Non riesco a compiere una
riflessione su Ossessione, senza andare al momento politico in
cui quella prima opera di Visconti fu concepita e realizzata. Può
darsi che pesino in questo giudizio vicende personali, forzature
soggettive (ciò che pensavamo allora di fare, nel gruppo degli
intellettuali comunisti romani che collaborò in quegli anni con
Visconti), ma sono portato a sottolineare il collegamento tra l'opera
e l'impegno politico degli autori. Confesso che qualche volta ho
l'impressione che si sia impallidita la nozione della totalità ed
esclusività che, ad un certo momento, ebbe lo scontro con il
fascismo. E' probabile che oggi — a cose risolte — non sia facile
rivivere l'interrogativo pauroso che si aprì sulle sorti del mondo,
allora, in quegli anni in cui la macchina politica e militare di
Hitler sembrò travolgere l'uno dopo l'altro ogni confine, bruciando
istituti, forze, potenze secolari e sembrando toccare ormai una
dimensione planetaria. I massacri, i roghi, l'annientamento delle
città, i Lager, la cancellazione di Stati furono la
materializzazione di un mutamento che aggrediva principi di vita,
scale di valori, e quindi il posto e il ruolo stesso della cultura.
Tutto ciò spostò tragicamente la nostra esistenza. Direi che fumino
costretti a rivedere la nostra collocazione, a tal punto essendo
arrivata la portata della politica, giunta ormai a quella forma
assoluta di regime reazionario di massa, di Stato totalitario.
Perciò diventava
difficile, forse impossibile restare solo intellettuali (e cioè un
certo tipo di intellettuali); e fummo via via trascinati
dall'incalzare degli eventi a ripensare (sul terreno pratico e
teorico) il rapporto tra cultura e società, tra cultura e politica.
Ossessione, secondo me, è
la prima opera del cinema italiano che fa i conti con il fascismo,
nel suo senso più profondo. In essa non c'è (perché non ci poteva
essere) la parola antifascista esplicita: ma c'è — per la prima
volta — una lettura colpiti la nozione di famiglia, l'immagine
tradizionale dell'operaio, la rappresentazione dei rapporti sociali,
lo stesso ambiente materiale, fisico della vita italiana. Oggi le
approssimazioni, le sommarietà, persine le ingenuità, che erano in
quell'opera, sono visibili a occhio nudo. Ma la pagina che si
cominciava a scrivere era nuova, e rispondeva ad un altro modo di
intendere il nesso tra la rappresentazione artistica e il farsi della
società.
L'operazione era
consapevole. Bisogna ricordare che Alleata e De Santis, quando nel
1941 domandavano su Cinema «un'arte rivoluzionaria ispirata ad una
umanità che soffre e che spera», non intendevano parlale di una
«rivoluzione» generica; erano dirigenti e militanti di una
organizzazione clandestina comunista. Parlavano della rivoluzione
socialista. E' da vedere quanto fosse esatta allora la loro
concezione della rivoluzione. Ma quello era il tema. La via che
veniva tentata con Ossessione tra quella di una cultura che
riqualificasse se stessa in rapporto ad un nuovo soggetto della
storia, che era stato riconosciuto attraverso un lungo travaglio,
politico ed intellettuale, cominciato nella seconda metà degli anni
trenta. L'«umanità che soffre e che spera » era il nome cifrato
che alludeva alla classe operaia. Quegli scritti su “Cinema”
erano un aspetto di una lotta, che trovava il suo sbocco culminante
nella cospirazione politica.
Anche l'interesse per il
cinema era assai meno casuale e — come dire? — « soggettivo »
di quanto si possa pensare. Forse sarebbero da studiare di più i
canali curiosi, attraverso cui maturarono certi processi di
rinnovamento nella gioventù italiana della seconda metà degli anni
trenta. Si potrebbero intendere meglio non solo i giri tortuosi che
si dovettero fare dinnanzi ad un regime totalitario senza precedenti,
ma anche la singolarità delle strade mediante le quali si arriva a
certe svolte politiche, di cultura, di costume.
Se si guarda il cinema
italiano degli anni trenta, si trovano — è stato detto — i «
telefoni bianchi ». Ma sotto quella crosta, e proprio attraverso le
suggestioni che il nuovo mezzo di espressione esercitava su una nuova
generazione di giovani (anche per come esso penetrò nei « Guf »),
si sviluppò una ricerca critica, che trovò i suoi testi principali
negli scritti di Pudovkhin e di Bela Balàsz. Non credo di esagerare
sostenendo che per quella via si stabilì un fragile, ma preciso
canale di collegamento con correnti fondamentali dell'Europa
progressista: con la grande stagione dell'espressionismo tedesco, con
il surrealismo di Clair e di Bunuel, con il potente cinema sovietico
degli Eisenstein, dei Dovgenko, dei Pudovkhin. Così — e avvenne
anche per le arti figurative — suggestioni che inizialmente erano
solo di linguaggio, di forme espressive, e perciò rimandavano ancora
ad un'idea « separata » dell'arte, di fronte all'esplodere della
crisi della società in forme politiche così totali, emersero in
tutta la loro pregnan-za generale, come da una scrittura in
inchiostro simpatico. Cosi la Corazzata Potemkin non fu più
solo un dirompente canone stilistico, ma apparve come una proposta
politico-culturale; e tutta la poetica pudovlchiana, che puntava sui
montaggio come svelamento oggettivo dei rapporti oggettivi fra le
cose e tra gli uomini, venne assorbita e usata per cercare una
rappresentazione artistica, la quale portasse fuori non solo dalla
retorica fascista, ma anche dal rifugio nella «prosa d'arte», nella
«letteratura della memoria», e consentisse una riscoperta della
società a livello di una comunicazione di massa. E d'altra parte il
fascismo stesso, per la dimensione inedita che aveva dato al
controllo autoritario delle masse, finiva per segnalarci il limite
degli strumenti culturali attorco a cui si era organizzata in Italia
la resistenza di una certa « società delle lettere » ai regime: ci
suggeriva un mutamento nella collocazione degli intellettuali, ci
sospingeva verso altre forme e dimensioni di comunicazione con il
nostro prossimo.
Nel gruppo degli
intellettuali comunisti romani che lavorarono con Visconti, questa
ragione dell'approccio ai cinema si incontrò (e Alicata ne
rappresenta un e-sempio esplicito) con l'amore per il grande romanzo
europeo, inteso come lo strumento in cui si era espressa una forte
coscienza di sé della civiltà borghese e al tempo stesso il primo
precipitare della sua crisi. Non c'era arrivato nulla dei famosi
scritti di Lukas sul realismo critico; ma in qualche modo il senso
c'era giunto attraverso il modo con cui i padri della grande
narrativa democratica europea si erano schierati sul fronte
dell'antifascismo e dinanzi alla rivoluzione spagnola, e attraverso
l'esaltazione emblematica che di questi filoni — a partire
soprattutto dal VII Congresso — aveva fatto il movimento comunista
internazionale. Forse non si è sottolineato abbastanza come la
rivoluzione spagnola fu un tornante non solo nella storia politica ma
nella vicenda culturale delle nuove generazioni degli anni trenta, e
come anche sotto quest'aspetto essa fu davvero la prima,
irrimediabile sconfitta del fascismo. E' certo che attraverso quella
saldatura passò, in una parte delle nuove generazioni intellettuali
italiane, un recupero dei romanzo come ideologia, come lettura in
trasparenza della, ossatura di una società, che trovava un terreno
di attecchimento nella formazione «umanistica», e cioè nelle forme
di coscienza tipiche di determinati ceti intellettuali italiani. Il
cinema sembrava allora a noi lo strumento più adatto a dare una
paradigmaticità a questa narrazione «ideologica», e al tempo
stesso a fornirle una modernità di linguaggio che — scavalcando
l'estetica lukacsiana — recuperava un contatto anche con le
avanguardie (non fu forse il cinema l'unico canale attraverso cui ci
giunse in quegli anni, in qualche modo, il nome di Brecht?).
E il cinema come, romanzo
«ideologico» fu la base dell'incontro con Visconti. Anche qui il
rapporto di Visconti con l'esperienza di Renoir parla chiaro: sia nel
senso delle forme di conoscenza a cui rimanda (il nesso col
naturalismo sociale francese, il senso dell'affresco ricavato dalla
pittura impressionista, il gusto dei caratteri come emblemi dei
grandi conflitti umani), sia per il collegamento con la grande
stagione del Fronte popolare.
Visconti ha fatto
dichiarazioni assai precise sull'orientamento comunista che egli
respirò nel «clan» di Renoir, al momento della sua esperienza
parigina e del suo primo avvicinamento al cinema. Non è una
forzatura retrodatata. Anzi, per intendere bene che cosa fu per
intellettuali come Visconti l'adesione al comunismo, — e anche i
caratteri che essa ebbe — bisogna mettere una data precisa.
Adesione al comunismo significò prima di tutto una chiave di lettura
del fascismo, come imbarbarimento della società su una motivazione
di classe; e ricerca di una risposta adeguata alla violenza inaudita
e al potere di classe che il fascismo esprimeva. Allora,
probabilmente, quella adesione non fu altro di più; ma era una
collocazione che già spostava profondamente il carattere
dell'impegno intellettuale e l'atteggiamento nei riguardi della
sinistra operaia, cominciando — certo: solo cominciando! — a
colmare una frattura, che era stata una delle ragioni della terribile
sconfitta del '21-'22.
Non per caso la gran
parte dei progetti di film su cui discutemmo prima di Ossessione
ruotarono tutti attorno a due tematiche: il romanzo americano e
Verga. Il romanzo americano degli anni trenta ci forniva l'immagine
di una società dove esplodevano apertamente le contraddizioni
sociali, in termini che, per una parte ci consentiva quella ricerca
di «tipicità» a cui ci spingeva il nostro inconsapevole
lukacsismo, e per un altro verso ci forniva un'immagine di quel
conflitto tra avanzata dell'industrialismo e disgregazione del mondo
contadino, che per tante ragioni si raccordava a una nostra idea
della società italiana. Qui incontravamo Verga, di cui giustamente
non ci importava gran che la soggettiva ideologia conservatrice,
quanto lo spaccato che egli dava di una società di classe e la
rappresentazione di un blocco agrario, che consideravamo elemento
decisivo di una storia nazionale reazionaria.
Dentro questi « paesaggi
» ideali, naturalmente agivano umori personali assai vari: il
populismo poetizzante con cui alcuni di noi tendevano a riscattare
la mediocrità della provincia contadina in cui eravamo cresciuti; le
forzature tipologiche con cui uno come Alicata cercava di dare forma
rappresentativa ad uno storicismo materialista; la spinta ricorrente
di Visconti a ripiegare verso l'analisi del mondo da cui veniva (ci
propose di fare un film sulla Signora delle camelie, e noi non
capimmo). E tuttavia Ossessione, nonostante tutte le aporie
interne, rappresentò la prima opera del cinema con cui, dalla
tragedia del fascismo, si derivava un tentativo di arte militante,
che si rendesse partecipe e complice di un riscatto delle classi
subalterne. Era la prima materializzazione di uno spostamento, e
forse ciò era significativo proprio perché esprimeva una
dislocazione di nuove generazioni cresciute dentro il regime
fascista.
Lo spostamento non si
arrestò. Io non condivido le valutazioni che mettono una cesura
perentoria tra Ossessione e il cinema neorealistico italiano
della seconda metà degli anni quaranta; e con ciò non mi sogno di
dimenticare la forte diversità di approcci alla realtà e di forme
espressive che corrono tra le varie opere raccolte sotto la sigla
sommaria del neorealismo e — per esempio — tra il «
documentarismo » di un Zavattini e la disposizione al romanzo,
persino al melodramma, di uno come Visconti. Ma resta una
dislocazione comune in rapporto ai caratteri strutturali della
società. A veder bene, nelle più significative di quelle opere, non
ci sono più solo i « poveri », i derelitti, e cioè la denuncia di
una insufficienza e di una ingiustizia, ma la sottolineatura di un
guasto organico della società, di una condizione scissa, la quale ha
caratteri radicali. Perciò alcune di quelle opere danno un senso
inconsueto di tragicità. Perciò quei personaggi, pur nell'estrema
mediocrità e quotidianità della loro vicenda, non hanno più un
aspetto di «umili»: cominciano ad essere assunti in un'altra luce,
inconsueta nella cultura italiana.
Questo è il motivo per
cui abbiamo parlato di uno spostamento, che va colto al di là della
elementarità» e sentimentalità di molte di quelle opere e che
riuscì a resistere anche allo scatenarsi del riflusso
clerico-moclerato del '47-'48, sino a costituire — e proprio
attraverso certe opere di cinema — un elemento, di collegamento tra
l'ala più avanzata della società italiana e ceti intermedi, e
strati di intellettuali tipici della nuova società di massa. Lo
stesso rifiuto dell'anticomunismo, che quello spostamento
implicitamente esprimeva, è stato una peculiarità della società
italiana. Non in tutti i paesi dell'Europa è stato così.
Cogliere — sia pure
forzandolo — questo significato dell'aggregazione che si produsse
attorno al cinema neorealistico italiano aiuta ad intenderne meglio
anche i limiti, i quali stavano nella staticità della lettura che
veniva fatta della società italiana: per cui quella tragicità si
tramutava in una specie di fatalità, proprio perché restava ancora
troppo oscuro il meccanismo che portava a quelle esclusioni, che
trascinava a quell'esito il ladro di biciclette, o lo «sciuscià»
romano, e il vagabondo di Ossessione.
E' sin troppo facile
annotare che anche le opere più significative del cinema
neorealistico rimasero tutte al di qua dei cancelli della fabbrica.
Non stiamo ad indicare una carenza di «temi», un limite di
«argomenti», ma la debole coscienza che si aveva della
contraddizione positiva che si organizzava nella società. In questo
senso, sì, si restava ancora al di qua di una soglia. Non per caso
molte di quelle opere — come era avvenuto per Ossessione —
erano ancora registrazione dell'«accaduto», approccio finalmente
veritiero ad una società italiana come era stata formata, e davano
quella sensazione di fissità. Non per caso ciò che della stessa
ricerca gramsciana, in quegli anni, penetrò in tanta parte della
cultura democratica e progressista furono più certe ricognizioni
della storia italiana, che non Americanismo e fordismo o le
riflessioni sulla «guerra di posizione».
Si determinò così una
singolare contraddizione anche nelle vicende personali di alcuni
intellettuali dello schieramento progressista, per cui ad una forte
adesione politica ai partiti operai e al sindacato, si accompagnarono
troppo spesso, nelle loro opere, un silenzio sui partiti operai e sul
sindacato, e una rappresentazione in cui le classi subalterne stavano
ancora in ginocchio. A me non sembra che questo possa spiegarsi solo
con la repressione clerico-moderata, con il terrorismo ideologico,
con il condizionamento dell'industria culturale: tutti fatti che
allora ci furono. Cercherei una risposta nel tipo di conoscenza della
società, che lo spostamento di ceti intellettuali, di cui
troviamo una partenza in Ossessione, recava con sé.
Pesò una interpretazione
dei fascismo, del blocco dominante, come stagnazione, come statico
permanere dell'arretratezza, che forse rese, indecifrabili (e perciò
interpretabili come «tattica» o come «imbroglio») anche alcuni
elementi essenziali della strategia democratica togliattiana. Se
posso dirlo in modo assai sommario, ci fu un equivoco sul leninismo,
il quale o fu inteso con il volto di Stalin o non fu inteso. Tanto è
vero che gli sviluppi nuovi della lotta del movimento operaio
italiano restarono in ombra, o furono visti soprattutto nella rivolta
della Resistenza: ma la Resistenza stessa, più che come democrazia
che si organizzava, fu rappresentata sotto la specie della tragica
necessità del sacrificio raccontata nelle cupe pagine dell'ultimo
episodio di Paisà. Tanto è vero che quando il capitalismo
italiano, a partire dagli anni cinquanta, si ristrutturò dentro la
fabbrica e nella società, il neorealismo si disunì: proprio perché
le categorie interpretative che esso adoperava non riuscivano a dare
piena ragione della dinamica sociale: né sul versante capitalistico,
né per ciò che riguarda le forme che poteva assumere la risposta
operaia e popolare.
Io cercherei — ma qui
esco dal seminato — in questi fatti la ragione di certi sviluppi
dell'opera di Visconti negli anni cinquanta e in seguito. Non sono
mai stato convinto del cliché formale che presenta Visconti come un
individualista, un «aristocratico». A me è parso invece un
organizzatore di cultura, un trasmettitore di moduli culturali, al
punto di non rinunciare in una serie di momenti anche alla « maniera
» (non respingerei questa parola). Perciò egli aveva bisogno di
ascendenti, di riferimenti culturali molto precisi; e difatti quando
gli mancavano, forzava artificialmente e melodrammaticamente gli
schemi e i toni. Posso sbagliarmi, ma il travaglio che egli ha
vissuto a partire dagli anni '50 fu anch'esso un riflesso della crisi
di sviluppo che visse allora tutto un telaio interpretativo della
società italiana maturato di fronte alla tragedia del fascismo. In
questo senso non è stato sottolineato abbastanza, in questi giorni,
che egli — nel suo significato più profondo — è stato un uomo
dell'antifascismo: e non solo perché cospirò e andò in carcere
sotto i nazisti a Roma. In, questo senso, anche tra le sue opere
degli anni sessanta la più forte è Rocco, dove egli riprende e
aggiorna il tema della tragedia che i traumi della società
capitalistica inducono nelle classi subalterne. Forse le
contraddizioni, i ripiegamenti di certe ultime opere sue dipendono
dal fatto che al termine di Rocco, egli indica sì nell'operaio il
nuovo protagonista, ma si ferma a quella indicazione; e sembra —
per quanto lo riguarda — tornare a descrivere il tramonto degli
altri, del mondo in cui era nato.
Rinascita, 26 marzo 1976
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