di uno come Visconti. Ma resta una dislocazione comune in rapporto ai caratteri strutturali della società. A veder bene, nelle più significative di quelle opere, non ci sono più solo i « poveri », i derelitti, e cioè la denuncia di una insufficienza e di una ingiustizia, ma la sottolineatura di un guasto organico della società, di una condizione scissa, la quale ha caratteri radicali. Perciò alcune di quelle opere danno un senso inconsueto di tragicità. Perciò quei personaggi, pur nell'estrema mediocrità e quotidianità della loro vicenda, non hanno più un aspetto di «umili»: cominciano ad essere assunti in un'altra luce, inconsueta nella cultura italiana.
Questo è il motivo per cui abbiamo parlato di uno spostamento, che va colto al di là della elementarità» e sentimentalità di molte di quelle opere e che riuscì a resistere anche allo scatenarsi del riflusso clerico-moclerato del '47-'48, sino a costituire — e proprio attraverso certe opere di cinema — un elemento, di collegamento tra l'ala più avanzata della società italiana e ceti intermedi, e strati di intellettuali tipici della nuova società di massa. Lo stesso rifiuto dell'anticomunismo, che quello spostamento implicitamente esprimeva, è stato una peculiarità della società italiana. Non in tutti i paesi dell'Europa è stato così.
Cogliere — sia pure forzandolo — questo significato dell'aggregazione che si produsse attorno al cinema neorealistico italiano aiuta ad intenderne meglio anche i limiti, i quali stavano nella staticità della lettura che veniva fatta della società italiana: per cui quella tragicità si tramutava in una specie di fatalità, proprio perché restava ancora troppo oscuro il meccanismo che portava a quelle esclusioni, che trascinava a quell'esito il ladro di biciclette, o lo «sciuscià» romano, e il vagabondo di Ossessione.
E' sin troppo facile annotare che anche le opere più significative del cinema neorealistico rimasero tutte al di qua dei cancelli della fabbrica. Non stiamo ad indicare una carenza di «temi», un limite di «argomenti», ma la debole coscienza che si aveva della contraddizione positiva che si organizzava nella società. In questo senso, sì, si restava ancora al di qua di una soglia. Non per caso molte di quelle opere — come era avvenuto per Ossessione — erano ancora registrazione dell'«accaduto», approccio finalmente veritiero ad una società italiana come era stata formata, e davano quella sensazione di fissità. Non per caso ciò che della stessa ricerca gramsciana, in quegli anni, penetrò in tanta parte della cultura democratica e progressista furono più certe ricognizioni della storia italiana, che non Americanismo e fordismo o le riflessioni sulla «guerra di posizione».
Si determinò così una singolare contraddizione anche nelle vicende personali di alcuni intellettuali dello schieramento progressista, per cui ad una forte adesione politica ai partiti operai e al sindacato, si accompagnarono troppo spesso, nelle loro opere, un silenzio sui partiti operai e sul sindacato, e una rappresentazione in cui le classi subalterne stavano ancora in ginocchio. A me non sembra che questo possa spiegarsi solo con la repressione clerico-moderata, con il terrorismo ideologico, con il condizionamento dell'industria culturale: tutti fatti che allora ci furono. Cercherei una risposta nel tipo di conoscenza della società, che lo spostamento di ceti intellettuali, di cui troviamo una partenza in Ossessione, recava con sé.
Pesò una interpretazione dei fascismo, del blocco dominante, come stagnazione, come statico permanere dell'arretratezza, che forse rese, indecifrabili (e perciò interpretabili come «tattica» o come «imbroglio») anche alcuni elementi essenziali della strategia democratica togliattiana. Se posso dirlo in modo assai sommario, ci fu un equivoco sul leninismo, il quale o fu inteso con il volto di Stalin o non fu inteso. Tanto è vero che gli sviluppi nuovi della lotta del movimento operaio italiano restarono in ombra, o furono visti soprattutto nella rivolta della Resistenza: ma la Resistenza stessa, più che come democrazia che si organizzava, fu rappresentata sotto la specie della tragica necessità del sacrificio raccontata nelle cupe pagine dell'ultimo episodio di Paisà. Tanto è vero che quando il capitalismo italiano, a partire dagli anni cinquanta, si ristrutturò dentro la fabbrica e nella società, il neorealismo si disunì: proprio perché le categorie interpretative che esso adoperava non riuscivano a dare piena ragione della dinamica sociale: né sul versante capitalistico, né per ciò che riguarda le forme che poteva assumere la risposta operaia e popolare.
Io cercherei — ma qui esco dal seminato — in questi fatti la ragione di certi sviluppi dell'opera di Visconti negli anni cinquanta e in seguito. Non sono mai stato convinto del cliché formale che presenta Visconti come un individualista, un «aristocratico». A me è parso invece un organizzatore di cultura, un trasmettitore di moduli culturali, al punto di non rinunciare in una serie di momenti anche alla « maniera » (non respingerei questa parola). Perciò egli aveva bisogno di ascendenti, di riferimenti culturali molto precisi; e difatti quando gli mancavano, forzava artificialmente e melodrammaticamente gli schemi e i toni. Posso sbagliarmi, ma il travaglio che egli ha vissuto a partire dagli anni '50 fu anch'esso un riflesso della crisi di sviluppo che visse allora tutto un telaio interpretativo della società italiana maturato di fronte alla tragedia del fascismo. In questo senso non è stato sottolineato abbastanza, in questi giorni, che egli — nel suo significato più profondo — è stato un uomo dell'antifascismo: e non solo perché cospirò e andò in carcere sotto i nazisti a Roma. In, questo senso, anche tra le sue opere degli anni sessanta la più forte è Rocco, dove egli riprende e aggiorna il tema della tragedia che i traumi della società capitalistica inducono nelle classi subalterne. Forse le contraddizioni, i ripiegamenti di certe ultime opere sue dipendono dal fatto che al termine di Rocco, egli indica sì nell'operaio il nuovo protagonista, ma si ferma a quella indicazione; e sembra — per quanto lo riguarda — tornare a descrivere il tramonto degli altri, del mondo in cui era nato.

Rinascita, 26 marzo 1976

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